[2005#03] senza parole
*
Le avete presenti, le vignette mute de “la Settimana” e sue innumerevoli imitazioni, con l’ineffabile sempr’identica dicitura “senza parole”?
Si suppone, infatti, che quelle immagini parlino da sé, senza commenti, e facciano sorridere, magari ridere: sempre meglio ridere che piangere; ancor meglio né piangere né indignarsi ma cercare di capire, ha scritto un filosofo.
Vorrei farla breve, insomma, con le parole, che non mi pare qui servan tanto; bisogna (sapere e insegnare a) vedere, prima di parlare: serve raccogliere e mostrare, ancor prima di dimostrare qualcosa. All’occhio distratto, assuefatto, non serve nulla: è già sazio, saturo, accecato.
Ma è giusta una spiegazione, per i lettori. Eccola.
Nell’ideare queste pagine, dedicate al tema dell’immagine delle istituzioni pubbliche nel nostro paese, ho creduto che fosse preferibile farne una sorta di album del quotidiano, raccogliendovi un campionario episodico e soggettivo, con l’idea (o l’illusione, fate voi) che la parte possa valere per il tutto, senza parole.
Quasi: perciò queste righe che non son altro che una didascalia.
Quasi: perché è stato spiegato che, se è vero che un’immagine val mille parole, ogni immagine ha a sua volta bisogno di una qualche parola, foss’anche soltanto “senza parole”, per ridurre i propri margini di ambiguità, mancando di quel contesto discorsivo che invece normalmente delimita l’oscillazione dei significati nel linguaggio, comune o specializzato. “L’immagine, in quanto segno, in quanto elemento di un sistema di comunicazione – ha scritto infatti Roland Barthes, che se ne intende(va) certo più di me –, ha un considerevole valore impressivo. Si è tentato di studiare questo potere di choc ma […] occorre essere molto prudenti: in quanto segno, l’immagine comporta una debolezza, diciamo una difficoltà notevole che risiede nel suo carattere polisemico. Un’immagine irradia sensi differenti, che non sempre sappiamo padroneggiare […] per il linguaggio, il fenomeno della polisemia risulta notevolmente ridotto dal contesto, dalla presenza di altri segni, che indirizzano la scelta e la comprensione del lettore o dell’ascoltatore. L’immagine si presenta invece in modo globale, non discontinua, ed è per questo che è difficile determinarne il contesto […] Così, ciò che l’immagine guadagna in impressività lo perde spesso in chiarezza […] È stato detto e ripetuto che siamo entrati in una civiltà dell’immagine. Ma si dimentica che praticamente non c’è mai immagine senza parole, siano queste sotto forma di legenda, commento, sottotitolo, dialogo ecc”.
Qual migliore commento, dunque, a questo mio album di figure del testo di Peviani?
Son passati più di 70 anni e i problemi non son granché cambiati, parrebbe.
Educazione è ancora la parola chiave; assieme a “grafica”, quale disciplina di progettazione degli stampati (e simili) di massa e non solo d’élite – le istituzioni avrebbero prima di tutto il dovere e la responsabilità di saper informare, orientare, identificare; ma qui il discorso si farebbe lungo…
Comunque, non vi va senza parole?
Decidiamoci allora, per quanto ci riguarda: o tacere e accettare o continuare a credere, come reclamava Albe Steiner, in “grafici che sentano responsabilmente il valore della comunicazione visiva come mezzo che contribuisce a cambiare in meglio le cose peggiori […] grafici che sentano che la tecnica è un mezzo per trasmettere cultura e non strumento fine a se stesso per giustificare la sterilità del pensiero o peggio per sollecitare inutili bisogni, per continuare a progettare macchine, teorie, mostre, libri e oggetti inutili”.
[Senza parole, in “Progetto grafico” (Milano), 4/5, febbraio, pp. 6-17, sezione d’apertura della rivista, dedicata all’immagine delle istituzioni pubbliche, con nota esplicativa a p. 16; nello stesso fascicolo, ATypI Praga 2004, pp. 206-9, cronache del convegno tipografico internazionale]
Le avete presenti, le vignette mute de “la Settimana” e sue innumerevoli imitazioni, con l’ineffabile sempr’identica dicitura “senza parole”?
