[2006#0] QVERINI
QVERINI STAMPALIA
Allo sguardo di chi, per accedere al palazzo Querini Stampalia, si accinga ad attraversare il ponte-passerella o si trovi a sostare, per ammirarne il disegno, nel campiello Querini da cui si libra con lieve eleganza, difficilmente sfuggirà quel luminoso riquadro che campeggia in alto, sospeso – come suggerisce l’ombra – sulla facciata, tra la finestra sovrastante la bucatura d’accesso e la quadrifora balconata del piano nobile. È la targa dal fondo dorato, ove si legge il nome del palazzo: un prezioso sigillo monumentale, impaginato con esperto calcolo di proporzioni e di equilibri tra pieni e vuoti. Si tratta di un episodio ulteriore di quell’arte del congiungere, congeniale al suo autore, coniugata a un esercizio raffinato di archigrafia, la letterale scrittura architettonica, reiteramente praticata da Carlo Scarpa. In questo suggello lapideo trovano infatti accordo la figura del quadrato dorato di fondo, la scritta sbalzata in maiuscole (scelta in sé non ovvia, viste le preferenze di Scarpa in situazioni diverse e anche nello stesso palazzo, ove si trova un’altra targa, che dialoga con questa esterna – il tema dell’archigrafia scarpiana è ancora da indagare) e il sottostante stemma araldico in bassorilievo, entro una sottile cornice. Quest’ultima è un articolato, esile ma sicuro fermaglio che accoglie simmetricamente ai lati un nastro (alleggerito da una foratura attentamente dimensionata e concluso in modo curvilineo) e al vertice un terminale ansato, a bocca di anfora, definito esternamente da raccordi a quarto di cerchio e internamente scavato da una gola a sezione costante, alla quale corrisponde l’interruzione della cornice in basso. Soffermando l’attenzione sulla scritta, posizionata nel centro ottico del quadrato, si nota che è composta a lapide, ossia è centrata sul proprio asse verticale, in modo abilmente temperato: con un leggero e accorto slittamento a destra della parola QVERINI, per meglio appoggiarsi sulla compatta STA iniziale di STAMPALIA, salvaguardando al contempo l’equilibrio dei contrografismi – tra la T e la Q, in particolare. La scelta del repertorio letterale rimanda immediatamente alla lapide monumentale antica, classica, più precisamente alle capitali epigrafiche imperiali romane, che costituiscono (con minimi adattamenti evolutivi e integrazioni) il complesso delle maiuscole del nostro attuale alfabeto; ciò è confermato, tra l’altro, dall’uso antiquario del segno V per la U (separazione affermatasi più tardi) nella parola QVERINI. Nel segno della tradizione formatasi a Roma e divenuta convenzione prevalente, anche queste lettere hanno i piedi per terra, per così dire, ossia si appoggiano a una immaginaria linea di base, a differenza di altre consuetudini scrittorie, storicamente precedenti ma non solo. Fanno eccezione la T e la I di STAMPALIA, rialzate per economia di composizione (STAMPALIA risulta più stretta e meglio si rapporta con la sovrastante QVERINI, senza troppo “uscire”) ma non immemori di analoghe soluzioni o, anche, rimedi dell’epigrafia classica, tra l’altro non rare proprio per la T e I (talora allungate, per ragion ottica). La massima parte delle epigrafi classiche veniva realizzata dal lapicida in scavo, per asporto di materia, dopo che, secondo una delle ipotesi più accreditate al proposito, l’ordinator le aveva tracciate con pennello piatto (donde le grazie ossia i sottili tratti terminali, in genere simmetrici, secondo la stessa ipotesi, nei punti di “entrata” e “uscita” del segno), con solco a v in sezione, successivamente dipinto di nero in molti casi. Questa iscrizione, invece, è in rilievo e ricorda piuttosto l’altra, alternativa e più rara, soluzione classica, con lettere fuse in bronzo (di medesimo disegno di quelle dipinte e poi scalpellate), inalveolate entro sedi scavate a misura e fissate con piombo fuso, risultanti in epigrafi in leggero rilievo, molto più costose e a lor modo ancor più preziose, riservate a occasioni d’eccellenza, se non d’eccezione. In sintesi, dunque, la struttura della scritta e delle lettere scelte da Scarpa è quella archigrafica per antonomasia; resta da chiedersi, in quale accezione e da quale modello o fonte che dir si voglia – visto che, nei secoli, di