Schizzo di una teoria generale degli artefatti grafici
Industriosità e artefatti
È forse il caso di affermare, a mo’ di premessa (anche per evitare fastidiosi equivoci su fondamenti lessicali, cronologici e culturali), che l’insieme dei fenomeni di cui ci occuperemo reintra nel novero dell’industriosità cioè di una durevolissima attitudine specifica (= della specie umana): l’invenzione/replicazione di artefatti e, assieme, la produzione/conservazione di saperi – costituenti, assieme, le diverse culture terrestri. A buon diritto, ciò consente di definire con l’appellativo di industrie litiche le aree e le tecniche di produzione dei primigeni utensili preistorici, cioè del parco strumentale umano di base, che si forma 35/40 millenni fa; per non dire di altre, rilevantissime, industrie di ere antiche ma già storiche (= scrittorie, in sostanza). Sullo sfondo, il ciclo complesso dell’invenzione, fabbricazione, trasformazione e ripetizione incessante degli artefatti; “il flusso delle cose – suggerisce George Kubler – non conobbe mai un arresto totale: tutto ciò che esiste oggi è una replica o una variante di qualcosa che esisteva qualche tempo fa e così via, senza interruzione, sino ai primi albori della vita umana”. Questo flusso di “cose” scorre anche nel campo iconico-percettivo: un campo attraversato dalle tensioni continue tra visibile e leggibile, tra astrazione e figurazione, tra multipli fasci di polarità dinamiche, così come dalle variabili dell’intreccio tra metafunzioni e forme, tra informazione oggettivata e prestazione oggettuale. Che “il nostro concetto dell’arte – come reclama sempre G Kubler nell’avvio de
La forma del tempo – possa essere esteso a comprendere, oltre alla tante cose belle, poetiche e non utili di questo mondo, tutti in generale i manufatti umani, dagli arnesi di lavoro alle scritture”?.
Neografia, paleografia: tertium datur?
Neografia è, off course, neologismo recente, seo non ancora registrato nelle competenti sedi patrie, quali Annali del lessico italiano contemporaneo, Osservatorio dei neologismi dell’Accademia della Crusca, Osservatorio neologico della lingua italiana, Istituto per il lessico intellettuale europeo e la storia delle idee del Cnr, Ass.I.Term associazione italiana per la terminologia. Ad ogni buon conto, si ipotizza qui che l’ambito neografico comprenda gli studi di storia delle arti visuali occidentali (in virtù del loro esser culture alfabetiche), a partire dalla metà circa del quattrocento, in piena italica rinascenza umanesima. Più precisamente, le ricerche di neografia riguardano i sistemi artificiali (= fondati su artefatti, protetici e strumentali, espressivi e comunicativi di segni visivi codificati (= scritture e immagini), ossia le indagini contigue e conseguenti alla paleografia, intesa in senso estensivo (= storia delle arti visuali dell’antichità classica greco-romana e del medioevo). “La scrittura è fatta di lettere, e sia. Ma di cosa sono fatte le lettere? Si può cercare una risposta storica – sconosciuta per quanto concerne il nostro alfabeto – ma ci si può anche servire di questa domanda per spostare il problema dell’origine, per portare una concettualizzazione progressiva dell’entre-deux, del rapporto fluttuante, di cui noi stabiliamo l’ancoraggio sempre in maniera abusiva. In Oriente, civiltà ideografica, è ciò che sta fra la pittura e la scrittura che è tracciato, senza che si possa trasferire l’uno all’altro; ciò permette di eludere questa nostra legge scellerata di filiazione, Legge paterna, civile, mentale, scientifica: legge discriminante in virtù della quale collochiamo da una parte i grafici, dall’altra i pittori; da una parte i romanzieri e dall’altra i poeti. Ma la scrittura è una e il ‘discontinuo’ che la instaura dovunque fa di tutto ciò che scriviamo, dipingiamo, tracciamo, un unico testo” chiarisce problematicamente (comme toujours) Roland Barthes, in un breve saggio su Massin, intitolato L’esprit et la lettre. Stante ciò, nel campo di pertinenza della neografia può trovar atta collocazione anche la grafica seriale, finalizzata ed eteroespressiva, sia moderna (convenzionalmente, dalla seconda metà del sec. XV agli inizi del secolo XIX) che contemporanea (convenzionalmente, dal 1796, nelle sue successive diverse fasi).
