18.8.04

[2000#08] segnalazioni

Jochem Hendricks, Newspaper
Difficile definire a quale categoria editoriale, se non alla sperimentazione artistica, appartenga Newspaper, la recente pubblicazione di Jochem Hendricks, non nuovo a saggi di tal fatta, com’era stato per Augenzeichnungen Eye Drawings, Vexer Verlag, St. Gallen 1993. I movimenti oculari durante la lettura di un quotidiano, pagina per pagina, sono registrati con speciale attrezzatura; i tracciati di tali moti sono digitalizzati e poi stampati, quali percorsi fisici, come segni diagrammatici. Da ciò, emerge un processo invisibile, quello del leggere, la segreta e imprevedibile danza della scansione dell’informazione. Newspaper è l’affascinante testimonianza visiva di tale processo, applicata a un’intera edizione del «Frankfurter Allgemeine», stampata nello stesso formato e con la stessa rotativa. Chi volesse Newspaper, come Augenzeichnungen, deve rivolgersi all’email indicata.


Peter Bain e Paul Shaw (a cura di), Blackletter: Type and National Identity
Princeton Architectural Press, Princeton 1998, e American Printing History Association, New York 1999
Due monografie, coordinate e complementari, dallo stesso identico titolo, Blackletter: Type and National Identity, ambedue curate da Peter Bain e Paul Shaw, la prima edita nel 1998, l’altra nel 1999, accompagnano una fortunata mostra itinerante sulla storia delle lettere “gotiche” e degli omonimi caratteri a stampa. Da un’intrecciata lettura, apprendiamo della complessa evoluzione di tale tipo, dal trecento ai giorni nostri (attraverso i fondamentali passaggi del Textura, Rotunda, Schwabacher, Fraktur), e delle sue implicazioni nazional-socio-culturali -il nazismo prima impose la lettera gotica, poi la proibì. La prima monografia ha carattere saggistico, con i contributi di esperti quali P.Th. Bertheau, P. Luidl, C. Burke, H.P. Willberg e Y. Schwemer-Scheddin; la seconda, con sobria copertina bianca, è un vero e proprio catalogo documentario della mostra, riccamente illustrato.


impressions
cd-rom Win/Mac, francese/inglese, Musée de l’Imprimerie, 13 rue de la Poulaillerie, 69002 Lyon (Francia), fax 0033 4 78382595
Edito dal museo della stampa di Lione, con la produzione esecutiva di Gabrielle Perrier, direttrice del museo, e di una fitta schiera di collaboratori di varie competenze, questo cd-rom multipiattaforma e bilingue offre una efficace e puntuale sintesi dell’arte della stampa, dalle origini sino ad oggi, con qualche punta di gallico sciovinismo. L’interfaccia sobriamente gradevole rinuncia ai facili “effetti speciali” di tanti multimedia, per restituire uno strutturato ipertesto didattico sui compositi aspetti della materia. La vicenda è organizzata in quattro sequenze cronologiche: i primi secoli, la rivoluzione industriale, la diffusione di massa e la rivoluzione digitale (ove si giunge fino al computer-to-plate e al print-on-demand); per ciascuna d’esse vengono esaminate le tecniche, l’estetica (della pagina e delle lettere) e i prodotti caratterizzanti.


Franc Nunoo-Quarcoo, Bruno Monguzzi A Designer’s Perspective
Fine Arts Gallery, University of Maryland, Baltimore 1998
Bruno Monguzzi rientra a pieno titolo nella schiera dei protagonisti delle arti grafiche d’oggi; non a caso, peraltro, da originale allievo di un geniale protagonista della cultura visuale italiana: Antonio Boggeri. Nella serie Issues in Cultural Theory, Franc Nunoo-Quarcoo ha pubblicato un bel volume, di piacevole ed istruttiva lettura, di raffinatissima mise-en-page -autentica rara avis di qualità editoriale globale, in occasione di una mostra sul noto designer (italiano? svizzero?); qualche tempo fa, ricordando serenamente il debito ideale con Boggeri, Monguzzi confessava, infatti, a proposito della propria identità culturale: «che da allora sono andato cercando nel mio lavoro. Identità, forse connaturale e connaturata a questo piccolo triangolo di terra elvetica insinuata in terra lombarda, dove la gente è troppo italiana per essere svizzera, ma troppo svizzera per essere italiana».


James Mosley, The Nymph and the Grot. The Revival of The Sanserif Letter
Friends of the St Bride Printing Library, London 1999
Una vera autorità internazionale, quale James Mosley (docente al celebre dipartimento di tipografia dell’università di Reading, nonché bibliotecario della St Bride Printing Library), disamina un’ennesima oscillazione (moderna) nel disegno delle lettere “lineari”. Trattando del revival dei caratteri “senza grazie”, Mosley questa volta conduce il lettore a osservare tanto i cartigli dei disegni di George Dance jr e di John Soane, quanto le opere di Thomas Banks e di John Flaxman, per arrivare al primissimo dei tipi a stampa sanserif, il Two Lines English Egyptian di William Caslon IV (1819 circa). Edito in occasione della mostra omonima presso il Sir John Soane’s Museum a Londra, che copriva un arco espositivo più ampio, giungendo necessariamente al notissimo tipo britannico di Eric R. Gill, l’elegante volume si raccomanda, in primis, a tipofili e cultori del neoclassicismo.


