18.12.04

[2004#09] la sfida del design


Per ragionare con una qualche agile destrezza, come qui si conviene, di arte e design, bisognerebbe esser più o meno certi di intendersi reciprocamente; in altri termini, sarebbe bene ritenersi grosso modo sicuri di concordare sul significato che attribuiamo alle due parole, non prive di interpretazioni molteplici e spesso contraddittorie, talora anche confuse e vaghe, sia nel linguaggio comune che in quelli specialistici.
Altrimenti, son garantiti fischi per fiaschi; il che è possibile e, in una certa misura, alla fin fine, probabile.
Non è poi così grave; corriamo il rischio e andiamo brevemente avanti, perché comunque le definizioni (necessarie a ogni discorso con pretese scientifiche e non salottiere) non sempre soddisfano, astrattamente scandite. Forse può bastare avvicinarsi da un lato solo alla questione, prendendola dalla parte del fare, dei designers più che del design, ad esempio.
“È difficile dare una esatta definizione di industrial designer, ma credo che risulti chiaro quello che io definisco un vero industrial designer: colui che, lavorando in gruppo progetta e realizza oggetti veri per dei bisogni reali. Il suo lavoro è produrre oggetti di grande serie per la comunità: molto diverso da quello dell’artista che produce opere rare per sé o destinate a una élite” ha spiegato Achille Castiglioni, con vissuta competenza, precisando che “i vari tentativi di dare definizioni della parola design sono quasi sempre inutili, ma è altrettanto vero che inquadrare, anche solo entro labili confini, un’area di progettualità è abbastanza importante per combattere almeno la maniacale visione totalizzante del design di oggi: tutto, ovunque, è sempre design, dalla moda all’architettura, dall’urbanistica alla grafica, fino all’engineering, ecc. Sostanzialmente, invece, si tratta di occuparsi seriamente e con caratteristiche non effimere del progetto di produzione, nel nostro ambiente artificiale, o meglio di accettare la sfida del progetto del nostro futuro artificiale”.
Per chi si riconosca in questa posizione, resta veramente poco da aggiungere, se non riconoscere che, d’altro canto, la storia (delle arti, in senso lato) mostra con evidenza come taluni uomini siano capaci di essere, al contempo, artisti e designers (e altro ancora, in certi casi): come definiremmo, altrimenti, figure quali Peter Behrens o Franco Grignani, tanto per citarne due? Il che suggerisce anche come siano complesse, sfaccettate e plurali le strade su cui possono continuare a misurarsi le sfide di progetto per gli arte-fatti del nostro futuro.
A chi, invece, dissente, lasciamo tutta la consolazione dell’invenzione geniale di Karl Philipp Moritz e del pensiero romantico: l’arte come autonoma attività creativa[*], all’occorrenza spalmabile sul design qb, si raccomanda con cura, come ogni buon cosmetico; ma in questo caso, la sfida del progetto pare già persa.
nota
(* Non a caso, molti tra i dissenzienti vengon chiamati “creativi”.)

[La sfida del design, in “Sugo” (Venezia), 2005, 2, pp. 174 e 193]


17.12.04

[2004#08] verdi e bodoni


Forza ed eleganza, questi i caratteri della grafica (italiana), ti spiega Vignelli, con quel suo fare divertito e sicuro che ammalia e convince subito; forza ed eleganza per esprimere i contenuti, per far sì che possano parlare chiaro, nitido, diritto, con garbo e nerbo.
La minima forma utile, per dirla con una formula, nasce dal materiale, continua Vignelli, dalla sua complessione intrinseca; il progettista deve saperne discernere la struttura, scrutarne la complessità, ascoltare per orchestrarla, per organizzare l’informazione in modo responsabile ed efficace, razionale e fungibile. Imparare dalle cose, non imporre forme a priori.
Servono: tempo e passione, dedizione e impegno, chi ne è avaro non ci si azzardi.
Il resto lo si può ben lasciare agli artisti. Di cui il mondo della grafica par oggi repleto, sino alla nausea; quelli che fanno le riviste in modo che non si possano leggere (tanto si ve[n]de la copertina), i manifesti per manifestar se stessi, i libri con caratteri di tendenza e le immagini sovrapposte e se non c’è l’argento tra i colori di stampa, almeno un fluo, per favore…

[chiosa all’intervista a Vignelli pubblicata in in G. Camuffo (a cura di), Red, wine ad green. 24 Italian Grahic Designers, Studio Camuffo, Venezia 2004]

cfr voce Bodoni in Wikipedia

16.12.04

[2004#07] 24 grafici italiani

Elegante, mondano, sorridente, scettico, egoista, narcisista…

Son passati 7 anni dalla puntata precedente; tanta acqua è passata sotto i ponti e per le calli che ha fatto tempo ad asciugarsi. Ognitanto è utile fare il punto; perciò si fa un libro come questo. Tuttavia, non è che sia successo granché nel campo della grafica, né in Italia né altrove. Forse è bene così; altrimenti, ci occuperemmo di questioni di moda, che a ogni stagione deve (fingere di) cambiare. Sarà anche che, da quando è cominciato il tanto atteso nuovo millennio, il mondo par più del solito pieno di guai, nefandezze e misfatti, conditi da slogan mistifici e verità pretese, con un penetrante profumo di conformismo e di ritorno all’ordine: la grafica si adegua, né può far altro. Tutti in riga. Gli altri a casa.

Negli anni novanta del secolo scorso il digitale, il computer hanno cambiato gli strumenti del fare (grafica), portandosi dietro qualche innovazione, molto fumo e una discreta confusione; ma anche notevoli possibilità, rimaste in massima parte virtualità. Gli strumenti son semplicemente parte (attiva, operativa, trasformativa) di una cultura; senza cultura, non funzionano (e non capiamo a che cosa servano); con scarsa cultura, funzionano male. Mettiamola così: basta dare a tutti un pianoforte, dimenticandosi solfeggio e teoria, per aver una generazione di concertisti o almeno di pianisti? Senza educazione, studio e applicazione (si dura fatica, purtroppo), ne è venuta fuori una generazione di improvvisatori, a orecchio nei casi migliori, maleducati in genere, ignari di armonia composizione ritmo.

Gli altri (quelli delle generazioni precedenti, più o meno sempre gli stessi, ovviamente) si son dovuti adattare alla trasmutazione tecnologica, chi bene, chi male, chi è rimasto qual era, chi s’è trovato spiazzato; i risultati si vedono e si vendono – e questo ci basta. La maleducazione invece, si sa, va a braccetto con la volgarità, il malgusto e l’arroganza; conseguenza: a sentire i chiaccheroni, il menu grafico d’oggi è ricco di creatività, innovazione, comunicazione, conditi al sugo di mercato. Ci siam riempiti di prodotti ma pare abbiam perso i servizi, in cambio: anche l’idea della grafica come servizio sembra caduta nel dimenticatoio. Per imparare ci vuol tempo e impegno; invece, peana al far-subito-da-sé, osanna al far-presto-e-di-tutto e (sul versante formativo) inni agli workshop: in 3, max 6 giorni si fa il progetto e impari. Con questo, si è allevata, e si continua ad allevare, la maleducata generazione di cui sopra, convincendola d’esser ricca di geni, destinati ad illuminarci con l’immensità dell’autoespressione, con il tormento delle private passioni, con il sapere dei poetici lor linguaggi individuali. Per caso, non sarà segno di un ritorno, in tempi di grigia restaurazione come quelli attuali, a un’idea romantica (muffosetta ma in apparenza immarcescibile quanto imbelle) di artista?