Forse è il caso di chiarire e dichiarare che l’ipotesi qui tratteggiata fa riferimento, in termini generali, ai fenomeni attivi nel novero delle grafie, ossia della produzione variamente replicabile delle “scritture”, sia naturali (= manuali, ossia le chirografie) che artificiali (meccaniche, ossia le tipografie, in prima approssimazione), e delle “immagini” (statiche e dinamiche o, meglio, cinematiche), sia naturali (disegno e ogni altra tecnica prevalentemente manuale di raffigurazione, rappresentazione, restituzione, descrizione e/o immaginazione opto-visiva) che artificiali (foto-grafia, cinemato-grafia, video-grafia e simili, ivi incluse tutte le immagini di sintesi numerico-computazionale). Con queste premesse, ne consegue quanto prima suggerito ossia che la paleografia è ambito d’indagini relative a scritture e immagini naturali o, meglio, alle chirografie, nel mondo antico e medievale. “I nostri eruditi non hanno studiato a fondo che le scritture antiche: la scienza della scrittura – ha suggerito ancora Barthes, nel volume postumo
Variations sur l’écriture, con pungente finesse d’esprit, a proposito di iscrizioni verbali naturali – non ha mai ricevuto altro che un sol nome: paleografia, descrizione fine, minuziosa dei geroglifici, delle lettere greche e latine, abile mestiere degli archeologi nel decifrare antiche scritture sconosciute. Ma sulla nostra scrittura moderna, nulla: la paleografia si ferma al XVI secolo, e pur tuttavia come si fa a non immaginare che tutta una sociologia storica, un’immagine complessa dei rapporti che l’uomo classico intratteneva con il suo corpo, le sue leggi, le sue origini, potrebbe uscire da una siffatta neografia che ora non esiste?”.
Elemento caratterizzante ma non esclusivo della neografia è, dunque, l’artificio della replicazione rigida delle tipografie vs quella elastica delle chirografie; non esclusivo, perché le chirografie testuali sono tutt’oggi estremamente rilevanti, eppur poco rilevate, all’ombra vasta e oscurante della produzione meccanica, mentre quelle immaginali son fin troppo studiate. Per conto suo, la tipografia è, di fatto, una tachigrafia meccanizzata, risultante in un identico seriale (l’artefatto a stampa), con una accelerazione quantitativa, prima che qualitativa. Nei suoi prodromi, peraltro, la tipografia non è troppo lontana dalla contraffazione (in genere, fraudolenta inclinazione mercantil-bottegaja dell’arte sempiterna e cogentemente educativa della copia, ben si sape). Attitudine contraffacente non solo perché la tipografia moltiplica copie uguali, quanto (e soprattutto) finché tenta d’imitare in modo letteralmente conforme i manoscritti, suoi prototipi, replicabili anteriormente con tutt’altre economie di scala e rapidità d’esecuzione. Forma dura (con un’analogia in campo chirografico: le scritture epigrafiche, lapidarie, architettoniche, monumentali – quelle, insomma, destinate a durare) di iterazione grafico-testuale, la tipografia diviene rapidamente protagonista prima, se non egemone, della (ri)produzione e conservazione culturale: cambiando il mondo occidentale. Ciò grazie alla convergenza medio-quattrocentesca di saperi operativi diversi in un macchinismo complesso, la “bottega di Gutenberg”; al centro di questa officina si trova un individuo tecnico nuovo: il carattere, inciso nei punzoni, impresso nelle matrici e poi fuso, tramite stampi di specifica concezione, in parallelepipe di leghe di piombo – il “tipo” da stampa, vero urtype della cultura materiale.
