9.11.04

[2003#07] alfabet in steen


Alfabet in steen
Goodwill-publicaties 51, Rosbeek, Nuth 2001
Una tipografia olandese d’eccellenza quale la Drukkerij Rosbeek bv, oltre a stampare per committenti di tutto rilievo, negli ultimi trent’anni ha anche pubblicato una raffinata serie promozionale di oltre 50 volumi nel campo delle arti, nella collana Goodwill-publicaties. Prima della monografia di Alberto Ferlenga per i tipi di Electa, uno dei rari contributi critici su Dom Hans van der Laan (cfr «Casabella» 634), ad esempio, era il volume 31 della collana, curato da William P. Graatsma, In honour of Dom Hans van der Laan 1904-1991, edito nel 1992. A distanza di una decina d’anni, il numero 51 della collana torna, sempre per mano di Graatsma, su questo straordinario architetto olandese, per documentarne analiticamente in Alfabet in steen l’amore per il disegno delle lettere, in una peculiare reinterpretazione dell’alfabeto lapidario classico, quale «architettura della parola scritta»: «la scrittura –afferma infatti Van der Laan– è il monumento più grande, la principale forma monumentale di una comunità».

[recensione, in “Casabella” (Milano), 716, novembre]

8.11.04

[2003#06] adalberto libera


Roma 1928
Malamente sorretto da una scalcagnata instabile poltroncina, sullo sfondo di un muretto muffoso da cui emergono abbaini persiane tetti e più lontane chiome di pini, un giovane azzimato artista si mostra di profilo, col sole basso alle spalle, intento ad abbozzare a gambe divaricate un cartellone pubblicitario, ancora incompleto nel testo. All’ampio risvolto dei pantaloni scuri fa eco la manica della camicia chiara, arrotolata fin sopra il gomito del braccio sospeso nel gesto elegante di una mano che disegna con tocco leggero. Una rara quanto celebre immagine fotografica del 1928 ritrae così il venticinquenne Adalberto Libera, in studiata posa, sul terrazzo della pensione Suquet, ove alloggia a Roma, in via del Corso. Nell’autunno del 1925, Libera si è infatti trasferito da Parma, città di residenza della famiglia materna, per iscriversi alla regia scuola superiore di architettura della capitale, di recente istituzione. A Roma gli viene riconosciuta l’ammissione al terzo anno poiché a Parma, terminati gli studi liceali nel 1921, ha prima frequentato la regia scuola superiore di matematica per un biennio, poi si è diplomato nel 1925, a pieni voti, presso il regio istituto statale d’arte, nel corso speciale di architettura. Conseguita la laurea a Roma nel 1928 e superato l’esame di stato a Milano, il neo-architetto fa tesoro delle discipline e delle abilità diplomate a Parma, traendone non secondario vantaggio lavorativo: emblema ne è la fotografia sul terrazzo della pensione. Nel 1929, ad esempio, della ventina di lavori che rappresentano verosimilmente tutta la sua attività dell’anno, risulta che i 3/4 sono di progettazione visuale – fatto che meriterebbe forse più precise e approfondite ricerche. Una rimarchevole serie di manifesti, studi e bozzetti caratterizza, in altri termini, gli inizi della carriera di Libera. Occasionale forse, ma professionale certamente la produzione del giovane “artista letterista e cartellonista”, secondo il lessico d’allora, per quanto ciò sia stato poco rilevato dalla critica, che piuttosto tende a farne tutt’uno con la sua ricerca pittorica, di ben diverso assetto espressivo. Dei manifesti a stampa noti, se ne possono ricordare, per la qualità dei risultati, almeno due coevi: in quello a cui Libera accudiva nella fotografia del 1928, una razional-architettonica illustrazione giocosamente reclamizza (sopra un fittissimo ordinato testo) i concorsi nazionali per l’ammobiliamento e l’arredamento economico della casa popolare; un secondo (firmato con Restaino) promuove il volo Roma-Tunisi della Società Aerea Mediterranea, con una soluzione di sicura efficacia compositiva e concisa forza cromatica. La non troppo ricca documentazione disponibile nel merito di questo versante dell’attività di Libera offre, tuttavia, altre significative tracce, in vario stato esecutivo e con qualche problema di datazione: dal cartellone metafisicheggiante per la XCIV Esposizione (con un bel refuso nel testo: “Esrosizione”) degli Amatori e Cultori di Belle Arti a Roma del 1928 allo stentoreo bozzetto di manifesto per la prima Quadriennale di Roma del 1931, da una reclame per la Borsalino a vari schizzi sul tema “Visitate il Trentino e l’Alto-Adige” fino a una serie di dinamiche tempere che propagandano (sembrerebbe per un qualche tipo di stampato) le attività agonistiche del calcio e del tennis, nonché una società di navigazione marittima. Ben presto Libera trova una strada più consona alle aspirazioni che lo avevano condotto a laurearsi presso la regia scuola superiore di architettura di Roma ma è certo che la familiarità con i mezzi grafici, sia figurali che letterali, di cui aveva dato prova negli esordi accompagnino tutta la sua carriera, tanto nelle modalità di presentazione dei progetti, quanto in talune specifiche soluzioni di partiti espressivi. In particolare, la sua sagacia nel disegno di lettere trova reiteratamente modo di imprimere carattere epigrafico o, meglio, archigrafico a molte delle sue sperimentazioni allestitive, in padiglioni e mostre peculiari di un irripetibile clima italiano nel campo dell’arte del “mostrare”, nonché in alcuni dei suoi migliori progetti architettonici.

Milano 1938
Episodio altrettanto poco noto, nell’anno XVI EF ossia nel 1938 AD, coi tipi illustri del Bertieri Editore in Milano, Adalberto Libera pubblica il Manuale pratico per il disegno dei Caratteri, promosso dall’Enapi, l’Ente nazionale per l’Artigianato e le Piccole Industrie; significativamente, il testo italiano è seguito da integrale traduzione trilingue: Praktisches Handbuch fuer die Zeichnung von Buchstaben, Practical Manual of Letter designing, Manuel pratique pour le dessin des Caractères. Si tratta di un corposo album orizzontale, il classico formato “all’italiana”, che raccoglie 6 alfabeti completi di maiuscole, minuscole, numeri e punteggiature, scelti dai cataloghi correnti delle fonderie Nebiolo e Raimondi & Zucca. Nella prefazione, l’on. prof. Vincenzo Buronzo, presidente dell’Enapi, afferma che il volume “porge ai pittori letteristi un mezzo efficace non soltanto per fare più belle le iscrizioni che sono chiamati ad eseguire, ma per risolvere una infinità di piccoli e delicati problemi tecnici esecutivi, i quali tutti si possono così riassumere: saper conservare agli ordini alfabetici le loro giuste armoniose proporzioni su qualsiasi scala essi debbano essere realizzati”. “La creazione di un alfabeto – motiva ancora Buronzo, poche righe innanzi – è un fatto architettonico di primaria importanza che non a tutti è consentito di affrontare. Il problema superava e supera le possibilità dell’artigiano letterista. A risolverlo era indispensabile il consiglio e l’assistenza di quel più esperto fratello suo maggiore che è l’architetto”: perciò si è ricorsi “alla genialità e al sicuro senso pratico dell’Architetto Libera”. Con geometrica certosina pazienza, Libera traccia le forme tutte delle polizze dei tipi Luxor, Egiziano corsivo, Landi stretto, Normanno corsivo, Cairoli, Aldina: oltre 500 segni che il sistema proporzionale adottato consente di ridisegnare, con relativa facilità, tramite un “graticcio” modulare, tenendo conto anche degli avvicinamenti e delle spaziature opportune. Sebbene non siano note le circostanze precise dell’incarico di Libera da parte dell’Enapi, le ragioni son forse da ricercarsi nella obiettiva magistrale capacità di disegno di lettere, quale intima componente di progetto, dimostrata dall’architetto sin dagli esordi, lungo l’arco d’oltre un decennio: dal padiglione Extensiors (1928) al padiglione-reclam (sic) degli isolatori Fil (1928); dal padiglione Scac alla fiera di Milano (1930) alla colonia Gil a Portocivitanova Marche (1931 sgg); dalla mostra del decennale della rivoluzione fascista a Roma (1932), con elementi ripresi nel primo progetto per il palazzo del Littorio (1933-34), ai padiglioni italiani per l’esposizione mondiale di Chicago (1933) e l’esposizione internazionale di Bruxelles (1935); dalla mostra delle colonie estive al circo Massimo a Roma (1937) ai progetti per la mostra della razza a Roma (1942) e per il mausoleo ad Ataturk ad Ankara (1942), fino al progetto di padiglione per la società Terni (1948) – e l’elenco è certamente incompleto L’efficacia del metodico contributo di Libera alla qualità delle “scritture esposte” continua comunque a trovare conferma nel secondo dopoguerra; ad esempio, persino nella terza diffusissima edizione, pubblicata nel 1962, del Manuale dell’architetto promosso dal Consiglio Nazionale delle Ricerche, il sommario di norme e dati illustra in 6 tavole il disegno dei caratteri riproducendo (con minimi adattamenti ma senza cenno alcuno a Libera) le tavole del Landi stretto e del Normanno corsivo del s Manuale del 1938. “Dalle iscrizioni monumentali di un edificio pubblico – aveva spiegato Libera, con accenti nei tempi attuali fors’ancor più urgenti d’allora, nella Nota dell’autore del Manuale pratico per il disegno dei Caratteri – a quella volumetrica o dipinta di un negozio, dal monogramma ricamato di un fazzoletto a quello inciso o riportato di un oggetto personale, si prospettano innumerevoli applicazioni che, a tutt’oggi, sono risolte nell’ignoranza completa dell’argomento, con forme o meglio deformazioni, che sembrano fantasie e sono invece arbitrio e ignoranza. I più belli e rinomati alfabeti hanno richiesto anni di lavoro e talvolta decenni di tentativi ed esperienze. È quindi impossibile anche per persone di talento e di buon gusto il poter improvvisare un alfabeto od anche semplicemente alcuni caratteri che a volta a volta dovessero servire”.