Pensiamo al futuro, a quello prossimo: si può immaginare un altro tipo di grafici, una diversa accezione di progettisti di artefatti, in generale. Di quali avremmo vieppiù bisogno, oggi? Forse il problema è ancora lo stesso di cui Albe Steiner scriveva, trenta e passa anni fa: “Grafici non più educati come artefici delle Arti, non più indirizzati al progetto ispirato al ‘bel pezzo’ come il pittore di cavalletto, non più come il ‘designer’ che attraverso il bell’oggetto conforta la società ammalata, non più come uomo elegante, mondano, sorridente, scettico, egoista, narcisista, amante dei formalismi, ‘programmato’, ma grafici che sentano responsabilmente il valore della comunicazione visiva come mezzo che contribuisce a cambiare in meglio le cose peggiori […] Grafici che sentano che la tecnica è un mezzo per trasmettere cultura e non strumento fine a se stesso per giustificare la sterilità del pensiero o peggio per sollecitare inutili bisogni, per continuare a progettare macchine, teorie, mostre, libri e oggetti inutili”.



[Elegante, mondano, sorridente, scettico, egoista, narcisista… in G. Camuffo (a cura di), Red, wine ad green. 24 Italian Graphic Designers, Studio Camuffo, Venezia 2004, pp. 22-23]

15.12.04

[2004#06] caratteri d'italia 2

testo idem [2002#03]
L’Italia s’è desta? Forse s’era solo distratta; al peggio, leggermente appisolata. Fuor di metafora – e di riferimento al patrio inno di Mameli –, la situazione italiana è diversa da quel che si crede comunemente, soprattutto all’estero. E cioè anche l’Italia ha i suoi disegnatori di lettere e caratteri, digitali ovviamente, e non son pochi. Ma prima di dar loro voce, quattro osservazioni introduttive.
Prima annotazione
Vorrei ribadire il fatto che il disegno dei caratteri fa parte, è materia (dal punto di vista scientifico, didattico e professionale) che pertiene strettamente al disegno industriale, più precisamente a quel vasto campo dell’industrial design che si chiama visual design: la grafica, in italiano. I caratteri son frutto del lavoro di disegnatori che dovrebbero esser educati alla calligrafia, all’estetica delle lettere e alla storia dell’arte della stampa, frutto del lavoro cioè di progettisti visuali che credo dovrebbero avere piena consapevolezza della duplicità intrinseca di ogni artefatto umano. Ogni artefatto umano infatti è, in gradi internamente variabili, allo stesso tempo prestazionale ed espressivo, è funzionalità e comunicazione, è usabilità e appropriatezza formale, interfacciate assieme. In linea di principio, non esistono materiali brutti o belli: sbagliati posson essere invece il progetto di un carattere o l’uso di un carattere in un contesto specifico.
Seconda annotazione
È importante osservare che, proprio in relazione a quanto appena detto, i caratteri non sono tanto prodotti autonomi quanto elementi di una catena, di un ciclo industriale ideativo-produttivo-distributivo. I tipi sono sì oggetti finiti e complessi ma sono soprattutto componenti basilari, materiali essenziali per il lavoro tipo—grafico, cioè (come i mattoni per l’architetto) sono elementi strutturali per il grafico che li sceglie, li usa, li impagina, ne fa fogli e pagine stampate, anche sullo schermo, oltre che sulla carta. Sono i progettisti visuali i veri utilizzatori, i destinatari primi dei caratteri, anche se gli utenti finali siamo noi tutti, i lettori; e il giudizio dei grafici è determinante nella questione. Se non ne trovano di coerenti alle loro intenzioni progettuali, non di rado disegnano lettere atte a soddisfare tali intenzioni, e da queste sperimentazioni (la storia ci insegna) sono nati molti dei più importanti caratteri che conosciamo.
Terza annotazione
Non dobbiamo dimenticare che la storia dei tipi è anche una storia di rinascite, di riprese continue, legate ai mutamenti delle tecnologie, dei sistemi e dei mezzi di produzione, oltre che legata sia al lento trascorrere del gusto e delle forme che li accomunano alla storia delle arti, sia al mutare del quadro dell’alfabetizzazione e della cultura, che li legano alla storia sociale della comunicazione e dello sviluppo della civiltà, più in generale. Insomma, il nuovo – qui più che in altre vicende storico-artistiche – nei caratteri si innesta perlopiù su un resistente ramo della tradizione; qui il tradimento, lo sviamento necessario dell’innovazione quasi sempre si confronta e si misura volente o nolente con la certezza della tradizione. Ed è interessante notare come nei momenti di svolta (non tanti, a dire il vero), nei pochi punti di crisi, legati alle vere trasformazioni produttive, la tradizione svela anche una particolare resilienza, una elastica capacità di riprender tono, di riaffiorare, di riprendersi, come quei materiali plastici che hanno memoria della loro forma. Gutenberg per primo imita, riprende le grafie manuali, le scritture dei codici; lo stesso farà Griffo con il corsivo; con le macchine compositrici meccaniche, quali la Linotype e la Monotype, nella prima metà del novecento, si assiste a un serio revival storico, come esemplifica il lavoro svolto da Stanley Morison; e ancora, il passaggio alla fotocomposizione riavvia il tema della traduzione in nuove tecnologie che oggi trionfa con il digitale. Rammentiamoci che i tipi di cui disponiamo oggi son solo quelli digitali e, per varie ragioni, la vicenda italiana del novecento non ha ancora trovato esauriente traduzione, o meglio ripresa cioè copia intelligente, in questo formato.
Quarta e ultima annotazione
La tradizione dell’Italia è storicamente di primissimo ordine, nel campo delle scritture e dei tipi: basti ricordare che l’alfabeto occidentale è quello romano-latino, che le forme più diffuse dei tipi di piombo prendon forma tra secondo quattrocento e primo cinquecento in Italia (a Venezia, in particolare) sulla scia del rinascimento, che figure come Manuzio o Bodoni – ad esempio – sono tra i più genuini e alti interpreti della tipografia dei loro tempi. La vicenda italiana del novecento, poco studiata e solo di recente (se non ci fosse Questioni di carattere, il prezioso volume di Manuela Rattin e Matteo Ricci, uscito nel 1997, non sapremmo dove indirizzare chi ci chieda letteratura sul tema), ha una sua particolare complessione, che ha bisogno di essere ancora approfondita, così come meritano di trovare traduzione digitale vari caratteri italiani del novecento. È un insieme di fattori che ha consentito il primato tedesco e anglo-americano nel campo del disegno dei tipi nel novecento. Grandi fonderie, vere imprese multinazionali, con volontà di mercato ma anche di ricerca; buone scuole superiori di arti grafiche; la fortuna di aver dei magistrali calligrafi e dei notevolissimi disegnatori industriali di caratteri, che presso tali scuole si son spesso formati o hanno a loro volta formato, e per le grandi fonderie hanno lavorato. L’Italia di rilievo internazionale ha avuto in sostanza una sola fonderia (naturalmente, anche produttrice di macchine da stampa), la Nebiolo, che è stata malamente dismessa dopo una gloriosa vicenda; il problema delle scuole superiori e non puramente professionali di arti grafiche si è posto solo in anni recenti (con minime eccezioni precedenti e una quasi totale cecità pubblica). Non mi pare di rilievo, nel senso appena indicato, la vicenda dei patrii calligrafi; numericamente pochi, e abbastanza particolari come figure, i nostri disegnatori di tipi lungo l’arco del novecento: da Raffaello Bertieri a Francesco Pastonchi, dall’oriundo Giovanni Mardersteig all’eccentrico Alberto Tallone, fino a Francesco Simoncini. A fianco di questi, l’equipe della Nebiolo, in particolare lo studio artistico della fonderia torinese, istituito nel 1933: da Giulio da Milano a Alessandro Butti fino al più noto e fecondo dei disegnatori italiani di tipi del secondo novecento, cioè Aldo Novarese. Dunque, delle ragioni obiettive per un ruolo non di primissimo piano dell’Italia nel novecento seppur ancora non indagato a fondo. Ma oggi? oggi un’ennesima rinascita, che è planetaria: con il digitale, la fonderia sta in un computer portatile; certo, poi i caratteri van fatti conoscere, distribuiti, venduti, protetti, perché non restino un hobby; contemporaneamente, qualcuno deve provvedere a un’adeguata formazione: si può essere, ma non basta, autodidatti, perché ciò non permette di affrontare la complessità di progettazione e del prodotto, che è e resta industriale.