Perciò, la neografia disamina ed affronta con attenzione la nebulosa in flagrante espansione della tipografia, con ottiche osservative diverse dagli slogan à la McLuhan & Co., facilmente fascinosi, specie nella vulgata. Si tratta di meglio focalizzare lo studio di una “scritturazione” che viene iterata tramite un parco ridotto di elementi, seriali e normalizzati, ossia per mezzo di una componentistica (uniforme e coordinata: i tipi), supportata da magazzini di scorte intercambiabili. La tipografia appare, in altri termini, quale prototipo emblematico d’ogni industria macchinale successiva, della stessa “rivoluzione industriale” sette- ottocentesca, come ha ribadito da tempo Renato De Fusco.
Si noti, per precisare vieppiù la natura dei fenomeni, che (a valle della transizione a paesaggi e ambienti neografici) la composizione dei tipi in parole, righe, colonne, pagine e volumi viene eseguita con una procedura prima manuale, poi meccanica e, più recentemente, computazionale. Quest’ultima mutazione coincide con il passaggio cruciale da analogico a digitale (in atto dalla prima metà del novecento ma in eccitata accelerazione dagli anni ottanta) e con l’ampliamento degli utenti finali, cioè dei destinatari leggenti/vedenti, non più solo animali senzienti ma anche corpi macchinali. Perciò si pone legittimamente la domanda se non sia il caso di adottare presto un ulteriore neologismo, sia per individuare la scrittura computerizzata e il computer graphic design stesso (on-screen null’altro che rappresentazione a base numerica binaria, on-paper frutto di traduzioni di traduzioni di traduzioni, ove gioca oggi un ruolo principe un linguaggio monopolistico di descrizione di pagina quale PostScript) sia per evidenziarne le peculiarità; tutto ciò, lo si potrebbe chiamare: digigrafia?
Grafica: angolata annotazione iterante
Enunciazione necessaria di un generale obiettivo critico, quale possibile filo conduttore, per ridurre i fatti e le svolte, le cose e gli eventi: il tentativo è di collocare l’attività che comunemente si definisce oggi con il termine “grafica” nel contesto che, da più parti, si suggerisce le competa e le sia proprio, tanto in termini storici che culturali, e cioè il disegno industriale.
Nella storia dell’ominazione ossia nel lunghissimo periodo del farsi uomo (sapiens quanto faber) di una individua specie di primati, il tracciamento di grafismi – prima astratti, ritmico-geometrici, respiratorio-affabulatorii, poi (raf)figurativi (in celeberrime rappresentazioni cavernicolo-rupestri e in numerosi artefatti mobiliari preistorici) – è attitudine specifica, per taluni studiosi precedente la verbalizzazione (se non il linguaggio vero e proprio), che data almeno alcune decine di migliaia di anni ante Cristo. Il diffondersi della presenza dell’uomo sulla terra è marcato visibilmente, alla lettera, dalla scrittura di segni intenzionali, dalle grafie pre- e proto-storiche (di cui in sostanza non s’è ancora saputo discriminare appieno le ragioni, se non per ipotesi), fino alle più composite declinazioni della contemporaneità.
Pare si possa ritenere comprovato che l’antropizzazione, in buona misura, sia consistita (e ancor consista) nell’artificializzazione del mondo, nella concezione, messa a punto, costruzione e specializzazione progressiva di famiglie di artefatti: fabbricazioni o, meglio, fatture di oggetti, assieme in variabili gradi protetico-utilitari quanto comunicativo-simbolici.