interpretazioni del disegno delle capitali epigrafiche classiche se ne son succedute non poche, e assai significative? Si può ragionevolmente ipotizzare al proposito il suggerimento o, quantomeno, il consiglio e la consultazione, da parte di Scarpa, di un personaggio a lui familiare e sodale, quale Hans Giovanni Mardersteig (1892-1977), illustre studioso del campo (in particolare, della calligrafia umanistica e della tipografia rinascimentale), oltre che disegnatore di caratteri (Griffo, Zeno, Pacioli, Dante, Fontana, Zarotto) e stampatore di straordinaria qualità (prima con l’Officina Bodoni a Montagnola presso Lugano e poi con la Stamperia Valdonega presso Verona, ancora attiva). In un primo momento, anche in relazione all’ipotesi di un probabile scambio tra Scarpa e Mardersteig sul tema, si potrebbe pensare a una fonte quale i tipi aldini, ai caratteri incisi dal Griffo (l’eccelso punzonista di Aldo Manuzio, alla cui opera Garamond – tra altri – palesemente si ispirerà per uno dei tipi tuttora più diffusi) nel 1495 per il De Aetna, ad esempio, che non distano molto da quanto appare nella targa. Ma la peculiarità di disegno di alcune lettere della scritta QVERINI STAMPALIA suggerisce di cercarne il modello altrove, anche al di fuori dell’ambito del disegno dei tipi a stampa, come si addice a un’archigrafia monumentale. In particolare, si devono osservare: la Q, che in genere nei caratteri incisi dal Griffo (come in tutta la tradizione antica e calligrafica) ha una coda molto più sviluppata, sinuosa e avvolgente (anche se non manca una forma simile a quella della Q di QVERINI nei tipi del De Aetna); la coda della R, rigida, molto lunga (con l’effetto di allontanare la lettera successiva oltre l’usuale), un po’ impacciata e mal raccordata al disegno della P, da cui deriva; la posizione molto alta, verso la testa, dell’asta orizzontale della A; soprattutto, le grazie convergenti nell’asta orizzontale della T, una soluzione assente da qualsiasi carattere tipografico, aldino o meno - una vera idiosincrasia formale. Nei disegni noti di Scarpa per la targa si riconosce, del resto, l’affinamento da una prima versione, in cui le lettere sono prive di grazie (come accade frequentemente nell’epigrafia romana repubblicana, in specie in quella più antica, e poi in quella rinascimentale fiorentina del Quattrocento), alla soluzione poi eseguita, con lettere graziate, in cui la mano del progettista insiste sulle sequenze più difficili e torna sulla forma intrinsecamente complessa della Q. Ponendo mente, a questo punto, agli altri interessi e agli studi coevi di Mardersteig, si affaccia lampante la soluzione, scoprendo l’esatto, assai acconcio e autoriale modello a cui si ispira Scarpa: la lunga scritta tracciata dall’Alberti e incisa nel 1467 con eleganti lettere maiuscole nella fascia (una dedicatoria, con lettere di identico disegno, si trova nel riquadro sopra l’accesso) della trabeazione del sacello Rucellai in san Pancrazio a Firenze, ove si legge – tra l’altro – QVERITIS, le cui prime cinque lettere sono le stesse prime cinque di QVERINI. L’identità di struttura nel disegno delle lettere è totale, sia nell’assieme che isolate (non solo e non tanto per la Q, quanto per la R e la T; ma si devono osservare anche la M, la S, la P con la coppa non raccordata all’asta montante). La differenza, visibilissima, sta tutta nello spessore del tratto delle aste: sottili (e/perché incise) in Alberti, spesse (e/perché in rilievo) in Scarpa. In altri termini, Scarpa riprende “alla lettera” (niente di più appropriato, in questo caso) il ritmo e la struttura di disegno dell’Alberti, allargando proporzionalmente e abbastanza decisamente il ductus (ma non le grazie) dei segni – analogamente a quanto accade nelle famiglie di tipi a stampa, nel passare da serie chiare a serie scure, sullo stesso scheletro. Le ragioni di questo rafforzamento di “colore” (come si usa dire in termini tipografici) sono facilmente intuibili; in primis la leggibilità nel contesto specifico ma anche la personale sensibilità ottico-materica, associata ad un’altra testimonianza delle ”intenzioni” da scoprire del progettista, nel concreto della colta reinvenzione albertiana: “un’enorme volontà di essere dentro la tradizione”.