[intervento alla conferenza Atypi 2002 Roma, in "Progetto grafico" (Roma), 2004, 2, maggio, pp.]

14.12.04

[2004#05] f2f04


Nel 2000, da maggio a novembre, la Kunst- und Austellungshalle di Bonn ospitò Design 4:3, una grande mostra di disegno industriale (dal titolo palesemente ispirato al risultato di un celeberrimo incontro di calcio), che propose un significativo confronto a tutto spettro tra la situazione tedesca e quella italiana degli ultimi 50 anni. Dal 2001, per parte sua, il Design Center di Stuttgart promuove annualmente Face to Face, una manifestazione-convegno che intende fare il punto nel campo della progettazione visuale, mettendo a confronto lo stato dell’arte in Germania e in un altro paese ma anche esaminando (l’allusione del faccia-a-faccia nel titolo è duplice) casi esemplari di rapporto tra committente e progettista, che presentano congiuntamente i lavori in esame. La prima edizione di Face to Face ha visto nel 2001 come partner la Gran Bretagna (pel tramite del Design Council); nel 2002 è stato il turno dell’Olanda (grazie al Bno) e nel 2003 della Spagna (attraverso il Design Center madrileno). Dal 19 al 20 marzo 2004, tocca all’Italia (la cui presenza è organizzata dall’Aiap) il confronto con la Germania. Nei due giorni della manifestazione, per la modica cifra di 180 euro (studenti 90), tra l’altro i partecipanti possono seguire, sul versante italiano, 8 nostrane case histories, selezionate e introdotte da Carlo Branzaglia, nonché visitare le mostre Italic 1.0, il disegno di caratteri contemporaneo in Italia (a cura di Mario Piazza, Silvia Sfligiotti e Paola Lenarduzzi - presentata nel 2002 a Roma) e La Faccia dell’energia (a cura di Luciano Ferro e Mario Piazza – presentata per le celebrazioni voltiane nel 2000). Il tutto ben si attaglia all’impostazione professional-promozionale di Face to Face e presumibilmente corrisponde appieno alle aspettative in gioco, anche se non esime da qualche considerazione al margine. Il Design Center di Stuttgart (online DCS ) informa infatti che Face to Face è “one of Europe's foremost conferences on visual communication” e della “comunicazione visiva” in questione esemplifica la gamma: “ranging from corporate design via packaging and the presentation of goods in trade, signposting systems and electronic media to lifestyle and entertainment”. Da questa definizione quantomeno ecumenica dell’oggetto della manifestazione si evince che i promotori sono convinti di una identità immediata tra comunicazione visiva e progettazione grafica: luogo comune, non nuovissimo, assai diffuso ma non perciò meno pernicioso – non diverso, a suo modo, dalla ingenua e ossessiva identificazione tra pubblicità e grafica. È innegabile: la grafica (nell’accezione di progettazione visiva) contemporanea vive una stagione confusa, in cui rivendica legittimità nei confronti di ogni fenomeno comunicativo (termine in sé di estensione prossima all’illimitato) connotato da visibilità, onde si immagina che presto annetterà cinema e televisione, mentre pateticamente già si va proclamando una supponente sua autonomia artistica. Inneggiata in nome delle ibridazioni (dimenticando che ibrido vuol dire sterile), questa confusione di ruoli è aggravata da una penosa rincorsa delle mode e dalla inutile attrazione per le tendenze del momento. Ammettendo (personalmente, non ho né preconcetti né ortodossie da difendere) che sia un’attività progettuale indirizzata al problem solving, la grafica contemporanea dovrebbe individuare con maggiore chiarezza e lucidità le proprie competenze, i propri limiti, i propri assetti operativi, nonché la natura dei problemi che intende affrontare; altrimenti, rischia una delegittimazione ancor più pesante dell’attuale, in un’illusiva volontà di potenza. Come in altre professioni progettuali, è probabile, se non certo, che la qualità del committente sia la prima garanzia di buona riuscita e l’impegno di Face to Face nell’esplorare questa relazione è un’indicazione pienamente condivisibile. Non si può, tuttavia, misurare il rapporto cliente-designer aldifuori del contesto culturale in cui si esplica e agisce: non è il progettista a scegliere il committente. La civiltà visuale di un paese si misura oggettivamente tanto nella distribuzione e nella diffusione qualitativa degli artefatti grafici, quanto nella sensibilità e nella fiducia generale nella efficacia delle strategie e delle soluzioni grafiche. Se è vero che occorrono grandi committenze, per grandi opere di civilizzazione visuale, nel panorama di sconfortante povertà grafica dell’Italia di oggi, le eccezioni non confermano alcuna regola.

[Face to Face a Stoccarda, in “Il giornale dell’architettura” (Torino), 2004, 16, marzo, pp. 39 e 43]

13.12.04

[2004#04] ancora su nizzoli & c.

Tema del mio intervento è la grafica de “L’architettura – cronache e storia”.