Nell’ambito qui d’interesse, un’indagine storica (delle arti visive, in senso proprio) che non intenda esser miope nei riguardi dei propri fondamenti è perciò esposta al confronto con un parco di artefatti che si offre estremamente variegato e variabile, per intenzioni autoriali e morfologie espressive, significati sociali e forme tecniche, modi di produzione e caratteri di ricezione.
In quest’alveo amplissimo si può riconoscere nell’immaginale concreto, nell’imagerie humaine, nell’universo dell’immagine (termine il cui etimo rimanda, non a caso, al significato di “doppio”) un progressivo distanziarsi – senza mai completamente distaccarsi – dello scrivere e del (di)pingere, attività che il tema verbale greco grafo ancora racchiudeva in uno.
Date per acquisite (ma non scontate) queste premesse, qualsiasi analisi storica nell’ambito della grafica può e deve scegliere i propri peculiari itinerari di attraversamento disciplinare, individuando i nodi più significativi. Disciplina squisitamente definita, quanto a teorie e prassi, la grafica, reclamante addestramenti, inclinazioni, strumenti che son esito di applicazione, conoscenze e studi tutt’altro che improvvisabili e genericamente disponibili. Al contrario della confusa nozione estetica (disciplina oggi spesso attratta dall’estetistica) e della banale idea di “cosmetica degli artefatti”, sottoposta ai trends delle fashions, che la nostra epoca sembra averne diffusamente, sin negli empirei universitari.
sketch of a general theory of graphic artifacts
Industriousness and artifacts
It is best, I think, as a preamble (and to avoid bothersome misunderstandings about our lexical, chronological and cultural premises), to state that the ensemble of phenomena we shall be concerned with falls within the circle of industriousness, i.e., of a specific aptitude (= of the human species) of extremely long standing: namely, the invention/replication of artifacts and, together, the production/preservation of knowledge - constituting, together, the different cultures of the Earth. Quite rightly, this allows us to define as "lithic industries" the production techniques and areas of prehistoric primigenial utensils, i.e., of the basic stock of human tools, which took shape 35/40 millennia ago; to say nothing of other, extremely important, industries of ancient but already historical eras (of eras, i.e., with writing).
We see all this against the backdrop of the complex cycle of the invention, fabrication, transformation and incessant repetition of artifacts. "The stream of things" - George Kubler suggests - "never was completely stilled. Everything made now is either a replica or a variant of something made a long time ago and so on back without break to the first morning of human time." This stream of "things" flows also in the iconic-perceptive field: a field crossed by the continual tensions between visible and legible, abstraction and figuration, between multiple bands of dynamic polarities, as by the variables of the intersection of metafunctions and shapes, objectified information and objectual performance. That "the idea of art" - as Kubler claims in the first chapter of his
The Shape of Time - "can be expanded to embrace the whole range of man-made things, including all tools and writing in addition to the useless, beautiful, and poetic things of the world."?
Neography, paleography: tertium datur?
"Neografia" - neography - is, of course, a recent neologism, E. & O.E. not yet recorded in the national annals proper to it, such as, in our Italian case, Annali del lessico italiano contemporaneo, Osservatorio dei neologismi dell’Accademia della Crusca, Osservatorio neologico della lingua italiana, Istituto per il lessico intellettuale europeo e la storia delle idee del CNR, Ass.I.Term associazione italiana per la terminologia. In any event, we venture to say that the neographical sphere comprises the studies of the history of Western visual arts (in virtue of their being alphabetical cultures), beginning, approximately, from the mid-1400s, in the glory days of Italic humanistic rebirth. More precisely, neographical research regards the artificial (= founded on prosthetic and utilitarian artifacts), expressive and communicative systems of codified visual signs (= writings and images), i.e., investigations contiguous to and consequent upon paleography, taken in the extended sense (= history of the visual arts of classical Greco-Roman antiquity and of the Middle Ages). "Writing is made up of letters, and so be it. But what are letters made up of? We can attempt to give a historical answer - unknown as far as our alphabet is concerned - but we can also make use of this question to shift the original problem, to bring about a progressive conceptualization of the entre-deux, of the fluctuating relationship, whose anchorage we always establish abusively. In the Orient, as an ideographical civilization, it is what lies between painting and writing that is traced, without the one being transferred to the other; which makes it possible to avoid this infamous law of filiation of ours - a Law that is paternal, civil, mental, scientific: a discriminating law in virtue of which we place graphic artists on one side, and painters on the other; on one side novelists, and poets on the other. But writing is one [unity] and the "discontinuity" that institutes it everywhere makes everything we write, paint, trace, into one single text." Thus states Roland Barthes, clarifying problematically (comme toujours), in a short essay on Massin, titled
L’esprit et la lettre. The field of pertinence of neography - alors - can aptly comprise also serial graphics, finalized and heteroexpressive, both modern (conventionally, from the second half of the 15th to the early 19th century) and contemporary (conventionally, from 1796, in its various subsequent phases).