[in AA.VV., Carlo Scarpa. La Fondazione Querini Stampalia a Venezia, Electa, Milano, pp. 44-47]
Allo sguardo di chi, per accedere al palazzo Querini Stampalia, si accinga ad attraversare il ponte-passerella o si trovi a sostare, per ammirarne il disegno, nel campiello Querini da cui si libra con lieve eleganza, difficilmente sfuggirà quel luminoso riquadro che campeggia in alto, sospeso – come suggerisce l’ombra – sulla facciata, tra la finestra sovrastante la bucatura d’accesso e la quadrifora balconata del piano nobile. È la targa dal fondo dorato, ove si legge il nome del palazzo: un prezioso sigillo monumentale, impaginato con esperto calcolo di proporzioni e di equilibri tra pieni e vuoti. Si tratta di un episodio ulteriore di quell’arte del congiungere, congeniale al suo autore, coniugata a un esercizio raffinato di archigrafia, la letterale scrittura architettonica, reiteramente praticata da Carlo Scarpa. In questo suggello lapideo trovano infatti accordo la figura del quadrato dorato di fondo, la scritta sbalzata in maiuscole (scelta in sé non ovvia, viste le preferenze di Scarpa in situazioni diverse e anche nello stesso palazzo, ove si trova un’altra targa, che dialoga con questa esterna – il tema dell’archigrafia scarpiana è ancora da indagare) e il sottostante stemma araldico in bassorilievo, entro una sottile cornice. Quest’ultima è un articolato, esile ma sicuro fermaglio che accoglie simmetricamente ai lati un nastro (alleggerito da una foratura attentamente dimensionata e concluso in modo curvilineo) e al vertice un terminale ansato, a bocca di anfora, definito esternamente da raccordi a quarto di cerchio e internamente scavato da una gola a sezione costante, alla quale corrisponde l’interruzione della cornice in basso. Soffermando l’attenzione sulla scritta, posizionata nel centro ottico del quadrato, si nota che è composta a lapide, ossia è centrata sul proprio asse verticale, in modo abilmente temperato: con un leggero e accorto slittamento a destra della parola QVERINI, per meglio appoggiarsi sulla compatta STA iniziale di STAMPALIA, salvaguardando al contempo l’equilibrio dei contrografismi – tra la T e la Q, in particolare. La scelta del repertorio letterale rimanda immediatamente alla lapide monumentale antica, classica, più precisamente alle capitali epigrafiche imperiali romane, che costituiscono (con minimi adattamenti evolutivi e integrazioni) il complesso delle maiuscole del nostro attuale alfabeto; ciò è confermato, tra l’altro, dall’uso antiquario del segno V per la U (separazione affermatasi più tardi) nella parola QVERINI. Nel segno della tradizione formatasi a Roma e divenuta convenzione prevalente, anche queste lettere hanno i piedi per terra, per così dire, ossia si appoggiano a una immaginaria linea di base, a differenza di altre consuetudini scrittorie, storicamente precedenti ma non solo. Fanno eccezione la T e la I di STAMPALIA, rialzate per economia di composizione (STAMPALIA risulta più stretta e meglio si rapporta con la sovrastante QVERINI, senza troppo “uscire”) ma non immemori di analoghe soluzioni o, anche, rimedi dell’epigrafia classica, tra l’altro non rare proprio per la T e I (talora allungate, per ragion ottica). La massima parte delle epigrafi classiche veniva realizzata dal lapicida in scavo, per asporto di materia, dopo che, secondo una delle ipotesi più accreditate al proposito, l’ordinator le aveva tracciate con pennello piatto (donde le grazie ossia i sottili tratti terminali, in genere simmetrici, secondo la stessa ipotesi, nei punti di “entrata” e “uscita” del segno), con solco a v in sezione, successivamente dipinto di nero in molti casi. Questa iscrizione, invece, è in rilievo e ricorda piuttosto l’altra, alternativa e più rara, soluzione classica, con lettere fuse in bronzo (di medesimo disegno di quelle dipinte e poi scalpellate), inalveolate entro sedi scavate a misura e fissate con piombo fuso, risultanti in epigrafi in leggero rilievo, molto più costose e a lor modo ancor più preziose, riservate a occasioni d’eccellenza, se non d’eccezione. In sintesi, dunque, la struttura della scritta e delle lettere scelte da Scarpa è quella archigrafica per antonomasia; resta da chiedersi, in quale accezione e da quale modello o fonte che dir si voglia – visto che, nei secoli, di interpretazioni