[Adalberto Libera pittore letterista, in “Casabella” (Milano), 716, novembre, pp. 18-23]

7.11.04

[2003#05] l’òvo ossia l’abbiccì nòvo


lemmi sparsi dal Diddei dizionario italiano didattico-didascalico-epistemologico illustrato con cenni etimologici
(Svicat, l’Ardenza 2003, ult. ed. agg.)
a cura di Orango G Pelosi

arte (pl. arti) sostantivo f. (àr-te)
1 . Attività fabbricativa della specie umana, fondata sul dominio di un ambito tecnico (dal lat. technicum, gr. tekhnikós, der. di tékhne “arte”), cioè sulla padronanza di un sapere agente, esperito sia nella teoria che nella prassi, mirato alla fattura di peculiari artefatti, inutili ma necessari, consoni al mutevole quadro interpretativo e categoriale dei singoli periodi storici.
2 . Attività teorico-pratica di natura rivelativo-rilevativa, mirata alla conoscenza e alla trasformazione; “assai più che un oggetto di eccitazione estetica e, più che illustrazione, [l’arte] è linguaggio al servizio della conoscenza” (Konrad Fiedler, Aphorismen, 36).
3 . Speciale tipo di merce, valorizzata e promossa da teorici dell’arte, critici ed estetologi, in subordine a interessi prettamente economici, secondo variabili indipendenti da valenze conoscitivo-trasformative; “nel regime della libertà borghese l’arte è caduta sotto un’altra forma di illibertà; emancipatasi dalla dittatura del potere aristocratico ed ecclesiastico, è stata sottomessa all’implacabile dittatura del mercato” (Karel Teige, Il mercato dell’arte, 1936).
> etimologia: dal lat. ars, artis, rad. indoeur. /ARE/ e /RE/ “adattare”, “articolare”, “ordinare” ma anche “applicare”, “guarnire”; aff. ad “arto”, lat. tardo artus, -us, class. artus pl., astr. in -tu della id. rad., pres. in area arm., gr. (artys “unione”) e ind. , e ad “arma”, lat. tardo arma, class. arma, armorum pl., colleg. ad armus “articolazione della spalla”, rad. indoeur. /eRE/, /ERE/, /ARE/, pres. con id. ampliam. in -m- in area anglos. (ingl. Arm “braccio”), arm., balt., germ. (ted. Arm “braccio”), indo-iran., sl., e in area gr. con ampliam. in -sm- (gr. hàrma “attrezzatura”, harmonìa “proporzione”, harmòs “spalla”).

estetica (pl. -che) sostantivo f. (e-stè-ti-ca)
1 . Indagine filosofica relativa alla conoscenza sensibile.
2 . Ambito letterario di recente definizione teorica (fine millesettecento ca.), che intende filosofare di arte quale sensazione; “per i teorici dell’arte esistono le cattedre universitarie, come per i baccalà esistono gli essicatoi; del resto, poverelli, non dànno noja a nessuno” (Viktor Sklovskij, La mossa del cavallo, 1923).
3 . per estens. impropria, gradevolezza, armoniosità, bellezza.
> etimologia: dal lat. mdv. aesthètica, f. sostativ. del gr. aisthetikòs “relativo a sensazione”, agg. colleg. ad aìsthesis “sensibilità”, da aisthànesthai “percepire una sensazione”.

[L’òvo ossia l’abbiccì nòvo 1, in “Sugo” (Venezia), 0, giugno]

6.11.04

[2003#04] iterabili grafie

Schizzo di una teoria generale degli artefatti grafici

Industriosità e artefatti
È forse il caso di affermare, a mo’ di premessa (anche per evitare fastidiosi equivoci su fondamenti lessicali, cronologici e culturali), che l’insieme dei fenomeni di cui ci occuperemo reintra nel novero dell’industriosità cioè di una durevolissima attitudine specifica (= della specie umana): l’invenzione/replicazione di artefatti e, assieme, la produzione/conservazione di saperi – costituenti, assieme, le diverse culture terrestri. A buon diritto, ciò consente di definire con l’appellativo di industrie litiche le aree e le tecniche di produzione dei primigeni utensili preistorici, cioè del parco strumentale umano di base, che si forma 35/40 millenni fa; per non dire di altre, rilevantissime, industrie di ere antiche ma già storiche (= scrittorie, in sostanza). Sullo sfondo, il ciclo complesso dell’invenzione, fabbricazione, trasformazione e ripetizione incessante degli artefatti; “il flusso delle cose – suggerisce George Kubler – non conobbe mai un arresto totale: tutto ciò che esiste oggi è una replica o una variante di qualcosa che esisteva qualche tempo fa e così via, senza interruzione, sino ai primi albori della vita umana”. Questo flusso di “cose” scorre anche nel campo iconico-percettivo: un campo attraversato dalle tensioni continue tra visibile e leggibile, tra astrazione e figurazione, tra multipli fasci di polarità dinamiche, così come dalle variabili dell’intreccio tra metafunzioni e forme, tra informazione oggettivata e prestazione oggettuale. Che “il nostro concetto dell’arte – come reclama sempre G Kubler nell’avvio de La forma del tempo – possa essere esteso a comprendere, oltre alla tante cose belle, poetiche e non utili di questo mondo, tutti in generale i manufatti umani, dagli arnesi di lavoro alle scritture”?.

Neografia, paleografia: tertium datur?
Neografia è, off course, neologismo recente, seo non ancora registrato nelle competenti sedi patrie, quali Annali del lessico italiano contemporaneo, Osservatorio dei neologismi dell’Accademia della Crusca, Osservatorio neologico della lingua italiana, Istituto per il lessico intellettuale europeo e la storia delle idee del Cnr, Ass.I.Term associazione italiana per la terminologia. Ad ogni buon conto, si ipotizza qui che l’ambito neografico comprenda gli studi di storia delle arti visuali occidentali (in virtù del loro esser culture alfabetiche), a partire dalla metà circa del quattrocento, in piena italica rinascenza umanesima. Più precisamente, le ricerche di neografia riguardano i sistemi artificiali (= fondati su artefatti, protetici e strumentali, espressivi e comunicativi di segni visivi codificati (= scritture e immagini), ossia le indagini contigue e conseguenti alla paleografia, intesa in senso estensivo (= storia delle arti visuali dell’antichità classica greco-romana e del medioevo). “La scrittura è fatta di lettere, e sia. Ma di cosa sono fatte le lettere? Si può cercare una risposta storica – sconosciuta per quanto concerne il nostro alfabeto – ma ci si può anche servire di questa domanda per spostare il problema dell’origine, per portare una concettualizzazione progressiva dell’entre-deux, del rapporto fluttuante, di cui noi stabiliamo l’ancoraggio sempre in maniera abusiva. In Oriente, civiltà ideografica, è ciò che sta fra la pittura e la scrittura che è tracciato, senza che si possa trasferire l’uno all’altro; ciò permette di eludere questa nostra legge scellerata di filiazione, Legge paterna, civile, mentale, scientifica: legge discriminante in virtù della quale collochiamo da una parte i grafici, dall’altra i pittori; da una parte i romanzieri e dall’altra i poeti. Ma la scrittura è una e il ‘discontinuo’ che la instaura dovunque fa di tutto ciò che scriviamo, dipingiamo, tracciamo, un unico testo” chiarisce problematicamente (comme toujours) Roland Barthes, in un breve saggio su Massin, intitolato L’esprit et la lettre. Stante ciò, nel campo di pertinenza della neografia può trovar atta collocazione anche la grafica seriale, finalizzata ed eteroespressiva, sia moderna (convenzionalmente, dalla seconda metà del sec. XV agli inizi del secolo XIX) che contemporanea (convenzionalmente, dal 1796, nelle sue successive diverse fasi).
Forse è il caso di chiarire e dichiarare che l’ipotesi qui tratteggiata fa riferimento, in termini generali, ai fenomeni attivi nel novero delle grafie, ossia della produzione variamente replicabile delle “scritture”, sia naturali (= manuali, ossia le chirografie) che artificiali (meccaniche, ossia le tipografie, in prima approssimazione), e delle “immagini” (statiche e dinamiche o, meglio, cinematiche), sia naturali (disegno e ogni altra tecnica prevalentemente manuale di raffigurazione, rappresentazione, restituzione, descrizione e/o immaginazione opto-visiva) che artificiali (foto-grafia, cinemato-grafia, video-grafia e simili, ivi incluse tutte le immagini di sintesi numerico-computazionale). Con queste premesse, ne consegue quanto prima suggerito ossia che la paleografia è ambito d’indagini relative a scritture e immagini naturali o, meglio, alle chirografie, nel mondo antico e medievale. “I nostri eruditi non hanno studiato a fondo che le scritture antiche: la scienza della scrittura – ha suggerito ancora Barthes, nel volume postumo Variations sur l’écriture, con pungente finesse d’esprit, a proposito di iscrizioni verbali naturali – non ha mai ricevuto altro che un sol nome: paleografia, descrizione fine, minuziosa dei geroglifici, delle lettere greche e latine, abile mestiere degli archeologi nel decifrare antiche scritture sconosciute. Ma sulla nostra scrittura moderna, nulla: la paleografia si ferma al XVI secolo, e pur tuttavia come si fa a non immaginare che tutta una sociologia storica, un’immagine complessa dei rapporti che l’uomo classico intratteneva con il suo corpo, le sue leggi, le sue origini, potrebbe uscire da una siffatta neografia che ora non esiste?”.
Elemento caratterizzante ma non esclusivo della neografia è, dunque, l’artificio della replicazione rigida delle tipografie vs quella elastica delle chirografie; non esclusivo, perché le chirografie testuali sono tutt’oggi estremamente rilevanti, eppur poco rilevate, all’ombra vasta e oscurante della produzione meccanica, mentre quelle immaginali son fin troppo studiate. Per conto suo, la tipografia è, di fatto, una tachigrafia meccanizzata, risultante in un identico seriale (l’artefatto a stampa), con una accelerazione quantitativa, prima che qualitativa. Nei suoi prodromi, peraltro, la tipografia non è troppo lontana dalla contraffazione (in genere, fraudolenta inclinazione mercantil-bottegaja dell’arte sempiterna e cogentemente educativa della copia, ben si sape). Attitudine contraffacente non solo perché la tipografia moltiplica copie uguali, quanto (e soprattutto) finché tenta d’imitare in modo letteralmente conforme i manoscritti, suoi prototipi, replicabili anteriormente con tutt’altre economie di scala e rapidità d’esecuzione. Forma dura (con un’analogia in campo chirografico: le scritture epigrafiche, lapidarie, architettoniche, monumentali – quelle, insomma, destinate a durare) di iterazione grafico-testuale, la tipografia diviene rapidamente protagonista prima, se non egemone, della (ri)produzione e conservazione culturale: cambiando il mondo occidentale. Ciò grazie alla convergenza medio-quattrocentesca di saperi operativi diversi in un macchinismo complesso, la “bottega di Gutenberg”; al centro di questa officina si trova un individuo tecnico nuovo: il carattere, inciso nei punzoni, impresso nelle matrici e poi fuso, tramite stampi di specifica concezione, in parallelepipe di leghe di piombo – il “tipo” da stampa, vero urtype della cultura materiale.
Perciò, la neografia disamina ed affronta con attenzione la nebulosa in flagrante espansione della tipografia, con ottiche osservative diverse dagli slogan à la McLuhan & Co., facilmente fascinosi, specie nella vulgata. Si tratta di meglio focalizzare lo studio di una “scritturazione” che viene iterata tramite un parco ridotto di elementi, seriali e normalizzati, ossia per mezzo di una componentistica (uniforme e coordinata: i tipi), supportata da magazzini di scorte intercambiabili. La tipografia appare, in altri termini, quale prototipo emblematico d’ogni industria macchinale successiva, della stessa “rivoluzione industriale” sette- ottocentesca, come ha ribadito da tempo Renato De Fusco.
Si noti, per precisare vieppiù la natura dei fenomeni, che (a valle della transizione a paesaggi e ambienti neografici) la composizione dei tipi in parole, righe, colonne, pagine e volumi viene eseguita con una procedura prima manuale, poi meccanica e, più recentemente, computazionale. Quest’ultima mutazione coincide con il passaggio cruciale da analogico a digitale (in atto dalla prima metà del novecento ma in eccitata accelerazione dagli anni ottanta) e con l’ampliamento degli utenti finali, cioè dei destinatari leggenti/vedenti, non più solo animali senzienti ma anche corpi macchinali. Perciò si pone legittimamente la domanda se non sia il caso di adottare presto un ulteriore neologismo, sia per individuare la scrittura computerizzata e il computer graphic design stesso (on-screen null’altro che rappresentazione a base numerica binaria, on-paper frutto di traduzioni di traduzioni di traduzioni, ove gioca oggi un ruolo principe un linguaggio monopolistico di descrizione di pagina quale PostScript) sia per evidenziarne le peculiarità; tutto ciò, lo si potrebbe chiamare: digigrafia?