It might be a good idea, at this point, to make clear and to declare that the hypothesis traced here makes reference, in general terms, to phenomena active in the circle of what we shall call graphies, i.e., of the variously replicable production of "writings," both natural (= manual, i.e., chirographies) and artificial (= mechanical, i.e., typographies, of various sorts) and of "images" (static and dynamic or, better still, cinematic), both natural (drawing and any other prevalently manual technique of depiction, representation, restitution, description and/or opto-visual imagination) and artificial (photo-graphy, cinemato-graphy, video-graphy and the like, including all the images produced by numerico-computational synthesis). From these premises there follow the conclusions we suggested earlier, namely, that paleography is the sphere of investigation relative to natural writings and images or, more precisely, to chirographies, in the ancient and medieval world. "Our learned scholars have studied in depth nothing but ancient writings: the science of writing" - Barthes also suggested, in the posthumous volume Variations sur l'écriture, with pungent finesse d'esprit, apropos of natural verbal inscriptions - "has been given but a single name: paleography, fine and meticulous description of hieroglyphics, of Greek and Latin letters, the skilled occupation of archaeologists in deciphering unknown ancient scripts. But on our own modern writing - zero: paleography goes no further than the 16th century, yet how can one fail to imagine that an entire historical sociology, a complex image of the relationships between classical man and his body, laws, origins, might well emerge from a neography that presently does not exist?"
The distinguishing if not exclusive element of neography is, then, the artifice of the rigid replication of typographies versus the elastic replication of chirographies; not exclusive, because textual chirographies are still extremely remarkable, albeit little remarked, in the vast and darkening shadow of mechanical production, while imaginal chirographies are studied all too much. For its part, typography is, in fact, a mechanized tachygraphy, resulting in a serial identical (the printed artifact), with an acceleration more quantitative than qualitative. In its warning signs, moreover, typography is not too far from counterfeiting (in general, the fraudulent merchant-shopkeeper inclination of the sempiternal and cogently instructive art of the copy, as we well know): counterfeiting, not only because typography multiplies equal copies, but (especially) as long as it attempts to produce literal imitations of manuscripts, its prototypes, which previously had been replicable with altogether different economies of scale and swiftness of execution. A hard form (with an analogy in the chirographical field: epigraphical, lapidary, architectural and monumental writings - writings, in short, that are made to last) of graphico-textual iteration, typography rapidly becomes the prime, if not hegemonic, protagonist of cultural (re)production and preservation: changing the Western world. This was thanks to the mid-15th-century convergence of diverse operative know-hows in a complex mechanization, namely, "Gutenberg's shop"; in the center of this workshop we find a new technical individual: the character, cut into the punch, imprinted in the mold and then fused, through dies of specific conception, into parallelepipeds of lead alloy - the printing "type," the true urtype of material culture. Hence, neography scrutinizes and carefully confronts the nebulous in fragrant delict expansion of typography, with perspectives pretty different from McLuhan & Co. slogans, facilely fascinating, especially in the vulgate. It's a matter of bringing better into focus the study of a "scripting" that is iterated through a reduced stock of serialized and normalized elements, i.e., by means of a (uniform and coordinated) ensemble of components (the types), sustained by interchangeable stores in reserve. Typography appears, in other terms, as the emblematic prototype of any subsequent mechanized industry - of the 18th-19th century "industrial revolution" itself, as Renato De Fusco has been insisting for quite some time.
