[2001#04] bauhaus
Almeno in questo, il mito è all’altezza dei fatti: nel campo della grafica, il Bauhaus rappresenta uno degli apici delle ricerche svolte nel primo novecento, destinato a influenzare durevolmente gli svolgimenti successivi. “Nel Bauhaus di Weimar – spiega Herbert Bayer nel 1928, in Tipografia e grafica pubblicitaria – una stamperia d’arte serviva alla riproduzione di opere grafiche […] Quando si sono allestite le officine nel nuovo edificio del Bauhaus a Dessau […] è stata installata, come officina didattica, una piccola tipografia. Nel disbrigo delle commesse, si è fatta pratica di composizione a mano, impaginazione e stampa. Niente estetismi alla moda, nel senso di ‘grafica di consumo’, ma un lavoro ispirato alla conoscenza delle finalità e del migliore utilizzo del materiale tipografico, fino ad allora imbrigliato in un’antiquata tradizione“. In effetti, l’insegnamento e la produzione della prima era del Bauhaus, l’istituto fondato a Weimar da Walter Gropius nel 1919 (con l’intenzione mai sopita di farne, in primis, una scuola di architettura), si limita alla realizzazione di stampe d’arte (affidate alla maestria di Carl Zaubitzer, sotto la direzione di Lyonel Feininger). Gli artefatti grafici che ci interessano (qualche poster, cartoline e poco d’altro, alla resa dei conti) sono caratterizzati perlopiù da una impronta calligrafico–primitivista, legata al gusto del maestro del Vorkurs, il corso preliminare, Johannes Itten. Bisogna attendere la prima importante mostra del Bauhaus, nel 1923, per cogliere il rinnovarsi delle posizioni (tra l’altro, anche per mano di Oskar Schlemmer, a partire già dal marchio del 1922), sostenute con vigore da un nuovo maestro, l’ungherese Laszlo Moholy–Nagy. Esponente di punta delle avanguardie artistiche europee, Moholy–Nagy è chiamato a insegnare (gli viene affidata l’officina dei metalli) nell’aprile del 1923 e si fa sùbito propugnatore di un radicale passaggio “dalla tavolozza alla macchina”. Non a caso, nel 1923 scrive: “la tipografia è uno strumento di comunicazione. dev’essere comunicazione chiara nella forma più efficace. la chiarezza dev’essere particolarmente enfatizzata, giacché questa è l’essenza della nostra scrittura, in confronto alla comunicazione pittorica del passato […] dunque, in primo luogo: chiarezza assoluta in ogni lavoro tipografico. la leggibilità della comunicazione, cioè, non deve mai subire i paradigmi di un’estetica a–priori. i caratteri non devono mai essere forzati entro forme predeterminate”. “Una costruzione tipografica è moderna – continua nel 1926, due anni prima di trasferirsi a Berlino, lasciando il Bauhaus – se trae i mezzi di cui si serve dalle proprie interne leggi […] L’elemento che caratterizza la tecnica dei nostri attuali lavori e che è normativo per il suo sviluppo è lo sfruttamento delle possibilità offerte dalle macchine. I nostri moderni prodotti tipografici […] dovranno avere le caratteristiche della chiarezza, della concisione, della precisione”. A lui si deve, quindi, il maturare di interessi specifici per la tipografia e l’attrezzarsi (mentalmente e operativamente) del Bauhaus verso questo settore, secondo un indirizzo premonitore, che mira al passaggio da una grafica statica a una forma di dinamica ibridazione tra testo e immagine, a una sinossi visuale, mutuata dalla sua sperimentale passione per la fotografia e il cinema. “La forma, la rappresentazione – spiega Moholy–Nagy in Malerei Photographie Film, il suo primo libro, nel 1925 – si fonda su relazioni ottiche e associative: verso una continuità visuale, associativa, concettuale, sintetica: verso la tipofoto quale rappresentazione non ambigua, tramite una forma otticamente valida […] Che cos’è la tipofoto? Tipografia è comunicazione composta con i tipi. Fotografia è rappresentazione visiva di quanto può essere ripreso otticamente. Tipofoto è rappresentazione della comunicazione nel modo visualmente più preciso”. Sul piano della produzione grafica, il suo contributo più importante è la concezione innovativa della collana dei Bauhausbücher: Moholy–Nagy cura personalmente 12 dei 14 “libri del Bauhaus” usciti dal 1925 (i primi 8 erano già pronti nel 1924) al 1931, riservandosi anche il disegno di alcune copertine. Assieme a lui, altri maestri – quali Josef Albers, che succede a Moholy–Nagy nel corso preliminare, Herbert Bayer, Joost Schmidt – approfondiscono e modulano l’idea di una “nuova tipografia”, sia sul versante del disegno delle lettere (mirante al “monoalfabeto” preconizzato da Portsmann, come nel caso dell’Universal di Bayer del 1926), sia su quello della comunicazione grafica tramite artefatti a stampa, in una serie di strordinarie sperimentazioni. Formatosi dapprima a Linz e a Darmstadt, dal 1921 Bayer completa i suoi studi al Bauhaus, per essere richiamato nella nuova sede di Dessau come maestro (dopo un viaggio in Italia nel 1923–24) responsabile dell’officina di tipografia dal 1925 al 1928, anno in cui – lasciato il Bauhaus – si trasferisce a Berlino, ove (tra l’altro) dirige l’agenzia Dorland, prima di emigrare definitivamente negli Usa nel 1938, alle soglie della guerra. Diplomatosi in pittura all’istituto superiore di belle arti di Weimar nel 1914, dopo la partecipazione alla grande guerra, Joost Schmidt studia invece scultura al Bauhaus, tant’è che nel 1925 gli viene affidata la direzione di quell’officina. In seguito alla partenza di Bayer, gli succede nella direzione dell’officina di tipografia (1928–32), fino alla chiusura della scuola a Dessau, segnalandosi anche per le esperienze nel campo dell’allestimento espositivo (ove si era ben misurato anche il suo predecessore). I principi compositivi della tipografia del Bauhaus, inizialmente mutuati dal neoplasticismo di Van Doesburg e dal costruttivismo russo, si erano andati rafforzando nel tempo e attraverso la prassi, con considerazioni tayloriste ed economiche, di massima efficienza ed economia di mezzi. Nonostante gli sforzi dei maestri, a ciò corrispose però la diffusione dell’idea di uno “stile” Bauhaus: “il risultato fu la rapida adozione – riassume amaramente Bayer, nel testo citato in apertura – di banali apparenze esterne […] quel che restò fu l’abuso di grossi punti, di barre spesse, di fregi e imitazioni della natura con i materiali tipografici ma, in tal modo, ci si trovava di nuovo al punto di partenza”.
[Bauhaus: tipi, tipografia, tipofoto, in abecedario la grafica del novecento, Electa, Milano 2002, apparato iconografico a cura di Pierpaolo Vetta]