Grafica: angolata annotazione iterante
Enunciazione necessaria di un generale obiettivo critico, quale possibile filo conduttore, per ridurre i fatti e le svolte, le cose e gli eventi: il tentativo è di collocare l’attività che comunemente si definisce oggi con il termine “grafica” nel contesto che, da più parti, si suggerisce le competa e le sia proprio, tanto in termini storici che culturali, e cioè il disegno industriale.
Nella storia dell’ominazione ossia nel lunghissimo periodo del farsi uomo (sapiens quanto faber) di una individua specie di primati, il tracciamento di grafismi – prima astratti, ritmico-geometrici, respiratorio-affabulatorii, poi (raf)figurativi (in celeberrime rappresentazioni cavernicolo-rupestri e in numerosi artefatti mobiliari preistorici) – è attitudine specifica, per taluni studiosi precedente la verbalizzazione (se non il linguaggio vero e proprio), che data almeno alcune decine di migliaia di anni ante Cristo. Il diffondersi della presenza dell’uomo sulla terra è marcato visibilmente, alla lettera, dalla scrittura di segni intenzionali, dalle grafie pre- e proto-storiche (di cui in sostanza non s’è ancora saputo discriminare appieno le ragioni, se non per ipotesi), fino alle più composite declinazioni della contemporaneità.
Pare si possa ritenere comprovato che l’antropizzazione, in buona misura, sia consistita (e ancor consista) nell’artificializzazione del mondo, nella concezione, messa a punto, costruzione e specializzazione progressiva di famiglie di artefatti: fabbricazioni o, meglio, fatture di oggetti, assieme in variabili gradi protetico-utilitari quanto comunicativo-simbolici.
Nell’ambito qui d’interesse, un’indagine storica (delle arti visive, in senso proprio) che non intenda esser miope nei riguardi dei propri fondamenti è perciò esposta al confronto con un parco di artefatti che si offre estremamente variegato e variabile, per intenzioni autoriali e morfologie espressive, significati sociali e forme tecniche, modi di produzione e caratteri di ricezione.
In quest’alveo amplissimo si può riconoscere nell’immaginale concreto, nell’imagerie humaine, nell’universo dell’immagine (termine il cui etimo rimanda, non a caso, al significato di “doppio”) un progressivo distanziarsi – senza mai completamente distaccarsi – dello scrivere e del (di)pingere, attività che il tema verbale greco grafo ancora racchiudeva in uno.
Date per acquisite (ma non scontate) queste premesse, qualsiasi analisi storica nell’ambito della grafica può e deve scegliere i propri peculiari itinerari di attraversamento disciplinare, individuando i nodi più significativi. Disciplina squisitamente definita, quanto a teorie e prassi, la grafica, reclamante addestramenti, inclinazioni, strumenti che son esito di applicazione, conoscenze e studi tutt’altro che improvvisabili e genericamente disponibili. Al contrario della confusa nozione estetica (disciplina oggi spesso attratta dall’estetistica) e della banale idea di “cosmetica degli artefatti”, sottoposta ai trends delle fashions, che la nostra epoca sembra averne diffusamente, sin negli empirei universitari.

sketch of a general theory of graphic artifacts

Industriousness and artifacts
It is best, I think, as a preamble (and to avoid bothersome misunderstandings about our lexical, chronological and cultural premises), to state that the ensemble of phenomena we shall be concerned with falls within the circle of industriousness, i.e., of a specific aptitude (= of the human species) of extremely long standing: namely, the invention/replication of artifacts and, together, the production/preservation of knowledge - constituting, together, the different cultures of the Earth. Quite rightly, this allows us to define as "lithic industries" the production techniques and areas of prehistoric primigenial utensils, i.e., of the basic stock of human tools, which took shape 35/40 millennia ago; to say nothing of other, extremely important, industries of ancient but already historical eras (of eras, i.e., with writing).
We see all this against the backdrop of the complex cycle of the invention, fabrication, transformation and incessant repetition of artifacts. "The stream of things" - George Kubler suggests - "never was completely stilled. Everything made now is either a replica or a variant of something made a long time ago and so on back without break to the first morning of human time." This stream of "things" flows also in the iconic-perceptive field: a field crossed by the continual tensions between visible and legible, abstraction and figuration, between multiple bands of dynamic polarities, as by the variables of the intersection of metafunctions and shapes, objectified information and objectual performance. That "the idea of art" - as Kubler claims in the first chapter of his The Shape of Time - "can be expanded to embrace the whole range of man-made things, including all tools and writing in addition to the useless, beautiful, and poetic things of the world."?

Neography, paleography: tertium datur?
"Neografia" - neography - is, of course, a recent neologism, E. & O.E. not yet recorded in the national annals proper to it, such as, in our Italian case, Annali del lessico italiano contemporaneo, Osservatorio dei neologismi dell’Accademia della Crusca, Osservatorio neologico della lingua italiana, Istituto per il lessico intellettuale europeo e la storia delle idee del CNR, Ass.I.Term associazione italiana per la terminologia. In any event, we venture to say that the neographical sphere comprises the studies of the history of Western visual arts (in virtue of their being alphabetical cultures), beginning, approximately, from the mid-1400s, in the glory days of Italic humanistic rebirth. More precisely, neographical research regards the artificial (= founded on prosthetic and utilitarian artifacts), expressive and communicative systems of codified visual signs (= writings and images), i.e., investigations contiguous to and consequent upon paleography, taken in the extended sense (= history of the visual arts of classical Greco-Roman antiquity and of the Middle Ages). "Writing is made up of letters, and so be it. But what are letters made up of? We can attempt to give a historical answer - unknown as far as our alphabet is concerned - but we can also make use of this question to shift the original problem, to bring about a progressive conceptualization of the entre-deux, of the fluctuating relationship, whose anchorage we always establish abusively. In the Orient, as an ideographical civilization, it is what lies between painting and writing that is traced, without the one being transferred to the other; which makes it possible to avoid this infamous law of filiation of ours - a Law that is paternal, civil, mental, scientific: a discriminating law in virtue of which we place graphic artists on one side, and painters on the other; on one side novelists, and poets on the other. But writing is one [unity] and the "discontinuity" that institutes it everywhere makes everything we write, paint, trace, into one single text." Thus states Roland Barthes, clarifying problematically (comme toujours), in a short essay on Massin, titled L’esprit et la lettre. The field of pertinence of neography - alors - can aptly comprise also serial graphics, finalized and heteroexpressive, both modern (conventionally, from the second half of the 15th to the early 19th century) and contemporary (conventionally, from 1796, in its various subsequent phases).
It might be a good idea, at this point, to make clear and to declare that the hypothesis traced here makes reference, in general terms, to phenomena active in the circle of what we shall call graphies, i.e., of the variously replicable production of "writings," both natural (= manual, i.e., chirographies) and artificial (= mechanical, i.e., typographies, of various sorts) and of "images" (static and dynamic or, better still, cinematic), both natural (drawing and any other prevalently manual technique of depiction, representation, restitution, description and/or opto-visual imagination) and artificial (photo-graphy, cinemato-graphy, video-graphy and the like, including all the images produced by numerico-computational synthesis). From these premises there follow the conclusions we suggested earlier, namely, that paleography is the sphere of investigation relative to natural writings and images or, more precisely, to chirographies, in the ancient and medieval world. "Our learned scholars have studied in depth nothing but ancient writings: the science of writing" - Barthes also suggested, in the posthumous volume Variations sur l'écriture, with pungent finesse d'esprit, apropos of natural verbal inscriptions - "has been given but a single name: paleography, fine and meticulous description of hieroglyphics, of Greek and Latin letters, the skilled occupation of archaeologists in deciphering unknown ancient scripts. But on our own modern writing - zero: paleography goes no further than the 16th century, yet how can one fail to imagine that an entire historical sociology, a complex image of the relationships between classical man and his body, laws, origins, might well emerge from a neography that presently does not exist?"
The distinguishing if not exclusive element of neography is, then, the artifice of the rigid replication of typographies versus the elastic replication of chirographies; not exclusive, because textual chirographies are still extremely remarkable, albeit little remarked, in the vast and darkening shadow of mechanical production, while imaginal chirographies are studied all too much. For its part, typography is, in fact, a mechanized tachygraphy, resulting in a serial identical (the printed artifact), with an acceleration more quantitative than qualitative. In its warning signs, moreover, typography is not too far from counterfeiting (in general, the fraudulent merchant-shopkeeper inclination of the sempiternal and cogently instructive art of the copy, as we well know): counterfeiting, not only because typography multiplies equal copies, but (especially) as long as it attempts to produce literal imitations of manuscripts, its prototypes, which previously had been replicable with altogether different economies of scale and swiftness of execution. A hard form (with an analogy in the chirographical field: epigraphical, lapidary, architectural and monumental writings - writings, in short, that are made to last) of graphico-textual iteration, typography rapidly becomes the prime, if not hegemonic, protagonist of cultural (re)production and preservation: changing the Western world. This was thanks to the mid-15th-century convergence of diverse operative know-hows in a complex mechanization, namely, "Gutenberg's shop"; in the center of this workshop we find a new technical individual: the character, cut into the punch, imprinted in the mold and then fused, through dies of specific conception, into parallelepipeds of lead alloy - the printing "type," the true urtype of material culture. Hence, neography scrutinizes and carefully confronts the nebulous in fragrant delict expansion of typography, with perspectives pretty different from McLuhan & Co. slogans, facilely fascinating, especially in the vulgate. It's a matter of bringing better into focus the study of a "scripting" that is iterated through a reduced stock of serialized and normalized elements, i.e., by means of a (uniform and coordinated) ensemble of components (the types), sustained by interchangeable stores in reserve. Typography appears, in other terms, as the emblematic prototype of any subsequent mechanized industry - of the 18th-19th century "industrial revolution" itself, as Renato De Fusco has been insisting for quite some time.
Please note, to bring the nature of the phenomena all the more into focus, that (downstream from the transition to neographical landscapes and environments) the setting of type in words, lines, columns, pages and volumes is performed with a procedure first manual, then mechanical and, more recently, computational. This most recent mutation coincides with the crucial transition from analogue to digital (ongoing since the first half of the 20th century but in excited acceleration since the 1980s) and with the broadening of the ultimate users, i.e., of the reading/seeing recipients, no longer just sentient beings but also mechanized bodies. We thus pose the legitimate question of whether we might very soon need a new neologism, both to individuate computerized writing and computer graphic design itself (on screen, nothing other than binary-based representation; on paper, the fruit of translations of translations of translations, where today a prime role is played by a monopolistic language of page-description such as PostScript) and to bring out its peculiarities. And all this - might we call it "digigraphy"?