Sia pur brevissimamente, è opportuno chiarire subito l’accezione, forse non ovvia, con cui uso la parola ‘grafica’. Ricollegandomi all’etimo greco (cioè sia ‘scrivere’ che ‘dipingere’), intendo per ‘grafica’ l’insieme progettato di tipo-grafia e foto-grafia: l’amalgama testo + illustrazione, la visibile rappresentazione di parole e di figure; da un punto di vista complementare, questa ‘grafica’ non è altro che carta e inchiostro. Naturalmente, mi riferisco alla grafica editoriale moderna, industriale, meccanica, ossia a una forma di produzione seriale di artefatti. È il numero, la quantità a far la serie e, quando la tiratura (il numero di una serie) è elevata, come nel caso de L’architettura – cronache e storia, i processi produttivi definiscono anche dei precisi vincoli per la progettazione visuale, sia per l’interno (impaginazione) che per l’esterno (copertine), nonché per il formato e la confezionatura.

Scriveva Nizzoli, nel 1955, anno di avvio de L’architettura – cronache e storia:
“Io penso che ogni problema di industrial design conduca il designer a seguire una diversa procedura, anzi che il valore di un buon disegno dipenda alla base dal rapporto tra il metodo seguito e la forma del prodotto disegnato. Lo scopo è raggiunto quando il designer è riuscito a tener presente tutti i condizionamenti e a farli diventare elementi che concorrono alla sua visione del prodotto […] Insomma la forma è quella che unifica e esprime tutti gli aspetti, anche talvolta contrastanti, e caratterizza un prodotto”.

Nel colophon del primo numero de L’architettura – cronache e storia i crediti di progettazione visuale sono così riconosciuti: “copertina Marcello Nizzoli, impaginazione Max Huber”.
In un dattiloscritto su Max Huber, Bruno Zevi racconta un significativo episodio della genesi de L’architettura – cronache e storia: “«E se cambiassimo formato? Potremmo addirittura adottare le dimensioni delle grandi riviste internazionali» dissi timidamente a Max, tanto per tastare il polso. «È un’ottima idea, cambiamo pure formato». Lo guardai sorpreso: «ma l’impaginazione del primo numero è già fatta e i cliché sono ingranditi. Se cambiamo l’impaginazione le fotografie parranno troppo piccole e tu ci farai brutta figura». «Non fa niente - rispose Max - se è utile per la rivista cambiamo pure il formato». Avevo pensato di conservare il formato di Metron la rivista che avevamo diretto per 10 anni dal ‘45 al ‘55. Avevamo impaginato tutto il primo numero secondo il formato di Metron e solo pochi giorni prima di andare in stampa mi ero accorto che forse per fare una grande rivista di architettura era meglio ingrandirlo. Quale altro grafico, quale altro artista avrebbe accettato, così alla fine, improvvisamente, di cambiare formato?”.

Vicende non inusuali nella vita di una rivista e dalle quali emerge una (inedita prova di diretta) parentela de L’architettura – cronache e storia con Metron e, assieme, il (poco noto) ruolo nella vicenda di Max Huber, carismatico personaggio che ha dato un contributo fondamentale alla grafica italiana del dopoguerra, progettando tra l’altro, nello stesso torno di tempo in cui L’architettura – cronache e storia viene alla luce, collane (per Einaudi) e riviste (“Aut Aut”, “Il Caffè”), famosi marchi (la Rinascente, Coin, Nava, Esselunga) e celebri manifesti (Triennale di Milano, autodromo di Monza).

La storia delle copertine de L’architettura – cronache e storia inizia, lo sappiamo dalle parole di Zevi, con il cambio di formato rispetto a Metron, la prima rivista di architettura italiana, uscita dal 1945 al 1954 in due serie: la prima di formato piccolo; la seconda di formato medio (25 x 44 cm), pubblicata dalle edizioni di Comunità, cioè da Olivetti.
Nizzoli curava le copertine di Metron dal 1952, insieme a Mario Oliveri, che lavorava con lui da qualche anno. La testata è composta con un carattere lineare di fine ottocento, il Doric 1; nella copertina si nota anche un carattere connotato quale il Normandia.
Tra Metron e L’architettura – cronache e storia la continuità visiva è in effetti molto forte, per quanto riguarda la copertina: l’immagine dell’ultimo Metron si sovrappone quasi alla prima de L’architettura – cronache e storia. La continuità, del resto, si riscontra anche nella scelta tipografica, nel ricorso agli stessi caratteri. La copertina de L’architettura – cronache e storia potremmo dire perciò che è figlia, o forse sorella più giovane, di Metron.

Ma in quali progetti grafici era impegnato, in quegli anni, Marcello Nizzoli? Tra vari lavori si nota una rivista (fondata da Adriano Olivetti nel 1937), intitolata Tecnica dell’Organizzazione, che cura dal 1950 al 1958, con la collaborazione per l’impaginazione anche di Gae Aulenti. Mettendo a diretto confronto Metron e Tecnica dell’Organizzazione si ritrova lo stesso tipo di impostazione: stesso carattere tipografico e stesso formato, analoga soluzione autorial-autonoma di copertina. Bisogna ricordare, se mai ce ne fosse bisogno, che Nizzoli era anche un pittore raffinato, oltre che un grande disegnatore industriale. Sua, per restare in campo grafico, è anche la versione labirintica, a spirale quadrata del marchio Olivetti del 1956, “inizio senza fine”, come annota Nizzoli.

Le copertine di Nizzoli si offrono come multipli industriali di artista, caratterizzati da minima forma ed economia di mezzi, coerenti con l’artefatto. La copertina è intesa quasi alla lettera: semplicemente ma non banalmente copre; non è una finestra indiscreta e parziale sull’interno. Con un approccio autoriflessivo e sofisticato, Nizzoli riconosce alla copertina la sua natura e funzione prima, ossia di involucrare, facendone al contempo occasione per sperimentare una grafica moltiplicata. Il “buon disegno” dell’artefatto industriale consente variazioni incessanti, con cui modulare a tema l’invenzione pacata che si snoda lungo tutta la serie delle copertine de L’architettura – cronache e storia. Di fatto, Nizzoli agisce all’interno di ragionamenti sull’arte contemporanea tra i più interessanti: la copertina è un artefatto che nasce per essere riprodotto, senza nostalgie auratiche…

Sappiamo che Nizzoli è stato il responsabile delle copertine de L’architettura – cronache e storia fino al numero 112; dal 112, l’impressionante sequenza delle copertine (quasi mezzo migliaio) continua per mano di Oliveri, che muove nel corso degli anni dapprima verso un fondersi di ricerche sul percettivo con la rappresentazione dell’oggetto architettonico o industriale, riducendo la cromia al solo nero. Più avanti riappare il colore, con riferimenti che oscillano dall’informale al garbatamente fitomorfico; con le serie curate da Oliveri e collaboratori, infine, le variazioni non hanno più un ciclo fisso annuale. Negli anni settanta, infatti, dalla modulazione di base con la partitura di un elemento dinamico, organico, fortemente pittorico, si passa ad elementi inerenti al contenuto, utilizzandone frammenti e tracce. In una serie successiva, le elaborazioni di copertina lavorano su elementi che fanno ironico riferimento alla figuratività contemporanea; si affianca a ciò una sorta di irruzione della scrittura manuale, della chirografia, nelle copertine, attenuando il ruolo dell’immagine come illustrazione e aumentando quello della scrittura come figura.
Ma l’imprinting iniziale, l’intuizione originaria di Nizzoli: concepire la copertina come un multiplo industriale d’arte, resta la base strutturale di tutte queste variazioni, in una vicenda che nella storia della grafica contemporanea rappresenta un vero unicum.