Si suppone, infatti, che quelle immagini parlino da sé, senza commenti, e facciano sorridere, magari ridere: sempre meglio ridere che piangere; ancor meglio né piangere né indignarsi ma cercare di capire, ha scritto un filosofo.
Vorrei farla breve, insomma, con le parole, che non mi pare qui servan tanto; bisogna (sapere e insegnare a) vedere, prima di parlare: serve raccogliere e mostrare, ancor prima di dimostrare qualcosa. All’occhio distratto, assuefatto, non serve nulla: è già sazio, saturo, accecato.
Ma è giusta una spiegazione, per i lettori. Eccola.
Nell’ideare queste pagine, dedicate al tema dell’immagine delle istituzioni pubbliche nel nostro paese, ho creduto che fosse preferibile farne una sorta di album del quotidiano, raccogliendovi un campionario episodico e soggettivo, con l’idea (o l’illusione, fate voi) che la parte possa valere per il tutto, senza parole.
Quasi: perciò queste righe che non son altro che una didascalia.
Quasi: perché è stato spiegato che, se è vero che un’immagine val mille parole, ogni immagine ha a sua volta bisogno di una qualche parola, foss’anche soltanto “senza parole”, per ridurre i propri margini di ambiguità, mancando di quel contesto discorsivo che invece normalmente delimita l’oscillazione dei significati nel linguaggio, comune o specializzato. “L’immagine, in quanto segno, in quanto elemento di un sistema di comunicazione – ha scritto infatti Roland Barthes, che se ne intende(va) certo più di me –, ha un considerevole valore impressivo. Si è tentato di studiare questo potere di choc ma […] occorre essere molto prudenti: in quanto segno, l’immagine comporta una debolezza, diciamo una difficoltà notevole che risiede nel suo carattere polisemico. Un’immagine irradia sensi differenti, che non sempre sappiamo padroneggiare […] per il linguaggio, il fenomeno della polisemia risulta notevolmente ridotto dal contesto, dalla presenza di altri segni, che indirizzano la scelta e la comprensione del lettore o dell’ascoltatore. L’immagine si presenta invece in modo globale, non discontinua, ed è per questo che è difficile determinarne il contesto […] Così, ciò che l’immagine guadagna in impressività lo perde spesso in chiarezza […] È stato detto e ripetuto che siamo entrati in una civiltà dell’immagine. Ma si dimentica che praticamente non c’è mai immagine senza parole, siano queste sotto forma di legenda, commento, sottotitolo, dialogo ecc”.
Qual migliore commento, dunque, a questo mio album di figure del testo di Peviani?
Son passati più di 70 anni e i problemi non son granché cambiati, parrebbe.
Educazione è ancora la parola chiave; assieme a “grafica”, quale disciplina di progettazione degli stampati (e simili) di massa e non solo d’élite – le istituzioni avrebbero prima di tutto il dovere e la responsabilità di saper informare, orientare, identificare; ma qui il discorso si farebbe lungo…
Comunque, non vi va senza parole?
Decidiamoci allora, per quanto ci riguarda: o tacere e accettare o continuare a credere, come reclamava Albe Steiner, in “grafici che sentano responsabilmente il valore della comunicazione visiva come mezzo che contribuisce a cambiare in meglio le cose peggiori […] grafici che sentano che la tecnica è un mezzo per trasmettere cultura e non strumento fine a se stesso per giustificare la sterilità del pensiero o peggio per sollecitare inutili bisogni, per continuare a progettare macchine, teorie, mostre, libri e oggetti inutili”.
[Senza parole, in “Progetto grafico” (Milano), 4/5, febbraio, pp. 6-17, sezione d’apertura della rivista, dedicata all’immagine delle istituzioni pubbliche, con nota esplicativa a p. 16; nello stesso fascicolo, ATypI Praga 2004, pp. 206-9, cronache del convegno tipografico internazionale]