Graphics: angled iterating annotation
A necessary declaration of a general critical objective, as a possible guiding thread, to reduce the facts and turning-points, the things and events: the attempt is to place the activity that is today commonly defined with the term "graphics" in the context that many suggest is its due and proper province, both historically and culturally speaking - namely, the ambit of industrial design.
In the history of the origin of humankind, i.e., in the very long period of the becoming Homo (Sapiens and Faber) of an individual species of primate, the tracing of graphisms - at first abstract, geometrico-rhythmical, fabular-respiratory, then figurative and (de)pictive (in celebrated rupestrian-cavernicolous portrayals and in numerous prehistoric utilitarian artifacts) - is a specific aptitude, which for some scholars precedes verbalization (if not true and proper language), dating from at least some tens of thousands of years before Christ. The diffusion of the presence of man on earth is visibly marked - ad litteram - by the writing of intentional signs, by pre- and protohistoric graphies (whose raison d'être has not yet been fully trouvée, except hypothetically), right down to the most composite declensions of contemporaneity.
It is a more or less proven fact that anthropization, to a great extent, has consisted (to this day) in the artificialization of the world, in the conception, perfection, construction and progressive specialization of families of artifacts: fabrications or, better still, factures of objects, together in variable prosthetico-utilitarian and symbolico-communicative degrees.
In our field of interest, a historical investigation (of the visual arts, in the proper sense) that does not intend to be myopic with regard to its own foundations is thus exposed to confrontation with a stock of artifacts that is extremely variegated and variable, due to authorial intentions and expressive morphologies, social meanings and technical shapes, modes of production and characters of reception.
In this huge womb we can still make out in the concretely imaginal, in the imagerie humaine, in the universe of the image (a term whose etymon refers, not fortuitously, to the meaning of "double") a progressive distancing - but never a complete detachment - of writing and (de)picting, activity that the Greek verbal stem grapho still enclosed in one.
With these premises now granted (but not taken for granted), any and all historical analysis in the sphere of graphics can and must choose its own peculiar (cross)disciplinary itineraries, individuating the most significant junctions. Exquisitely defined as to theory and practice, graphics is a disciple that demands training, inclination and instruments that can result only from application, knowledge and studies that are by no means improvisatory or generically available. This, indeed, runs counter to the confused notion of aesthetics (a discipline today often attracted by aestheticism) and to the banal idea of a "cosmetics of artifacts," in thrall to the trends of fashion - notions and ideas that are spreading in our epoch, even to the empyrean of the university.

[Iterabili grafie - Iterable Graphies, in “Sugo” (Venezia), 0, giugno, pp. 26-27]

5.11.04

[2003#03] coca-cola e design

la comunicazione di The World’s Greatest–Ever Brand
[appunti di neografia contemporanea]

Salto triplo, a mo’ di premessa
1 . da L’esprit et la lettre di Roland Barthes
“La scrittura è fatta di lettere, e sia. Ma di cosa sono fatte le lettere? Si può cercare una risposta storica – sconosciuta per quanto concerne il nostro alfabeto – ma ci si può anche servire di questa domanda per spostare il problema dell'origine, per portare una concettualizzazione progressiva dell’entre–deux, del rapporto fluttuante, di cui noi stabiliamo l’ancoraggio sempre in maniera abusiva. In Oriente, civiltà ideografica, è ciò che sta fra la pittura e la scrittura che è tracciato, senza che si possa trasferire l’uno all’altro; ciò permette di eludere questa nostra legge scellerata di filiazione, Legge paterna, civile, mentale, scientifica: legge discriminante in virtù della quale collochiamo da una parte i grafici, dall'altra i pittori; da una parte i romanzieri e dall'altra i poeti. Ma la scrittura è una e il ‘discontinuo’ che la instaura dovunque fa di tutto ciò che scriviamo, dipingiamo, tracciamo, un unico testo”.
2 . da Variations sur l’écriture di Roland Barthes
“In uno stesso campo culturale o storico, scritture si disgiungono o si generano da altre scritture. Si oppongono, sovente, in ragione della funzione […] Ma altrettanto spesso si incontrano, nella nostra storia, tipi di scritture fondate su semplici differenziazioni di forme – differenze in certo modo non necessitate ma dalle quali è sempre possibile trarre, per contrappunto, questo e quel risvolto etico […] Per concludere, la scrittura, come qualsiasi fenomeno storico, è sovradeterminata: sembra sottoposta, ad un tempo, a cause materiali (la scrittura si restringe se bisogna risparmiare spazio, allorché il supporto costi caro) e a motivazioni spirituali (la scrittura si rastrema per avvicinarsi allo stile di un’epoca e, se mi è concesso, per ‘provare’ che c’è una filosofia della Storia: cioè che la Storia è una e unica)”.
3 . da Les mots et les choses di Michel Foucault:
“Il rapporto da linguaggio a pittura è un rapporto infinito [in quanto] sono irriducibili l’uno all’altra: vanamente si cercherà di dire ciò che si vede: ciò che si vede non sta mai in ciò che si dice; altrettanto vanamente si cercherà di far vedere […] ciò che si sta dicendo”.

Storia e cultura d’impresa
Occuparsi di una “bibita gassata” quale la Coca–Cola, di una marca™ e dei suoi marchi®, cioè del “prodotto” eponimo e dell’omonima ormai ultra–centenaria impresa, The Coca–Cola Company, che le è cresciuta attorno sino a divenire un impero economico globale (con le conseguenze che ciò implica, su molti fronti, più o meno evidenti e/o interrelati), potrebbe apparire esercizio, se non ozioso, almeno laterale e fors’anche un po’ fuori centro, nelle pagine di una rivista universitaria come questa, che mi ospita assai pazientemente.
Invece (almeno imho), significa avvicinarsi ad un cluster industrial–produttivo di singolare complessità, a un formidabile caso–di–studio aziendale, irriducibile a formule facili e ad analisi sveltamente esaustive, che fan presto a trasformarsi in ciance da bar o brusìo da salotto. Volendo, certamente, si potrebbe scrivere anche in poche pagine, una Storia universale della Coca–Cola dalle origini a oggi. Anzi, sarebbe relativamente facile, raccontandola nelle forme in cui più frequentemente la si trova esposta, episodiche e aneddotiche, superficial–generiche e alla fine di costrutto poco; azzarderei, se mi si passa il termine un po’ desueto (per la mia generazione, a suo tempo, assai consueto, invero), anche un po’ mistificanti. A loro modo, infatti, queste narrazioni (più fiction che historia) son spesso partecipi, inconsapelvomente magari, di una strategia persuasoria che se non è occulta, almeno non è trascurabile, quella della disinformacija o, più banalmente, delle “voci”, ventilabili secondo versi di segno + o – e connotabili artatamente: ricordate la cabaletta di Don Basilio (atto I, scena 6) nel Barbiere di Siviglia? A tutto utile, quest’approccio alle vicende Coca–Cola stile all–in–one-column ovvero “in–poche–parole–il–succo” (tanto amato dalla tivù e da certo giornalismo scribacchino), tranne che alla comprensione critica e all’indagine storica, teorica, operativo–documentaria, nel campo del progetto e dell’impresa industriali: obiettivo comune e programmatico, in questa sede consortile di specifico confronto culturale tra sedi selette, luoghi diversi, centri geograficamente distanti quanto intellettualmente prossimi dell’elaborazione universitaria in Italia.
Nello spazio disponibile, anche per evitare d’esser troppo invasivi (la materia, del resto, dispone di corposissima bibliografia e di assai ricca documentazione, anche e probabilmente ancor più on–line, nell’inter–rete ecumenica del www), è d’uopo fermarsi al tentativo di descrivere, secondo visuali angolate ma coerenti – almeno a mio avviso, s’intenda – in/a questa sede, soltanto alcuni tratti salienti (per la prospettiva di chi scrive), alcuni frammenti significativi: orientati ritagli, obliqui scorci, mirate inquadrature di un ben più dilatato e plurivoco, screziato e sfumante panorama. Insomma, pochi ma buoni frames, solo in parte consecutivi, ritagliati da un continuum cronologico travalicante 110 anni, ove sarebbe util–opportuno districar le parentali genealogie: di un prodigio nel campo dei bibenda quale la Coca–Cola, nella storia pressocché unico, anche nei rispetti del disegno industriale, per la pluralità e la varietà di questioni ad esso pertinenti che, dalla fine dell’ottocento, ha sollevato, attraversato e investito; di un’impresa come The Coca–Cola Company, che nuota tuttora con lena nel gorgo marino del tempo, senz’esservi né affondata né affogata, pur dopo aver bevuto, in anni recenti, qualche amara sorsata d’acqua azzurra o più precisamente blu, e aver poi lasciato sul mercato, nella temibile Pepsi Challenge degli anni ottanta la contromossa – cioè la New Coke – per soli 77 giorni (di fronte a un corale, imperativo “Bring Back the Coca–Cola Classic” da parte del paese), vero record e flop colossale, dall’esito peraltro paradossalmente felice per la rossa. Aldilà dei “segreti” della bibita e delle leggende metropolitane che l’accompagnano, oltre le studiate banalità della sua saga (invero, raffinata come poche), la vicenda della Coca–Cola tocca questioni di tutto rilievo per l’Industrial Design. Solo per punti, e non esaustivi, basti far mente locale a: l’evoluzione sistemico–familiare, che ha portato da una rigorosa politica di monoprodotto alla diversificazione spinta (più di 20 soft drinks diversi, a principiare da Sprite – e poi TaB, Mello Yello, Mr Pibb, Fresca… – e oltre 5 tipi di Coke, a cominciare dalla Diet Coke, introdotta nei primi anni ottanta, con uno dei big deals di Roberto Goizueta, l’allora presidente novello di The Coca–Cola Company, scomparso prematuramente nel 1997), fino all’inedita se non eterodossa “filosofia” attuale, riassumibile nella mission “Think Locally, Act Locally”; le peculiari configurazioni sia delle forme sia dei modi (e, di speciale interesse per gli architetti, dei luoghi) della sua produzione, confezione e distribuzione; le caratteristiche di un’identità visuale e comunicativa per molti versi prototipica, sul piano del privato, forse quanto l’Aeg teutonica o le Ptt olandesi e il London Trasport britannico su quello del pubblico; la continua modulazione, adattativo-evolutiva (in termini sia temporali sia spaziali sia contestuali) di un sofisticato immaginario multisensoriale, per proiezione e introiezione di messaggi veicolati efficacemente; le modalità socio–culturali di consumo e le caratteristiche specifiche di ricezione planetaria; per tacere (da profano) di temi proprii ad ambiti economico–finanziari, organizzativio–pianificatorii e gestional–commerciali. Occuparsi a fondo della Coca–Cola significa riconoscere anche le responsabilità manageriali e i rischi d’impresa che, nella vicenda, hanno saputo assumere e gestire gli uomini messi ai vertici, sviluppando una specifica e durevole “cultura aziendale”; last but not least, implica rilevare il compito strategico ma non perciò esclusivo che la “comunicazione” ha svolto nei confronti del prodotto e della sua identità.
Non a caso, in un ormai classico saggio di Wally Olins sui temi del design identitario d’impresa (nell’accezione di strumento comunicativo in grado di rendere visibili le strategie d’affari, sia operative che prospettiche), qual è il volume intitolato Corporate Identity (Thames and Hudson, London 1989, p. 33), nel capitolo dedicato a The Corporate Search for Identity, l’autore si esprime in questi termini: “There are a number of identities that are largely communication–led […] Coca–Cola is a maroon fizzy liquid of – some would say – no intrinsic interest or merit. It is little different in itself from thousand of other soft drinks made all over the world. The imagery of Coca–Cola, however, is simply stupefying. Its global success is a tribute to the ingenuity, fanatical dedication and immense sum of money devoted to communication. The traditional bottle, the logotype, the colours, and the lavish adverstising on a mega scale have combined with obsessive attention to detail and an unequalled global distribution system to create the world’s greatest–ever brand. Through the most sophisticated techniques supported by untold billions of dollars, Coca–Cola has become synonymous more or less throughout the world with all the good things in life […] Because communication, more particularly advertising and packaging, gives life and personality to consumer product […] almost inevitably, therefore, many people have come to associate advertising with identity, or with image. This is a misleading and potentially dangerous idea, because is has the effect of devaluing the real power of product, environment and behaviour in the identity mix, at the risk of overvaluing information techniques. Perhaps even more importantly though, the idea that identity is somehow inextricably associated with conventional communication techniques, and particularly with advertising, inevitably distorts the reality, which is that identity is usually a manifestation of what the organization is all about; and that in the end, identity is the responsability of the people who run the organization and not only of its designers, public relations people or advertising agencies”.
Raccolte le osservazioni di Olins per definire una chiave di lettura con cui è difficile non esser concordi, poiché corre obbligo di rinunciare – espace oblige – a dipanare i plurali ed intrecciati fili della fascinosa vicenda Coca–Cola (dai singoli singolari protagonisti della sua ventura industriale, alla natura composizione preparazione confezione della bibita, dall’articolata vera e propria storia d’impresa alle filosofie di Marketing e Advertising, Merchandising e Customer–Care, per dirne solo alcune, di “The Thing”), non resta che riportare almeno delle annotazioni storiche su taluni aspetti marcanti della comunicazione di “The World’s Greatest–Ever Brand”.