12.12.04

[2004#03] ditelo con le lettere…


Tentando di osservare con occhi disincantati l’universo quotidiano della grafica non cartacea, attraverso gli specchi moltiplicatori delle plurime cornici in cui si manifesta (dai monitor dei computer ai distributori di denaro, fino agli schermi dei cellulari, per intenderci), si intravede un panorama iconico, un paesaggio figurale fuor d’ogni dubbio da qualche decennio in esponenziale espansione ma al cui interno non mancano dei singolari moti retrogradi e degli scarti significativi. La fin troppo ingenua fede in un supposto quanto indimostrato valore comunicativo universale delle immagini e in una altrettanto apodittica potenza espressiva delle icone d’ogni tipo è acriticamente predicata e praticata nell’universo a cui facciamo riferimento, perlopiù senza né verifiche di usabilità né discernimento alcuno degli esiti sul campo. È stato l’avvento delle interfaccie-utente grafiche per i sistemi operativi dei computer, una ventina d’anni fa, a dare una spinta formidabile e assieme una motivazione incontrollata a questa esplosione d’iconismo spesso gratuito, ragion per cui siamo afflitti da una congerie di figurine che presumono di dire più di quanto non possano, superando i limiti del linguaggio verbal-alfabetico. Questo nuovo diluvio universale è dilagato nell’immaginario quotidiano, occupando un posto privilegiato negli strumenti e nei mezzi di comunicazione, dal sempre più gigantesco spazio del web alle svariate trasmutazioni dei telefoni cellulari dalla voce alle immagini. Laddove un complesso mix di fattori (non ultimo, una appropriata qualità formale) è riuscito ad imporre agli utenti la convenzionalità di questi nuovi segni, essi sono entrati a far parte dei codici visivi condivisi: nell’icona di un bidone con coperchio nel monitor di un computer qualsiasi utente ormai riconosce il luogo virtuale in cui spostare dei files da cancellare; quella di una bustina da lettere nello schermo di un cellulare, avverte presumibilmente dell’arrivo di un messaggino o qualcosa di analogo. Non si tratta però di un universo stabile e definito; anzi, il mondo di queste speciali immagini si mostra in rapidissima feroce concorrenziale evoluzione; qualsiasi nuova invenzione visiva, tanto maggiore è la sua capacità di identificazione, tanto più velocemente viene replicata: si pensi, ad esempio, alla fortuna recente dei favicon, le minuscole immagini (16x16 pixel) che compaiono nei browser accanto agli indirizzi http. Bisogna però riconoscere che, al tanto conclamato predominio del mondo delle immagini nella comunicazione attuale, si accompagna una invasione verbal-alfabetica senza precedenti: il volume di email scambiate è giunto a una cifra iperbolica, anche rispetto agli scambi nel web, ove peraltro il fenomeno dei blog la dice lunga sulla potenza delle parole; analogamente, gli sms hanno finito per superare in quantità le comunicazioni vocali nei sistemi di telefonia cellulare. Limitati strutturalmente nel repertorio dei segni trasmissibili sostanzialmente all’alfabeto, caratterizzati da un bisogno intrinseco di economia di mezzi (particolarmente acuta per gli sms), questi ambiti di comunicazione elettronico-digitale sostanzialmente scritta hanno costituito, nel corso degli ultimi anni, dei loro originali repertori di figure, costruite con i segni alfabetici: ne son traccia, su piani diversi, le raccolte di ascii-art e di emoticons diffusissime in rete e ormai disponibili anche a stampa, persino in edicola. L’ascii-art si avvale dello spettro dell’american standard code for information interchange (ormai vetusto, in termini informatici), in pratica dei segni della tastiera di un qualsiasi computer, per disegnare figure (incluse quelle letterali), utilizzate non solo come signature per l’email. Si tratta, in effetti, di un’arte povera e antica, che ricorda malinconicamente le ambizioni espressive di dattilografe provette, nelle copisterie di un’epoca che fu, ma che assieme mostra senza inibizioni come certe forme semplici e vernacolari di espressività siano capaci di sopravvivere ai mutamenti tecnologici, offrendo una gamma assai articolata e accattivante di raffigurazioni, oscillanti da un versante più propriamente pittorico-illustrativo a uno astrattamente sintetico. Una necessaria stringente sintesi espressiva caratterizza gli emoticon, ancor più condensate figurazioni che, trasmigrate dall’email agli sms, assai più che l’ascii-art son divenute patrimonio comune: chi non conosce infatti le faccine come questa :-) e le sue innumerevoli varianti e complicazioni? È da notare che, nel caso degli emoticon (originariamente destinati a segnalare stati d’animo, in alcuni casi assurti a codici condivisi anch’essi), la lettura implichi una virtuale rotazione di 90 gradi rispetto all’asse di lettura testuale, risultante in una scrittura per colonne verticali (tipica delle ideografie), come se convivessero e si incrociassero letteralmente una orizzontale alfabetica e una ortogonale figurale. Anche nel caso degli emoticon, i repertori accumulati dall’incessante contributo di anonimi rappresentano una vera e propria miniera di umorali espressioni immaginali, a cui accostarsi senza pregiudizi di sorta, costruendo degli appropriati strumenti d’indagine, se si intende contribuire a una più onesta storia delle arti contemporanee, che si affranchi dai troppi pregiudizi che ne limitano lo sguardo.

[Ditelo con le lettere…, in “Sugo” (Venezia), 2004, 1, marzo, p. 169 - una più ampia versione online si trova nel sito di “engramma”]