Please note, to bring the nature of the phenomena all the more into focus, that (downstream from the transition to neographical landscapes and environments) the setting of type in words, lines, columns, pages and volumes is performed with a procedure first manual, then mechanical and, more recently, computational. This most recent mutation coincides with the crucial transition from analogue to digital (ongoing since the first half of the 20th century but in excited acceleration since the 1980s) and with the broadening of the ultimate users, i.e., of the reading/seeing recipients, no longer just sentient beings but also mechanized bodies. We thus pose the legitimate question of whether we might very soon need a new neologism, both to individuate computerized writing and computer graphic design itself (on screen, nothing other than binary-based representation; on paper, the fruit of translations of translations of translations, where today a prime role is played by a monopolistic language of page-description such as PostScript) and to bring out its peculiarities. And all this - might we call it "digigraphy"?
Graphics: angled iterating annotation
A necessary declaration of a general critical objective, as a possible guiding thread, to reduce the facts and turning-points, the things and events: the attempt is to place the activity that is today commonly defined with the term "graphics" in the context that many suggest is its due and proper province, both historically and culturally speaking - namely, the ambit of industrial design.
In the history of the origin of humankind, i.e., in the very long period of the becoming Homo (Sapiens and Faber) of an individual species of primate, the tracing of graphisms - at first abstract, geometrico-rhythmical, fabular-respiratory, then figurative and (de)pictive (in celebrated rupestrian-cavernicolous portrayals and in numerous prehistoric utilitarian artifacts) - is a specific aptitude, which for some scholars precedes verbalization (if not true and proper language), dating from at least some tens of thousands of years before Christ. The diffusion of the presence of man on earth is visibly marked - ad litteram - by the writing of intentional signs, by pre- and protohistoric graphies (whose raison d'être has not yet been fully trouvée, except hypothetically), right down to the most composite declensions of contemporaneity.
It is a more or less proven fact that anthropization, to a great extent, has consisted (to this day) in the artificialization of the world, in the conception, perfection, construction and progressive specialization of families of artifacts: fabrications or, better still, factures of objects, together in variable prosthetico-utilitarian and symbolico-communicative degrees.
In our field of interest, a historical investigation (of the visual arts, in the proper sense) that does not intend to be myopic with regard to its own foundations is thus exposed to confrontation with a stock of artifacts that is extremely variegated and variable, due to authorial intentions and expressive morphologies, social meanings and technical shapes, modes of production and characters of reception.
In this huge womb we can still make out in the concretely imaginal, in the imagerie humaine, in the universe of the image (a term whose etymon refers, not fortuitously, to the meaning of "double") a progressive distancing - but never a complete detachment - of writing and (de)picting, activity that the Greek verbal stem grapho still enclosed in one.
With these premises now granted (but not taken for granted), any and all historical analysis in the sphere of graphics can and must choose its own peculiar (cross)disciplinary itineraries, individuating the most significant junctions. Exquisitely defined as to theory and practice, graphics is a disciple that demands training, inclination and instruments that can result only from application, knowledge and studies that are by no means improvisatory or generically available. This, indeed, runs counter to the confused notion of aesthetics (a discipline today often attracted by aestheticism) and to the banal idea of a "cosmetics of artifacts," in thrall to the trends of fashion - notions and ideas that are spreading in our epoch, even to the empyrean of the university.
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Iterabili grafie - Iterable Graphies, in “Sugo” (Venezia), 0, giugno, pp. 26-27]