Scritture e figure
Aggettivata dal cognome del suo inventore e propugnatore, Platt Rogers Spencer (1800–64), lo Spencerian Script è una scrittura tracciata a penna d’oca, genuinamente e originalmente nordamericana, ultimativamente raccolta nel fortunato opus magnum postumo The New Spencerian Compendium of Penmanship, curato dai suoi cinque figli, in due distanti edizioni (1879, 1887). Lo stile scrittorio dello Spencerian differisce abbastanza sensibilmente da quello dell’English Roundhand, la scrittura formale usata, fino alla prima metà dell’ottocento, dai Founding Fathers delle colonie britanniche d’oltreoceano, trasformatisi poi in rivoluzionari ribelli alla madrepatria, in nome dell’indipendenza degli United States of America (1776). L’English Roundhand Script, noto anche come Copperplate Script, era stato definitivamente canonizzato in patria da un capolavoro calligrafico quale The Universal Penman (London 1733–43) di George Bickham. L’English Roundhand, per intendersi, lo conosciamo (più o meno tutti, anche se non ne sappiamo il nome) come corsiva “inglese”, la scrittura che, ia, ancora fregia e contraddistingue letteralmente molte alte istituzioni pubbliche del nostro paese (ministeri, dintorni e superni). Paradossale, tuttavia, l’aggettivazione riferita alla terra d’Albione, per una scrittura che è erede diretta della corsiva bastarda, ideata dal milanese Giovanni Francesco Cresci (ca 1534–1614 ca), “Scrittore della Libraria Apostolica” vaticana dal 1556 e autore – ma non solo – del fondamentale Essemplare di piu sorti lettere… (Roma 1560) e de Il perfetto cancelleresco corsivo (Roma 1579). La cancelleresca bastarda di Cresci è “scrittura formale”, pratica scrittoria alto–burocratica e d’apparato, che verrà diffusa e ripresa nel corso dei secoli, grazie e attraverso interpretazioni magistrali, quali quelle secentesche prima dell’olandese Jan van den Velde, poi del francese Louis Barbedor, forse il maggiore esegeta dell’italienne–bastarde, lungo un seducente percorso di incessanti trasformazioni. A tal proposito, è utile riportare ciò che Giovanni Anceschi spiega nel suo basilare Monogrammi e figure (La casa Usher, Firenze–Milano 1981, p. 81), discettando di “un’altra scelta fondamentale di efficienze nella trasmissione. E ci riferiamo a quella della riproduzione (come produzione rinnovata) tipica delle repliche elastiche della scrittura, dove cioè non è indispensabile una perfetta sovrapponibilità fra modello e ripetizione. Essa si contrappone alla riproduzione meccanica o tecnica, caratterizzata da repliche rigide, o meglio sostanzialmente identiche. Rapidità esecutiva (previa una lenta predisposizione) per la riproduzione meccanica ed elasticità di restituzione per la riproduzione manuale sono gli obbiettivi di efficienza contrapposti”. Sperimentando replicazioni elastiche, la cancelleresca bastarda viene elaborata, ad esempio, in eleganti sobrie forme da Charles Snell, nel suo The Pen–man’s Treasury Open’d (London 1694), finendo per trovare intelligente traduzione nell’universo replicante hard, ad opera di Matthew Carter, con il carattere da stampa Snell Roundhand (1966), disegnato per la Linofilm – cioè per uno tra i primi, se non il primo sistema affidabile di fotocomposizione (1957) al mondo. Così come si trovano molte altre versioni novecentesche in piombo dello stile scrittorio English Roundhand: dal Künstler Schreibschrift (anglicizzato oggi in Kuenstler Script) della D. Stempel AG di Frankfurt a/M (1902), ripreso per la stessa fonderia da Hans Bohn (1957), al Palace Script (1923) della britannica Stephenson, Blake & Co. di Sheffield. D’uso comune per buona parte dell’ottocento e degli inizi del novecento negli Usa, anche lo Spencerian Script verrà sostituito da un altro sistema di lettere, più semplici da tracciare, adottato dalle scuole di New York City fin dal 1905. Si tratta della scrittura di Austin N. Palmer (1860–1927), autore di un’originale Palmer’s Guide to Muscolar Movement Writing (1888), di fatto semplificando il ductus peculiare dello Spencer, in coincidenza con la generale sostituzione della penna d’oca colpennino d’acciaio .
Prima che ciò si verificasse, la mano di Frank Mason Robinson (vero personaggio–chiave, eppur scarsamente noto, della vicenda Coca–Cola) traccia nel 1886, in un fluido ed elegante Spencerian Script, customizzato da un sapiente tocco personale, lo svolazzante logotipo Coca–Cola, il cui pristino utilizzo è per un’etichetta. Nel marzo del 1886 (l’anno d’inaugurazione della statua della libertà a New York), il buon Robinson aveva tentato invano di vendere una macchina da stampa bicolore a un non troppo fortunato, sebben strenuamente operoso, farmacista–imprenditore, residente ad Atlanta, in Georgia: John Stith Pemberton, l’inventore della “ricetta” della Coca–Cola. Risultato invece fu che Pemberton riuscì a convincere Robinson a partecipare, in società con altri, allo sfruttamento commerciale di uno sciroppo, di cui il farmacista stava perfezionando la formula nel suo laboratorio casalingo in 107 Marietta Street, quale base per una dissetante e tonificante bibita da drugstore. Mentre Pemberton sta ancora mettendo a punto la formula dello sciroppo, ultimata un fatidico 8 maggio del 1886, Robinson affronta e risolve il problema di come chiamarlo, con un’invenzione destinata a fare storia: il nome scelto è infatti Coca–Cola, che trae spunto fonetico–verbale da due degli ingredienti di maggiore presa, anche fantastica (estratto non alcoolico di foglie di coca sudamericana – nella composizione ancor’oggi è presente, come aromatizzante, un derivato decocainizzato delle foglie di eritroxylum – e noci di cola africana), per essere registrato come trade mark il 31 gennaio 1893, dopo assai complicate vicissitudini societarie. Un marchio commerciale più che notevole, tanto per la pronunciabilità pressocché panlinguistica, quanto per una pronta memorabilità, in virtù sia della duplice allitterazione (co–co e ca–la), sia dell’iterazione di tre c dure (k–k–k). La crescente, anzi travolgente fortuna della bevanda, venduta in bottiglia fin dal 1894, stimola ben presto la nascita di altri marchi competitori, pronti a sfruttare più o meno surrettiziamente sia il peculiare naming del prodotto–leader, sia il nomignolo con cui veniva abbreviato, già prima della Grande Guerra, ossia Coke, come prova la (sia pur temporanea) concorrenza della Koke Company of America. Ad ogni modo, poiché Coca–Cola è un nome composto, la protezione come trade mark vale per l’insieme ma non copre la seconda parte, tant’è che non mancano diverse “cola” sul mercato. Tutto ciò ha portato The Coca–Cola Company ad affrontare molti importanti dibattimenti giudiziari, a difesa del proprio marchio; due di particolare rilievo, nella seconda metà degli anni dieci del novecento: nel 1916, la causa vinta contro la concorrenza sleale, con l’eliminazione di marchi quali Candy Cola, Cay–Ola, Cold Cola, Fig Cola, Koca–Nola; nel 1920, lo storico pronunciamento della corte suprema degli Usa sull’esclusiva di The Coca–Cola Company sul nomignolo Coke (“It means a single thing, coming from a single source – sentenziò esemplarmente il giudice Oliver Wendell Holmes – and well known to the community”), apparso sulle bottiglie per la prima volta nel 1941 e infine registrato nel 1945.
Oltre al conio del nome e al disegno del marchio (presto definito anche nella versione con il logotipo bucato in bianco su fondo rosso primario), Frank Mason Robinson si occupò egregiamente ed ecumenicamente per la Coca–Cola di amministrazione, produzione, distribuzione, promozione e pubblicità. Il 29 maggio 1886 faceva infatti pubblicare il primo annuncio promozionale della bibita sulla stampa quotidiana locale, nelle pagine di “Atlanta Daily Journal”, impostando un claim durevole e marcante: “Coca–Cola. Delicious! Refreshing! Exhilarating! Invigorating! The New and Popular Soda Fountain Drink, containing the properties of the wonderful Coca plant and the famous Cola nuts. For sale by Willis Venable and Nunnally & Rawson”. Dopo la morte di Pemberton nel 1888 e l’acquisizione della proprietà intera della Coca–Cola (nel 1889–91, dopo non lineari percorsi) da parte di Asa Griggs Candler, fondatore nel 1892 di The Coca–Cola Company, Robinson continuò a sviluppare il programma di comunicazione e l’identità d’impresa, con sagaci intuizioni, attraverso un’estesa gamma di mezzi e con ampie risorse: inserzioni e pubblicità su periodici e quotidiani, tagliandi di consumo gratuito e tecniche analoghe di promozione, insegne e calendari (il primo, nel 1891, mostra curiosamente un marchio difforme da quello oggi universalemente noto, se è attendibile l’indice di 94% di riconoscibilità planetaria che assicurano le inchieste, registrato solo due anni dopo come trade mark), e persino il testimonial di una donna – la celebre cantante lirica Hilda Clark – già nel 1894, inaugurando un costume che, pur senza eccessi, dagli anni trenta del novecento vedrà altri testimonial d’eccellenza della Coca–Cola in dive e divi del cinema come Greta Garbo, Joan Crawford, Johnny Weissmuller. Nel 1890, riportano le cronache, l’investimento in comunicazione era pari (o forse superiore – su questa voce l’impresa è sempre stata molto abbottonata) ai ricavi delle vendite ma nel 1908 ben 2,5 milioni di metri quadri di superfici esposte reclamizzavano la Coca–Cola e oltre 10.000 vetrine esponevano le insegne aziendali. Tutto ciò per merito precipuo di Robinson, che a questa missione di propaganda si dedica fino al pensionamento nel 1913, nonostante il fatto che, per contrasti sorti intorno al 1906 sulle politiche promozionali, Sam Dobbs (responsabile delle forze di vendita e nipote del proprietario) finisca per sostituirlo al vertice dell’ufficio Advertising, che inizia proprio nel 1906 una straordinaria collaborazione con l’agenzia di pubblicità D’Arcy di St. Louis, destinata a durare fino al 1956 (in massima parte affidata alle mani del creativo Arthur “Archie” Lee), seguita poi dalla McCann–Erickson (1956–69). Una delle altre mosse vincenti di Candler, prima del passaggio in altre mani della proprietà (alla fine degli anni dieci del novecento), fu di affidare in franchising l’imbottigliamento della Coca–Cola, inaugurando un sistema distributivo grossomodo tutt’ora in uso, a cui è legata un’altra vicenda di non secondario tratto e cioè il packaging del prodotto: dalle prime bottiglie in vetro (nel 1899 la Hutchinson, nome di un sistema d tappatura, sostituite poi fino al 1916 dalle cilindro-coniche con tappo corona) alla classica hobble–skirt (la forma rigonfia che tutti conosciamo, prototipata in vesti ancor più turgide nel 1915 da The Root Glass Company di Terre Haute, nell’Indiana, ivi sviluppata definitivamente per mano dell’ingegnere svedese Alexander Samuelson e brevettata presso l’ufficio registri Usa nel 1916: secondo Raymond Loewy, progettista per la Coca–Cola anche di un celebre streamlined dispenser, che curerà un sobrio redesign della hobble–skirt, “the most perfectly designed package in the world”), dalle lattine metalliche (la prima nel 1942, ad uso dei militari, con tappo corona – degli anni novanta l’adozione della versione risparmio in alluminio) al Classic & Diet Coca–Cola Space Dispenser per lo Shuttle Discovery (1995) fino ai polimeri d’universale adozione oggi, in una gamma sempre più ampia di formati e confezioni… ma questa è un’altra storia. È una storia che, lungo l’arco centrale del novecento, vede lo straordinario sviluppo planetario di The Coca–Cola Company nelle salde redini di Robert Woodruff, fino alla sua scomparsa nel 1980 (nonostante lasci la carica presidenziale nel 1955), attraverso politiche di valorizzazione del marchio e di marketing innovative: dalla prescrizione severa di standard unificanti e identificanti ogni aspetto del prodotto e della sua distribuzione all’adozione delle stazioni di servizio stradali come originali punti–vendita, dall’attacco a radio e cinema al ricorso al talento di illustratori straordinari quali lo svedese Haddon Sundblom (inventore dell’immagine moderna di Santa Claus, alias Babbo Natale, nella campagna del 1931, e, nella campagna del 1941, dell’allegro Sprite, destinato poi a battezzare l’omonima bevanda) e l’americanissimo Norman Rockwell, dalla diffusione di dispenser e cooler ovunque alla fornitura assicurata della bevanda su tutti i fronti americani durante la seconda guerra mondiale: al cui termine, The Coca–Cola Company si sarà guadagnata 64 stabilimenti in tutti i continenti. Da questa solida base, la Coca–Cola (fino ad allora, sostanzialmente affermata solo negli Usa, a Cuba e in Germania) ripartirà per la conquista del pianeta nel dopoguerra, attraverso il rinnovarsi continuo della sfida comunicazionale nella nebulosa dei new media fino ai nostri giorni, con l’adozione, negli anni settanta, di un ondulante svolazzo (ad affiancare pittogrammaticamente il logotipo, tradotto in tutte le lingue) e celeberriml spot televisivi (particolarmente felici le immagini di fratellanza universale, girate in Italia, degli anni settanta e quelle spaziali alla fine degli ottanta), nonché l’affacciarsi nei bits (è del 2002 l’annuncio dell’archivio digitale, curato da Ibm, disponibile in intranet aziendale e forte di 24.000 files storici, immagini campagne filmati spot e via dicendo) e nel web.
Nel porre un necessario, a questo punto, termine alla nostra indagine, si potrebbe porre a suggello della vicenda identitaria della Coca–Cola, senza trovar in ciò conclusioni ultime, quanto ha sostenuto Marshall MacLuhan (non senza condivisibili obiezioni) circa i caratteri delle società umane e cioè che queste “sono sempre state plasmate più dalla natura dei media attraverso i quali gli uomini comunicano che non dal contenuto della comunicazione”.