11.12.04

[2004#02] susan kare


La qualifica ufficiale della sua professione è gui designer, ove l’acronimo gui sta per graphical user interface. Traducendo nel gergo tecnico italiano, Susan Kare è una progettista di interfacce-utente grafiche: definizione complicata e piuttosto infelice, che non rende molto l’idea del lavoro in questione. Per esser chiari, l’interfaccia grafica è ciò che permette a un operatore di controllare un computer manipolando segni/simboli rappresentati sul monitor, di solito per mezzo di un mouse o di una trackball, comunque di un puntatore. In ogni caso, basti sapere che, dagli anni ottanta, Kare si è dedicata al disegno di ciò che appare sullo schermo dei computer; in particolare, si è applicata a quella caratterizzante gamma di icone, per lo più attive e cliccabili, con cui si opera in metaforiche scrivanie –ben le si attaglia, quindi, una più puntuale definizione di icon designer. Al suo attivo, Kare ha infatti un invidiabile repertorio di oltre 2000 icone, frutto di un paziente e assiduo lavoro di invenzione di immagini-parole semplici ed efficaci, all’egida del senso comune, per giganti dell’informatica contemporanea, quali Apple Computer, Autodesk, Electronic Arts, Ibm, Intel, Intuit, Microsoft, Motorola, Oracle, Palm, PeopleSoft, Sun Microsystems e Xerox, nonché per altri committenti di prestigio, quali AT&T, Fidelity Investments, The Getty Technology Group e Sony Pictures, tra altri. «Alcune icone sono facili da disegnare –spiega Kare– perché sono nomi (un calendario, da esempio, per le scadenze temporali). I verbi son difficili, invece. Un comando come undo, ossia cancella l’ultima operazione e ripristina lo stato precedente, è particolarmente complicato. Da anni mi scontro con la visualizzazione di undo».
Per quanto possa sembrare paradossale, l’incontro di Kare con l’industria informatica è stato del tutto casuale. Dopo aver conseguito il B.A., summa cum laude, dal Mount Holyoke College, e poi sia il M.A. che il Ph.D. in Fine Arts presso la New York University nel 1978, con una tesi sullo humour nella scultura dell’ottocento (relatrice Marilynn Karp), Kare era alla ricerca di una sistemazione accademica o museale. Trasferitasi nel 1981 nella Bay Area, lavora brevemente come assistente curatrice presso il Fine Arts Museums of San Francisco e poi si dedica alla scultura in un atelier a Palo Alto. Nel 1983 lascia l’atelier per far parte per la Apple Computer del progetto Macintosh, che raggiungerà il mercato nel 1984. Un suo compagno di liceo di Filadelfia, Andy Hertzfeld, tra i primi sviluppatori software dell’innovativo personal computer dotato di interfaccia grafica, la convince a disegnare le icone e i caratteri per la rivoluzionaria tecnologia point-and-click. Inizia con il carattere Elefont, poi Chicago (seguiranno Geneva e S. Francisco), e impara così le tecniche della grafica bitmap, a mappa di punti, che richiedono di accendere o spegnere una serie di pixel sullo schermo per comporre un segno, un po’ come nei graticci del cucito decorativo e dei punti ornamentali, alla ricerca del risultato più convincente, poiché «le icone migliori sono più simili a segnali stradali che a illustrazioni; teoricamente, dovrebbero presentare un’idea in modo chiaro, conciso e memorabile». Le icone del Mac sono state disegnate ciascuna entro una grliglia di 30 x 30 pixel, in tutto 900 punti: «sto attenta ad ogni singolo punto;» commentava Kare con femminile charme «se vi piacciono i punti ad ago-e-filo, amerete il disegno a mappa di punti del computer». I risultati del lillipuziano pointillisme di Kare quale Creative Director della Apple Computer fino al 1986, quando lascia l’impresa con Steve Jobs per diventare Creative Director presso la NeXT Inc., sono veramente memorabili e, a buon diritto, fanno ormai parte dell’immaginario contemporaneo, seppur apparentemente adespoti. Chi non conosce, tuttavia, il cestino della spazzatura (ove trascinare i files da cancellare –il precedente dello Xerox Parc non è confrontabile, sul piano visuale) o l’orologino da polso (la macchina è occupata: aspettare!), la famigerata bomba (crash di sistema: macchina impallata) o la Monna Lisa (il computer funziona), la manina o la freccetta?
Dopo due anni trascorsi alla NeXT Inc., ove a disegnare il logo viene chiamato Paul Rand (uno dei maestri ideali di Kare, assieme a Saul Steinberg), Kare si mette in proprio e, tra i primi incarichi, traccia nel 1987 (su incarico della Microsoft) un buon numero di icone per Windows 3.0, la risposta del mondo dei pc Ibm-compatibili alle interfacce wimp (windows, icons, mouse, pointers). Dopo aver fondato nel 1989 lo studio Susan Kare LLP (www.kare.com), ha lavorato ancora con Hertzfeld, che è uno dei fondatori della General Magic, un produttore di tecnologie informatiche di Sunnyvale; in particolare, ha progettato i caratteri e le schermate del software General Magic's Magic Carpet per palmari, che da solo ha più 600 elementi grafici. Recentemente, ha ridisegnato un folto set di icone per Autodesk, leader del settore cad. Non troppo noto al di fuori del mondo degli specialisti, il suo lavoro ha infine avuto nel 2001 l’ambito riconoscimento del Chrysler Design Award, a coronamento di una carriera più che ventennale spesa nel migliorare l’usabilità e la qualità visuale delle interfacce dei computer. «La natura della progettazione di interfacce grafiche è collaborativa –chiarisce Kare–; gran parte del software di buona qualità è il risultato di un impegno comune tra ingegneri, venditori e progettisti. Il mio lavoro (collocato al livello più esterno del software, sopra tutto il resto) si è ispirato spesso a soluzioni informatiche immaginative e innovative. Attualmente sono attratta dall’opportunità di migliorare la qualità delle icone e dei caratteri dei palmari, oltre che dalla possibilità di immagini più grandi e colorate per i computer. Nella mia attività, mi son sempre applicata ad affinare il significato e l’apparenza di ogni immagine e spero che ciò, con un effetto cumulativo, renda il processo d’interazione con le macchine (il modo in cui la gente “vede” i programmi) più piacevole».

bibliografia minima
Ron Wolf, The Mother of the Mac Trashcan, in «San Jose Mercury News», 28 maggio 1990
Michelle Quinn, Art that Clicks: Icon designer Strives for Simplicity, in «The San Francisco Chronicle», 25 gennaio 1995
Laurence Zuckerman, The Designer who Made the Mac Smile, in «The New York Times», 26 agosto 1996
Craig Bromberg, I.D. Forty/Susan Kare, in «I.D. Magazine», gennaio/febbraio 1997
Owen Edwards, Legends: Susan Kare, in «Forbes Asap», 23 febbraio 1998
William L. Hamiliton, With the World Redesigned, What Role for Designers?, in «The New York Times», 25 ottobre 2001
Steve Caplin, Susan Kare, in Icon Design Case Studies, Cassell & Co, London 2001

[Susan Kare, in “Casabella” (Milano), 2004, 720, marzo, pp. 90-93]