del disegno delle capitali epigrafiche classiche se ne son succedute non poche, e assai significative? Si può ragionevolmente ipotizzare al proposito il suggerimento o, quantomeno, il consiglio e la consultazione, da parte di Scarpa, di un personaggio a lui familiare e sodale, quale Hans Giovanni Mardersteig (1892-1977), illustre studioso del campo (in particolare, della calligrafia umanistica e della tipografia rinascimentale), oltre che disegnatore di caratteri (Griffo, Zeno, Pacioli, Dante, Fontana, Zarotto) e stampatore di straordinaria qualità (prima con l’Officina Bodoni a Montagnola presso Lugano e poi con la Stamperia Valdonega presso Verona, ancora attiva). In un primo momento, anche in relazione all’ipotesi di un probabile scambio tra Scarpa e Mardersteig sul tema, si potrebbe pensare a una fonte quale i tipi aldini, ai caratteri incisi dal Griffo (l’eccelso punzonista di Aldo Manuzio, alla cui opera Garamond – tra altri – palesemente si ispirerà per uno dei tipi tuttora più diffusi) nel 1495 per il De Aetna, ad esempio, che non distano molto da quanto appare nella targa. Ma la peculiarità di disegno di alcune lettere della scritta QVERINI STAMPALIA suggerisce di cercarne il modello altrove, anche al di fuori dell’ambito del disegno dei tipi a stampa, come si addice a un’archigrafia monumentale. In particolare, si devono osservare: la Q, che in genere nei caratteri incisi dal Griffo (come in tutta la tradizione antica e calligrafica) ha una coda molto più sviluppata, sinuosa e avvolgente (anche se non manca una forma simile a quella della Q di QVERINI nei tipi del De Aetna); la coda della R, rigida, molto lunga (con l’effetto di allontanare la lettera successiva oltre l’usuale), un po’ impacciata e mal raccordata al disegno della P, da cui deriva; la posizione molto alta, verso la testa, dell’asta orizzontale della A; soprattutto, le grazie convergenti nell’asta orizzontale della T, una soluzione assente da qualsiasi carattere tipografico, aldino o meno - una vera idiosincrasia formale. Nei disegni noti di Scarpa per la targa si riconosce, del resto, l’affinamento da una prima versione, in cui le lettere sono prive di grazie (come accade frequentemente nell’epigrafia romana repubblicana, in specie in quella più antica, e poi in quella rinascimentale fiorentina del Quattrocento), alla soluzione poi eseguita, con lettere graziate, in cui la mano del progettista insiste sulle sequenze più difficili e torna sulla forma intrinsecamente complessa della Q. Ponendo mente, a questo punto, agli altri interessi e agli studi coevi di Mardersteig, si affaccia lampante la soluzione, scoprendo l’esatto, assai acconcio e autoriale modello a cui si ispira Scarpa: la lunga scritta tracciata dall’Alberti e incisa nel 1467 con eleganti lettere maiuscole nella fascia (una dedicatoria, con lettere di identico disegno, si trova nel riquadro sopra l’accesso) della trabeazione del sacello Rucellai in san Pancrazio a Firenze, ove si legge – tra l’altro – QVERITIS, le cui prime cinque lettere sono le stesse prime cinque di QVERINI. L’identità di struttura nel disegno delle lettere è totale, sia nell’assieme che isolate (non solo e non tanto per la Q, quanto per la R e la T; ma si devono osservare anche la M, la S, la P con la coppa non raccordata all’asta montante). La differenza, visibilissima, sta tutta nello spessore del tratto delle aste: sottili (e/perché incise) in Alberti, spesse (e/perché in rilievo) in Scarpa. In altri termini, Scarpa riprende “alla lettera” (niente di più appropriato, in questo caso) il ritmo e la struttura di disegno dell’Alberti, allargando proporzionalmente e abbastanza decisamente il ductus (ma non le grazie) dei segni – analogamente a quanto accade nelle famiglie di tipi a stampa, nel passare da serie chiare a serie scure, sullo stesso scheletro. Le ragioni di questo rafforzamento di “colore” (come si usa dire in termini tipografici) sono facilmente intuibili; in primis la leggibilità nel contesto specifico ma anche la personale sensibilità ottico-materica, associata ad un’altra testimonianza delle ”intenzioni” da scoprire del progettista, nel concreto della colta reinvenzione albertiana: “un’enorme volontà di essere dentro la tradizione”.
[in AA.VV., Carlo Scarpa. La Fondazione Querini Stampalia a Venezia, Electa, Milano, pp. 44-47]