headlines
la lista non è esaustiva e le datazioni hanno qualche, ovvia, approssimazione
(tra parentesi le versioni italiane)
1886
Delicious, Refreshing, Exhilarating
1895
Delightiful Summer and Winter Beverage
1900
Deliciously Refreshing
1905
Coca–Cola Revives and Sustains
1906
Great National Temperence Beverage
1908
Good To The Last Drop
1917
Three Million a Day
1920
Drink Coca–Cola With Soda
The hit That Saves The Day
1922
Thirst Knows No Season
1923
Refresh Yourself
There’s Nothing Like It When You’re Thirsty
1924
Pause and Refresh Yourself
1925
Pause and Refresh Yourself
1926
Stop At The Red Sign
1927
Around The Corner From Anywhere
At The Little Red Sign
1928
A Pure Drink Of Natural Flavors
1929
The Pause That Refreshes
1930
Meet Me At The Soda Fountain
1932
Ice Cold Sunshine
The Drink That Makes Pause Refreshing
1933
Don’t Wear A Tired, Thirsty Face
1934
When It’s Hard To Get Started, Start With A Coca–Cola
1935
All Trails Lead To Ice–Cold Coca–Cola
1936
Get The Feel Of Wholesome Refreshment
1937
Stop For A Pause... Go Refreshed
1938
The Best Friend Thirst Ever Had
Anytime Is The Right Time To Pause and Refresh
Pure As Sunlight
1939
Thirst Stops Here. Makes Travel More Pleasant
1940
The Package That Gets A Welcome At Home
1941
A Stop That Belongs On Your Daily Timetable
1942
The Only Thing Like Coca–Cola Is Coca–Cola Itself
1943
A Taste All It’s Own
1944
High Sign Of Friendship
1945
Coke Means Coca–Cola
1947
Relax With The Pause That Refreshes
(La pausa che ristora)
1948
Where There’s A Coke, There’s Hospitality
1949
Along The Highway To Anywhere
1950
Help Yourself To Refreshment
1951
Good Food And Coca–Cola Just Naturally Go Together
1952
Coke Follows Thirst Everythere
1953
Dependable As Sunshine
1954
For People On The Go
1955
Americans Prefer Taste
1956
Feel The Difference, Makes Good Things Taste Better
1957
Sign of Good Taste
1958
Refreshment The Whole World Prefers
1959
Make It The Real Meal
1959
Relax Refreshed With Ice–Cold Coca–Cola
(Per la pausa che ristora – la frizzante Coca–Cola)
1960
Relax With A Coke, Revive With A Coke
(Durante una pausa... gustate Coca–Cola)
1961
Coke And Food
(Coca–Cola... il miglior ristoro)
1962
Enjoy That Refreshing New Feeling
1963
Things Go Better With Coke
(Tutto è meglio con Coca–Cola)
1964
You’ll Go Better Refreshed
1965
Something More Than A Soft Drink
1966
Coke... After Coke... After Coke
(Ha sempre il gusto che ci vuole)
1970
It’s The Real Thing
(Tempo di Coca–Cola)
1971
I’d Like To Buy The World A Coke
1975
Look up America
1976
Coke Adds Life
(Coca–cola dà più vita a...)
1979
Have a Coke and a Smile
(...dà più vita a ciò che piace a te)
1982
Coke Is It
(Coca–Cola di più)
1986
Catch the Wave – Red, White and You
1987
Can’t Beat the Feeling
(Sensazione unica)
1988
Can’t Beat the Real Thing
(Sensazione unica)
1993–5
Always Coca–Cola
(Sempre Coca–Cola)
2000
Coca–Cola enjoy
2001
Life tastes good


[Strategie di comunicazione del più grande brand, in “diid” (Roma), 3/4, pp. 66-95, poi abbr. Coca-Cola storie di un marchio, in “Casabella” (Milano), 711, maggio, pp. 45-49]

cfr voce Coca—Cola in Wikipedia

4.11.04

[2003#02] un sasso nello stagno…


appunti e citazioni sparse

1 . dire e vedere
“Vanamente si cercherà di dire ciò che si vede: ciò che si vede – scrive Michel Foucault ne Le parole e le cose – non sta mai in ciò che si dice; altrettanto vanamente si cercherà di far vedere […] ciò che si sta dicendo”.