10.12.04

[2004#01] john maeda


La grafica di Maeda
La Fondation Cartier annuncia per il 2005 una mostra monografica a Parigi su John Maeda, che «Esquire» ha incluso tra le 21 Most Important People of the 21st Century. Nato a Seattle nel 1966, Maeda si è laureato nel 1988 al Mit, prestigiosa scuola ove, dopo essere stato Associate Director del Media Laboratory nel 2000-01, oggi è Associate Professor di Design and Computation e dirige il Plw, Physical Language Workshop. Il Plw rappresenta la rinascita, in altre vesti, dell’Acg, Aesthetics + Computation Group, che Maeda aveva precedentemente diretto, sulla scorta di alcune idee del celebre e fondativo Visible Language Workshop di Muriel Cooper. Fondato nel 1996, l’Acg è stato un laboratorio sperimentale di ricerca, ove Maeda ha sviluppato Design By Numbers (a cui Mit Press ha dedicato un volume), al contempo sia ambiente che linguaggio di programmazione, quale introduzione al design computazionale per progettisti visuali e artisti, sviluppandolo fino al 2002. Nelle attuali ricerca del Plw, Maeda si indirizza alla soluzione di problemi ancora irrisolti di espressione digitale nei campi della visualità, dell’economia globale e dello spazio fisico, come documentano due progetti in corso di elaborazione: OpenAtelier e Treehouse Studio. Prima di arrivare al Mit, Maeda si era fatto notare, tra l’altro, per i lavori pubblicati nella collana Reactive Books: giocosi libretti a tema, dotati di originale software ad hoc; dopo 4 ormai quasi irreperibili uscite (dedicate rispettivamente a suono, tempo, tastiera e mouse), la collana –sostenuta dalla generosità di Naomi Enami, l’editore– si è interrotta, lasciando in sospeso l’uscita del numero 5, dedicato al video. Da allora, una carriera fulminea, che ha portato Maeda nell’empireo del Media Lab di Negroponte, con notevoli riconoscimenti accademici, espositivi, culturali e editoriali, quali le ben 480 pagine del tomo magno maeda@media del 2000, e una fortuna globale quale Graphic designer.
Tutto ciò contribuisce mirabilmente alla confusione che impera oggi nella “grafica”, nei rispetti cioè di una area professionale altrimenti ben definita quale la progettazione visuale, con il concorso del monopolio editoriale che il mondo di lingua inglese vi detiene, non senza discreta arroganza. È dagli anni ottanta, almeno, che lo star-system ha inghiottito, a partire dagli Usa, quanto si elabora di significativo (con peculiari disattenzioni e omissioni) in termini di progettazione grafica, sottoponendola alla tirannia delle tendenze e dei protagonismi effimeri –basterebbe ricordare, uno per tutti, il caso di Carson. Tale parrebbe l’estensione del termine “grafica” da potervi includere le più varie competenze e attitudini, dall’artista al designer (magari mescolati in uno), dalla stampa ad ogni e qualsiasi forma di visualizzazione. La straordinaria fama raggiunta da Maeda, pur non priva di meriti, ben esemplifica questo stato dell’arte. Da una parte, non si possono non apprezzare i suoi originali tentativi di esplorazione computazionale e non condividere le sue osservazioni sulla opportunità che il grafico sappia, all’occorrenza, costruirsi i propri strumenti, per non rimanerne imbrigliato: come dimostrano i palesi limiti di quasi tutto il software disponibile, con il loro portato di planetaria omogeneizzazione d’espressione e di distrazione dalla tradizione. Dall’altra, a compulsare, su carta e online, quanto Maeda ha prodotto di ciò che viene identificato come grafica, si scoprono dei piacevoli giochi informatici, assieme a gradevoli e suadenti disegni, che altro non sono che visualizzazioni di funzioni matematiche o esercizi di Postscript, il principe del pdl. Insomma, effetti neanche tanto speciali, di una intelligente e didascalica maniera d’illustrare l’immaginario digitale, la cui complessione mal si attaglia, se non per reiterati equivoci, a far di Maeda un protagonista della progettazione visuale contemporanea, quanto un abile e intelligente tecnologo della computazione visiva.

bibliografia di John Maeda
The Reactive Square, libretto e diskette, 1995
Flying Letters, libretto e diskette, 1996
12o o’clocks, libretto e cd, 1997
Tap, Type, Write, libretto e cd, 1998
(tutt’e 4 nella collana Reactive Books della Digitalogue)
Design By Numbers, Mit Press, Cambridge (MA) 1999, introduzione di Paola Antonelli
maeda@media, Rizzoli / Thames&Hudson, New York / London 2000, introduzione di Nicholas Negroponte
Some Recent Thoughts On Digital Media, negli atti del congresso Designing Interactive Systems, ACM Press, New York 2002, pp. 15-18