2 . pittura e scrittura
“La scrittura è fatta di lettere, e sia. Ma di che cosa sono fatte le lettere? – si interroga Roland Barthes a proposito del libro di Massin su La lettera e l’mmagine – (…) Si può cercare una risposta storica – sconosciuta per quanto concerne il nostro alfabeto –; ma ci si può anche servire di questa domanda per spostare il problema dell’origine, per portare una concettualizzazione progressiva dell’entre–deux, del rapporto fluttuante, di cui noi stabiliamo l’ancoraggio sempre in maniera abusiva. In Oriente, civiltà ideografica, è ciò che sta fra la pittura e la scrittura che è tracciato, senza che si possa trasferire l’uno all’altro; ciò permette di eludere questa nostra legge scellerata di filiazione, Legge paterna, civile, mentale, scientifica: legge discriminante in virtù della quale collochiamo da una parte i grafici, dall’altra i pittori; da una parte i romanzieri e dall’altra i poeti. Ma la scrittura è una e il ‘discontinuo’, che la instaura dovunque, fa di tutto ciò che scriviamo, dipingiamo, tracciamo, un unico testo”.

3 . tipografia e comunicazione
Nell’ottobre 1925, le “Typographische Mitteilungen” di Lipsia pubblicano elementare typographie: un avvenimento centrale nella storia della grafica del novecento, che suscita in Germania un’eco subitanea di polemiche, consensi e conversioni, pronta a rimbalzare in fama universale. “1 La nuova tipografia – vi si legge, tra l’altro – ha un fine obiettivo. 2 Il fine della tipografia in generale è la comunicazione. La comunicazione si realizza nel modo più sintetico, semplice ed esatto possibile. 3 Per rispondere alle funzioni sociali della tipografia, bisogna organizzare le sue componenti, sia interne (contenuti), sia esterne (uso coerente di materiali e metodi di stampa). 4 Organizzazione interna significa limitarsi agli elementi di base della tipografia: lettere, cifre, segni, righe di caratteri […] Gli elementi di base della nuova tipografia includono […] anche l’immagine oggettiva: la fotografia. La forma di base del carattere da stampa è senza grazie”.

4 . qualità e perseveranza
Parafrasando un grande pensatore tedesco, si potrebbe sostenere che “qualità è perseveranza”: la qualità è figlia di passione e rigore, educazione e impegno, senza risparmio e senza quartiere.

5 . qualità e comunicazione pubblica: le identità istituzionali
Cercando di trarre una lezione pratica dagli esempi migliori (nella storia) della comunicazione pubblica, a proposito della “qualità” si può sostenere, in estrema sintesi, che:
a . i risultati più elevati si sono ottenuti attraverso il più ampio ed ecumenico coinvolgimento dei migliori progettisti disponibili e accessibili, rinunciando a improduttive forme concorsuali ecumeniche, assumendosi piuttosto il rischio di concorsi a selettivi inviti o anche a diretti incarichi.
b . la complessità intrinseca della situazione contemporanea (ossia la catastrofe digitale, altresì e al contempo foriera di “progressive sorti”) suggerisce (a esser sinceri, da almeno 3 lustri) una “sistematica non schematica” di progetto, da configurarsi con semplicità ed elasticità, prevedendone una realizzazione collaborativa, condivisa e fatta propria da tutti coloro che ne sono partecipi, come gestori e utilizzatori attivi, ad ogni livello
c . l’arretratezza della cultura d’identità (e, in generale, visuale) del nostro paese in qualche modo motiva e fa obbligo a luoghi di ricerca e educazione come l’università di proporsi quali luoghi di messa a punto metodologica, di sperimentazione elevata del tema, di configurazione e produzione di artefatti comunicativi d’eccellenza. L’identità visiva è, ad ogni modo, parte di un sistema più ampio, con cui si identifica e vogliamo si identifichi un’istituzione: la sua capacità di comunicare. La progettazione e gestione dell’identità visuale e, più in generale, della comunicazione sono perciò funzioni di ateneo e non delle singole strutture. Per usare un’immagine musicale: il problema non è di costringersi a ripetere sempre la stessa solfa, perché le esecuzioni possono essere le più varie nelle più diverse condizioni e formazioni, ma di saper accordare gli strumenti e di rispettare la tonalità in chiave della partitura, mantenendo così l’armonia generale, la scansione del ritmo, il senso della melodia, tanto che si tratti di un’orchestra quanto di un solo strumento a suonare.
È (non solo) mia profonda convinzione che la forza dell’identità visiva di una istituzione quale quella universitaria debba fondarsi, una volta impostata e decisa, su una continuità morigeratamente innovativa: sul ricorso seriale, sull’iterazione ben temperata, sul rispetto intelligente di pochi elementi, a tutto vantaggio dell’intellegibilità esterna e della progressiva coesione interna delle strutture, attorno a una distintà configurazione dell’istituzione: si tratta di un’inesauribile work-in-progress, che impegna anni e per anni impegnerà a mantenersi coerenti con una fisionomia in perenne lento mutare.

[Un sasso nello stagno…, in “duepunti” (Venezia), febbraio, efc, p. 14]

3.11.04

[2003#01] 500 architetture


cronache grafiche e storia di riviste, in forma di collage

Il buon disegno
“Io penso che ogni problema di industrial design conduca il designer a seguire una diversa procedura; anzi, che il valore di un buon disegno – dichiara Marcello Nizzoli, giusto nel 1955, anno di avvio de “L’architettura – cronache e storia” – dipenda, alla base, dal rapporto tra il metodo seguito e la forma del prodotto disegnato. Lo scopo è raggiunto quando il designer è riuscito a tener presente tutti i condizionamenti e a farli diventare, durante il suo lavoro, altrettanti elementi che concorrono alla sua visione del prodotto. Insomma la forma è quella che unifica ed esprime tutti gli aspetti anche talvolta contrastanti che caratterizzano un prodotto”.

“Metron”
La “rivista internazionale di architettura Metron”, prima tra tutte e sola nel settore fino al 1946 , “uscì nell’immediato dopoguerra, per iniziativa di Eugenio Gentili, Luigi Piccinato, Enrico Tedeschi, Cino Calcaprina, Silvio Radiconcini e B.[runo] Z.[evi]. I primi 24 numeri – piccolo formato, carta ruvida, poche illustrazioni – servirono ad aggiornare la cultura italiana che il fascismo aveva isolato dal circuito internazionale […] Della serie a formato medio (dal n. 25 al n. 44) e di quella a formato grande (dal n. 45 al n. 53-54), diretta da Riccardo Musatti, Luigi Piccinato, Silvio Radiconcini e B.[runo] Z.[evi]” va evidenziato, ai nostri fini, come il passaggio alle olivettiane edizioni di Comunità porti al ridisegno della grafica, della testata e dell’impostazione di copertina. L’adozionedel formato maggiore per la rivista nel 1952 è contrassegnato infatti dall’intervento della mano sicura ed assieme lieve di Marcello Nizzoli, presso il cui studio dal 1948 lavora G. Mario Oliveri, testimone e tutore (nonché, a tutt’oggi, attore progettuale primus inter pares) di siffatta straordinaria eredità, prettamente italiana, nel campo del disegno industriale e dell’architettura. Nel 1952, Nizzoli utilizza una fascia orizzontale pari al quarto superiore di copertina per organizzare, con sapienti asimmetrie e calcolate proporzioni di corpi, la tipo-grafica della testata, composta con un robusto carattere lineare quadrato, di ascendenza germanica tardo ottocentesca : nella prima riga, il nome in tondo nerissimo alti/bassi del periodico, ossia “Metron”; la seconda riga recita “ARCHITETTURA”, tutto in inclinato neretto alti; la fascia verticale sinistra accosta al dorso accoglie, in terza posizione dall’alto, il marchio dell’editore, sottolineato dalla dicitura esplicita “edizioni di Comunità”, sempre in inclinato neretto alti/bassi; al piede di questa fascia, il(i) numero(i) del fascicolo, in inclinato nerissimo. Nell’ampia area libera da questi elementi tipografici ricorrenti, Nizzoli sistema un’immagine fotografica emblematica (ma non troppo didascalica quanto piuttosto interpretativo-espressiva) del centro focale del numero, abilmente inquadrata, ritagliata e supportata da astratti interventi di figure, superfici e campiture cromatiche. Sul dorso, appoggiata poco sopra la posizione del numero(i) sul piatto di ocpertina, la dicitura “Metron architettura – n. [cifra(e)] – [mese] [anno]”, con verso di lettura dal basso in alto; interessante notare che, mentre il carattere di “Metron” è il solito bastoncino, il resto invece è composto con un carattere neoclassico nerissimo, un super-bodoniano di origini inglesi primo-ottocentesche.