per ulteriori informazioni maedastudio

Intervista a John Maeda
D – Nel 1984, lei si è iscritto al Mit (la prima generazione di studenti con un computer Apple Mac a disposizione!), con l’idea di fare il Gui designer, cioè il progettista di interfacce-utente grafiche; poi ha optato per il Graphic design, per diventare progettista visuale. Per lei, che cosa significava design?
R – Al tempo dei miei studi, per design intendevo qualcosa di molto diverso da quanto penso oggi. Credevo fosse una sorta di magia sensibile, in cui un mix di immaginazione, personale filosofia, oggetti del mondo e icorpo dovevano fondersi in un’unica istanza creativa. Non ho più questa nozione magica del design.
D – Qual è la differenza tra un artista e un designer?
R – La questione è annosa; me la son spesso posta ma ora molto meno. Certo, non posso fare a meno di pensarci, perché mi rendo conto che è come dire “questo è bianco, questo è nero”: in realtà, arrista e designer sono la stessa figura ma la società tende a dire “tu sei quello e tu quell’altro”. Penso sia una specie di sciocca convenzione generale.
D – Qual è la differenza, allora, tra buon design e cattivo design?
R – Credo sia la differenza che c’è tra qualcosa di rilevante e di irrilevante; non è questione di opinioni, è invece una nozione molto razionale: ma questa differenza non dovrebbe affatto esserci –questo è il problema da porre.
D – Quali sono le qualità fondamentali per un designer, oggi?
R – Le stesse di sempre, penso: avere dell’intuito e il senso di un futuro in cui si possono cambiare delle cose. Sono qualità non troppo frequenti, oggi, perché molti giovani non colgono l’opportunità di traformazioni nel futuro: sono quelli che pensano “c’è questo programma per le immagini, l’usano tutti” oppure “cosa posso farci, adesso c’è la rete!”. Il senso di un futuro così è molto fiacco attualmente e, perciò, diventa difficile un design di qualità.
D – Qual è il suo segreto?
R – È buffo, molte persone chiedono qual è il mio segreto; quando replico che non lo so, si pensa che voglia nasconder qualcosa. Ho scritto dei ibri per spiegare quanto so ma i libri non restituiscono tutto. Forse il segreto è la mia famiglia e non è un vero segreto.
D – Come ha iniziato l’attività di designer?
R – In seguito a un curioso incidente, quando studiavo al Mit, che mi ha cambiato la vita: l’aver incrociato un testo quale Thoughts On Design di Paul Rand. Ho principiato dalla gavetta, con una cartolina, in Giappone, e poi cartelle, menu, minime cose di grafica d’ogni tipo. Ho avuto la fortuna di conoscere molti grandi designers giapponesi, che mi hanno –per così dire– adottato.
D – “L’arte è in primo luogo problema di forma, non di contenuto”, come afferma Paul Rand citata in apertura del suo libro maeda@media?
R – Condivido la definizione di Rand, perché prospetta un percorso infinito di ricerca su come vediamo e sentiamo le cose, a fronte della comune scala dell’economia politico-sociale. Tento di raccordarmi a questa idea di arte e design, perché è una strada su cui proseguire.
D – Nella prefazione al volume appenta citato, Nicholas Negroponte sostiene che “il pensiero visuale è parte delle nostre vite, oggi più che mai […] noi non siamo solo digitali, siamo visuali”. Per lei, che cosa è il “pensiero visuale”?
R – Sul pensiero visuale è stato scritto molto e si può definire in vari modi. Credo che Negroponte intendesse dire, in quel passo, che oggi, per via del computer, siamo esposti a tanti linguaggi visuali classici e che li incontriamo con sempre maggior frequenza. A mio avviso, non è tanto importante questa osservazione, quanto il fatto che viviamo un periodo nel quale tutto il visivo è visibile, ecco tutto. L’invisibile, però, è assai più eccitante; l’attuale concentrarsi tanto sul visibile è abbastanza triste. Si perde tanto tempo in cose come “rosso come? non questo, quest’altro!”. Quando si entra nell’ambito dell’invisibile, ci si trova invece in uno spazio straordinario, ancora tutto da esplorare.
D – Negroponte scrive anche che lei “decostruisce il mondo digitale”: che cosa significa?
R – Non sono d’accordo con l’opinione diffusa circa il “digitale”, con le frasi comuni “questo è design digitale” e simili topiche. Si tratta soltanto di una forma di disegno: niente di nuovo, né di intrinsecamente diverso, né un altro tipo di trama o struttura. Quando cerchiamo di decostruire questo mondo, tentiamo di smontarlo e poi di rimetterlo insieme ma scopriamo che non è mai lo stesso, alla fine.
D – Negroponte scrive ancora che lei “essendo ambidestro nei rispetti della cultura orientale e occidentale, può vedere cose che a molti di noi sfuggono”: quali sono queste cose che ci sfuggono?
R – Credo sia stata una vera fortuna per me trovarmi in contatto con la cultura giapponese postbellica quando ero piccolo. Mio padre aveva lasciato il Giappone da giovane e nella sua comunità di emigrati la patria era sentita fortemente nei ricordi, mentre nel corso degli anni era cambiata. Ho avuto una visione romantica del Gappone, che m’è rimasta, assieme allo spirito americano.
D – Muriel Cooper, responsabile del fondamentale Visible Language Workshop del Mit, le suggerì che forse non vi avrebbe trovato quell’educazione visuale che cercava. A quale educazione visuale era interessato?
R – Cercavo una specie di onestà e di rispetto per il territorio visuale. Il Visible Language Workshop del Mit dava quest’immagine ma non era proprio così; il Mit, in termini generali, è la t finale della sigla: tecnologia.
D – Nella presentazione del libro, lei afferma che il suo lavoro negli anni novanta riflette un unico obiettivo: ilsuo personale tentativo di smontare la comune comprensione del computer. Che cosa è riuscito a smontare in quel decennio?
R – Ho tentato di essere corretto con il materiale, che è composto di strati. Sto cercando lo strato materiale di base; i materiali non mentono mai, sono gli strumenti che ingannano.
D – Com’è stata la sua adolescenza?
R – L’ho passata lavorando; mio padre era un lavoratore accanito; perciò amavo la scuola ma odiavo le vacanze.
D – Com’è arrivatao al Mit?
R – Era il sogno di mio padre, che almeno uno dei suoi figli andasse al Mit o a Harward. Era una follia ma in qualche modo riuscii ad arrivarci… fortuna!
D – Nel libro, lei fa riferimento alle opere di artisti come Kenneth Noland, A. Michael Noll e altri. Alla luce di ciò, l’arte che cos’è per lei?
R – Penso sia parte di un ciclo più ampio, l’ecosistema della cultura; oggi la manipolazione dei materiali è quotidiana ma la gente si stanca del quotidiano, vuole perfezione nei colori, nello spazio, ovunque. Per far ciò, serve un espansione del linguaggio: questo ampliamento era l’arte, le cui responsabilità sono poi ricadute sul design. Si tratta di un fenomeno morto; l’arte digitale è come il design digitale, non ‘è nulla di nuovo. Per me, arte implica espansione.
D – Può spiegare il significato di una sua nota affermazione: “le nostre mani sono il principale ostacolo nello sviluppo dell’arte grafica digitale”?
R – Quella frase del 1993 si riferisce al fatto che lavorare al computer è come avere a che fare con una operatrice meccanica o come avere un bambino in braccio e dirgli: “ok, premi il bottone, abbassalo, muovilo verso destra, alt alt, portalo giù”. In tutto ciò, le mani sono di ostacolo; se potessimo collegare la mente a quello spazio, potremmo trovare un nuovo modo di pensare.
D – Ritiene possibile individuare un’arte digitale, separata dal contesto di quella umana?
R – Questo è un ambito di discussione fondamentale. Stiamo cercando di portare la dimensione umana nel regno digitale. Siamo anche testimoni di esperimenti d’ogni tipo, in specie corporei: applicare la tecnologia come una vernice, spennellarla in giro, è un’arma a doppio taglio. Bisogna andare molto più a fondo; questo spazio profondo è la mente, a mio giudizio, più significativa e sicura del corpo.
D – È noto che lei ama i bambini e il gioco. Si vede come un bambino che gioca con una sofisticata sfida grafica?
R – Non vorrei che i bambini usassero i computer: non credo sia molto stimolante. Alle elementari i bambini usano il computer, per mezz’ora, con programmini di disegno, ci giocano e pensano “che bello!”. Altro che bello: il livello è bassissimo e a usar troppo il computer si rovinano le mani.
D – In un capitolo del suo libro, si legge che un quadro espressionista di Jackson Pollock contiene un numero di informazioni estremamamente più alto rispetto a un quadro suprematista di Malevic. Può spiegare questa affermazione? E chi preferisce, tra Pollock e Malevic?
R – Si tratta di una citazione, in realtà, da un testo sulla teoria dell’informazione. Mi sembra divertente che da questo punto di vista, il contenuto informativo di Pollock sia maggiore di quello di Malevic, in termini di quantità e non di qualità. Se pensiamo a internet, tutto è bits; ma che cos’è un bit? Il bit può esser tutto, secondo me. Personalmente preferisco Malevic, lo sento molto più distintamente.
D – “Programmare è il processo –cito ancora– di astrarre una forma grafica nelle sue componenti geometriche fondamentali”: lei si considera un artista grafico digitale o un programmatore di algoritmi per visualiizzare funzioni matematiche?
R – Ho cambiato area di ricerca, direi. La ragione principale per cui ho scritto maeda@media è che volevo smettere di fare tutto ciò che avevo fatto fino ad allora: ne avevo intravisto la conclusione. Tutto è possibile e non mi pare più tanto stimolante. Vorrei andar oltre l’idea degli algoritmi nella grafica: questo è il mio nuovo interesse.

[La grafica di Maeda, in “Casabella” (Milano), 2004, 722, maggio, pp. 88-93]

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