La cosa necessaria

“Per Nizzoli progettare è sempre proporre un’immagine ‘artistica’ – sostiene a buon motivo Arturo Carlo Quintavalle, in una fondamentale monografia sull’artista di Boretto – e la sua grafica, se ve ne fosse bisogno, ne è la riprova migliore: si pensi non tanto ai manifesti quanto alle copertine di “L’architettura”, la rivista di Bruno Zevi […] Nizzoli intende, anche qui, andare oltre, perché sempre, al di là del riferimento cubista o postcubista, negli anni cinquanta appare in evidenza la volontà di calibrare al meglio gli intrecciati rapporti con l’astrazione e, quindi, con un gruppo di artisti che veniva faticosamente elaborando, a Milano, una strada diversa: Bruno Munari, Fausto Melotti, Lucio Fontana, ma anche altri che scavavano non solo nel mondo di Weimar e Dessau ma nelle civilissime, determinanti ricerche del costruttivismo […] Nel dopoguerra il problema di Nizzoli, e di molti altri sensibili progettisti con lui, è quello di collegare la cultura del nuovo con le tradizioni del passato, con la storia […] Il problema del rapporto con la storia finisce per ribaltare le antiche adesioni del progettista di Boretto all’architettura degli anni trenta, ben evidenti negli allestimeti in epoca fascista; a partire infatti dal dopoguerra, e progressivamente, Nizzoli, specie nel design e nella grafica […] propone una nuova serie di suggestioni che si collegano a notevoli invenzioni. Nizzoli insomma appare voler suggerire che la durata di un’immagine e, quindi, di un oggetto della memoria dipende dal sistema di riferimenti e allusioni che essa racchiude […] Il progettare di Nizzoli è nuovo infatti perché la sua invenzione appare mediata da una profonda consapevolezza interdisciplinare dei rapporti fra le differenti “arti”. Nizzoli è insieme grafico e designer, artista e architetto, arredatore e decoratore e molto altro, insomma Nizzoli ha conservato la visione globale della civiltà Jugend e Déco e se l’è portata dietro oltre gli specialismi della cultura del dopoguerra. Dunque la sua è “arte della memoria” in duplice senso, della memoria individuale delle culture sperimentate e della memoria collettiva, quella che si tramita negli oggetti comunque costruitii e vissuti e che ogni progettista deve saper riproporre per essere inteso, ma anche, possibilmente, e come ha fatto Nizzoli, per trasformare la realtà” .
“La componente pittorica – a detta di Benedetto Gravagnuolo – è l’autentica matrice latente che sottende l’intera opera nizzoliana: dalla cartellonistica pubblicitaria all’industrial design, dall’architettura all’urbanistica. Si tratta, del resto, di una scelta di metodo consapevole e teorizzata, prima ancora che istintiva, indotta da una naturale predisposizione all’inventiva visiva e dalla stessa formazione culturale di Nizzoli […] È importante notare che risale alla soglia degli anni venti la sua adesione entusiastica alle tesi agitate da Vincenzo Costantini [di cui cfr. L’arte applicata e la biennale di Monza, in “Arte pura e decorativa”, 1922, luglio] sulla necessità della ‘arte applicata’, vale a dire di un’arte volutamente finalizzata alla cultura industriale, capace di ri-disegnare l’oggetto banale, l’attrezzo d’uso quotidiano o – per dirla con le sue parole – ‘la cosa necessaria’. Da questo programma di estensione e di penetrazione capillare dell’esteticità nell’esistenza collettiva giornaliera, muoverà quella linea di pensiero che […] lo condurrà all’incontro decisivo con Adriano Olivetti, incontro che segnò l’avvio della vera e propria attività di designer. Già a partire dal 1938 – tramite la mediazione di quella singolare figura di ‘poeta ingegnere’ che fu Sinisgallli – Nizzoli inizia, infatti, la consulenza progettuale destinata alla ditta di Ivrea. [Con l’ampliamento degli uffici Olivetti (1948) e il complesso per dipendenti Olivetti (1948-52), ambedue a Ivrea, il lavoro di Nizzoli appare] sulla soglia di una controllata apertura verso le sollecitazoni formali della poetica organica di ispirazione wrightiana, poetica caldeggiata in quegli anni da quello straordinario opinion-maker che è stato Bruno Zevi. Non è casuale, del resto, che a partire dal maggio 1955 lo studio Nizzoli assuma l’incarico della grafica della rivista “L’architettura – cronache e storia”, diretta dallo stesso Zevi, redigendone sistematicamente il disegno di copertina, che diviene in qualche modo l’immagine riconoscibile, il vessillo di quell’organo di opinione”.

“L’architettura – cronache e storia”
In un panorama di periodici di settore nel frattempo arricchitosi, tra l’altro, dalla ripresa delle pubblicazioni di “Casabella” nel 1953 e dall’avvio nel 1954 di “Edilizia popolare”, nel 1955 (anno d’inizio anche de “La Casa” – e nel 1957 vedrà la luce “Zodiac”) “il passaggio da “Metron” a “L’architettura – cronache e storia” fu determinato – spiega Bruno Zevi in una sua godibilissima memoria – da Riccardo Musatti, che propose a Carlo Caracciolo di pubblicare la rivista. Sia Musatti che Caracciolo erano stati redattori del quotidiano “l’Italia libera”, organo del Partito d’Azione” . “‘E se cambiassimo formato? Potremmo addirittura adottare le dimensioni delle grandi riviste internazionali’, dissi timidamente a Max [Huber], – continua Bruno Zevi altrove – tanto per tastare il polso. ‘È un’ottima idea, cambiamo pure il formato’. Lo guardai sorpreso: ‘Ma l’impaginato del primo numero è tutto già fatto e i clichés sono stati eseguiti. Se ingrandiamo il formato, le fotografie appariranno troppo piccole, e tu ci farai una brutta figura’. ‘Non fa niente – rispose Max – se è utile per la rivista, cambiamo pure formato’. È un episodio che dimostra l’umanità di Max Huber. Stavamo preparando il primo numero della rivista “L’architettura – cronache e storia”, ed io avevo pensato di conservare il formato di “Metron”, la rivista che avevamo diretto per dieci anni, dal 1945 al ’54. Avevamo impaginato tutto il primo numero secondo il formato di “Metron” e solo pochi giorni prima di andare in stampa mi ero accorto che forse, per fare una grande rivista di architettura, era meglio ingrandirlo”. E così è stato; scorrendo la prima pagina (effettivamente ampia, giusto il formato di 24 x 32 cm ca.) del n. 1, anno I, maggio-giugno 1955, de “L’architettura – cronache e storia”, nel colonnino del colophon, a sinistra del ricco sommario, si legge, sotto un’immagine che riproduce la copertina in scala minima ma ancora leggibile, la didascalia “In copertina: Volte dell’atrio della Stazione di Napoli, secondo il progetto del Gruppo Castiglioni”; poco più in basso, i crediti di progettazione grafica, prima riga “copertina Marcello Nizzoli”, seconda riga “impaginazione Max Huber”.

Si dice che un buon inizio sia metà dell’opera; innegabile, per la nuova rivista di Bruno Zevi, un inizio “alla grande”, non solo per le opere presentate e per gli autori dei testi (da Giulio Carlo Argan a Giuseppe Samonà, da Ludovico Quaroni a Luigi Piccinato, da Mario Coppa a Giuseppe Mazzariol, per non citarli tutti) ma anche sul piano della qualità visiva e della mise-en-page. Due tra i maggiori “operatori visuali” del novecento in Italia, quali Max Huber e Marcello Nizzoli, collaborano infatti a farne, fin da principio, uno dei periodici più significativi, non solo per i contenuti ma anche (e olisticamente) per la qualità grafica e comunicativa. Da parte sua, Marcello Nizzoli agisce in perfetta e motivata continuità con il “buon disegno” di “Metron”, realizzando con le copertine della nuova rivista di Zevi “il lavoro di maggiore impegno e durata nel campo della grafica editoriale” . In effetti, la struttura di copertina e dorso della nuova rivista è una diretta mimesi di “Metron”, con minime variazioni; anche le scelte tipografiche (carattere, forze e composizione) sono le stesse di “Metron”, con gli opportuni adattamenti. La testata, in particolare, è sistemata in una sottile fascia (non di rado, esplicitata da una banda che manifesta un rapporto di inversione tra figura alfabetica e sfondo, ossia come campitura piatta bucata in trasparenza dalla titolazione), pari a circa 1/10 dell’altezza del piatto di copertina; in virtù della propria collocazione periferica ma non terminale, questa invenzione aggiunge un elemento dinamico-spaziale all’architettura di copertina. Ciò in cui maggiormente la nuova copertina differisce da(i pochi, ad ogni buon conto, fascicoli di) “Metron” è invece la soluzione adottata per l’imagerie, ad ogni effetto l’elemento forte di memorabilità e primario di qualificazione visuale, al di là della struttura testuale-tipografica (necessariamente ricorrente, se non altro ai fini di immediata riconoscibilità nei luogi di ostensione pubblica). Da una parte, per la palese concezione seriale (“continuità nella varietà”, si potrebbe parafrasare), metafora concreta del prodotto industriale, qual’è un artefatto grafico periodico di tale tiratura e ricorrenza temporale, nelle sue inderogabili esigenze di processo, e assieme mutuazione della prassi artistica dei “multipli”, come rivelano le affascinanti, incessanti prove di colore d’archivio, documenti preziosi che illuminano sulle peculiari modalità della fase sia di costruzione e fabbricazione dell’artefatto grafico, sia di scelta dell’esecutivo, a valle delle maquettes e a monte degli stamponi finali. Dall’altra, per il tono sperimentale delle soluzioni espressive e formali, perlopiù inclini a una sorta di astrazione lirica, a riscontro diretto della (rara) libertà e del (non comune) rispetto della vena ideativa riconosciute dal direttore al progettista grafico – come riprovano gli scambi epistolari, del resto. Affrancato da pedisseque imposizioni di illustrazione didascalica o di rappresentazione foto-realistica del sommario dei singoli fascicoli, Nizzoli può tenersi alla larga da approcci banalmente promozional-pubblicitari o prosaicamente titillanti gli appetiti di consumo, per meglio indugiare su moduli di persuasione e seduzione prettamente e schiettamente grafico-visuali. Gli schizzi e i bozzetti rimasti rivelano, infine, tanto un elevatissimo magistero di disegno (nella rigorosa capacità di concentrazione e sintesi), quanto un’intensa ricerca di minima materia per la definizione della forma, propria di un intero sobrio filone del disegno industriale contemporaneo: non si può non riconoscere, in breve, che “la forma unifica ed esprime tutti gli aspetti anche talvolta contrastanti che caratterizzano” il prodotto industriale, la rivista.

Il contributo al disegno delle copertine di 500 numeri de “L’architettura – cronache e storia” prima di Nizzoli–Oliveri (1955-65), poi di Nizzoli associati (1965-71), infine dello studio Nizzoli (1972-97) si è poi dipanato lungo l’arco di oltre quarant’anni, in una lunga e affatto straordinaria saga visuale che non ha molti equivalenti nella storia della grafica contemporanea (la prima cosa che viene in mente è il lavoro di Norman Rockwell, per cercare altrettanta assiduità, seppur su altri piani espressivi e in tutt’altri contesti produttivi). Un’analisi puntuale e comparata (anche con la coeva produzione d’altre riviste) dell’intero opus, nei suoi moti e oscillazioni, per quanto auspicabile (per le considerazioni specifiche a cui potrebbe portare, in termini di approfondimento d’indagine), esula giocoforza dai limiti di queste mie rapide note. Quale provvisoria conclusione a tal proposito, tuttavia, in sintonia con il collage che s’è azzardato per l’occasione, val la pena di riportare le parole di una testimone diretta e partecipe, Giusi Giuliani: “Lunga serie nel tempo, l’immagine della rivista è diventata anche una immagine inconsueta degli studi Nizzoli. Essa non è mai stata pensata come veste grafica comunemente intesa: in questo lavoro mensile sono stati coinvolti tutti i collaboratori interessati alle ricerche visuali, agli ‘assemblaggi’ cromatici, ai ‘segni’ simbolici. Sicché la copertina è diventata centro di scambi di idee, di critiche; una palestra di discussioni aperte ai temi attuali dell’arte moderna a cui essa si è spesso riferita”.

[500 architetture di copertina, nel catalogo di AA.VV., “L’architettura in copertina”, pp. 10-13, della mostra L’architettura in copertina, Fondazione Bruno Zevi, Roma, 22 maggio-30 giugno]
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