Mario Piazza (a cura di), Segno Alfabeto Scritture Linguaggi
Aiap-Adi-Smau, Milano 1998
Promossa -in occasione di uno Smau- dalle associazioni che in Italia rappresentano il disegno industriale e la grafica, cioè Adi e Aiap (quest’ultima, in una nuova fase attiva di promozione -con la recente esposizione nella propria galleria del lavoro di Germano Facetti, ad esempio, e varie pubblicazioni), la mostra Segno Alfabeto Scritture Linguaggi ha poi lasciato una utile testimonianza a stampa dell’iniziativa in un omonimo fascicolo, sorta di spartano catalogo in bianco/nero. Vi sono raccolte le riproduzioni di poster commissionati ad hoc, sul tema della grafica come scrittura (mentale e segnica), di una settantina di progettisti visuali italiani, che vanno da G. Baule a G. Camuffo, da AG Fronzoni a G. Iliprandi, da I. Lupi a F. Messina, da B. Noorda a M. Piazza, da A. Rauch a L. Sonnoli, da Tapiro a H. Waibl -utile ricognizione del panorama nazionale, con rare assenze.

[segnalazioni pubblicate nel 2000 in “Casabella” (Milano)]

17.8.04

[2000#07] aleksandr rodcenko


Nato nel 1891 a San Pietroburgo e scomparso a Mosca nel 1956, Aleksandr Michajlovic Rodcenko riveste una eminente posizione in quell’eletta schiera di poliedrici operatori artistici che nell’Urss hanno manifestato straordinarie capacità inventive nel corso degli anni venti e dei primi anni trenta del novecento, all’egida del costruttivismo e delle sue significative varianti, nel «sogno di una lunga prospettiva contestataria» -come suggeriva Alberto Asor Rosa tempo fa. Attivo senza soluzione di continuità nei campi della pittura, della fotografia, del cinema, del teatro, del disegno di oggetti utilitari, di abiti e di artefatti comunicativi (ragion specifica per cui ce ne occupiamo qui, in una sorta di seguito della puntata su El Lisickij), in quel periodo Rodcenko si misura con gli esiti immediati e le contraddizioni palesi della rivoluzione russa, in un clima esaltato di tensione verso la concreta traduzione nella società civile di portati “produttivisti” anti-borghesi, prima di un malinconico tramonto che si prolungherà fin nel dopoguerra. Alle soglie degli anni venti, le sue incursioni nel settore delle arti applicate sono occasionali ma, al contempo, già marcate da un preciso e riconoscibile gusto visivo. Nell’introduzione al catalogo della mostra 5x5=25, tenutasi a Mosca nel 1921, Rodcenko proclama con Aleksandr Vesnin, Aleksandra Ekster, Ljubov’ Popova e Varvara Stepanova, che: «L’arte è finita! Non ha posto nell’apparato umano del lavoro. Lavoro, tecnologia, organizzazione!». Nel 1921-22, si misura con le prime commissioni in campo teatrale, cinematografico e grafico; a partire dal 1923, l’attività di comunicazione visiva rappresenta per lui un ambito sostanziale di ricerca e di espressione, con la realizzazione di originali artefatti pubblicitari, ideati in organica collaborazione con Majakovskij per i testi, in un’aspra lotta contro le resistenze e le incomprensioni di una cultura comunque retriva, sorda e dura a morire. «Fui il solo che si dedicò alla pubblicità -scrive infatti Rodcenko nelle sue memorie, a proposito del periodo-. I testi dovevano crearmi un’infinità di problemi. Erano prolissi, noiosi, privi d’interesse. Correggevo io stesso le scritte ma non era facile convincere i clienti ad accettare tagli ed abbreviazioni. Una volta, per esempio, mi toccò lavorare su questo testo: “chi non possiede azioni Dobrolët [associazione volontaria per l’aiuto allo sviluppo dell’aviazione] non è cittadino dell’Unione sovietica”. Non si trattava né di poesia né di uno slogan. Il testo cadde sotto gli occhi di Volodja, che scoppiò a ridere e si mise a fare del sarcasmo. Mi arrabbiai e lo rimproverai, dicendogli che, se i buoni poeti non sapevano che ridere della cattiva pubblicità, non vi sarebbe stata mai una buona pubblicità. Ci pensò su e finì per darmi ragione. Cominciò così la nostra collaborazione». «Nell’anno e più che ho lavorato per il Dobrolët -racconta ancora Rodcenko, nel Taccuino del numero 6 del 1927 del “nuovo Lef”, rivista di cui cura tutta la grafica, a cominciare dalle copertine, sin dal 1923- ho fatto manifesti e altre cosette. Lì sì che si lavora sodo, non c’è tempo per l’arte: il loro è un lavoro nuovo, interessante. I miei manifesti li apprezzano. Si sono abituati ad avermi intorno, magari non ricordano come mi chiamo ma di vista mi conoscono tutti. Con loro non parlo d’arte, non faccio propaganda, lavoro e basta. Tutto procede per il meglio. Si inaugura l’Esposizione panrussa. Il Dobrolët ha organizzato dei voli propagandistico-pubblicitari di una ventina di minuti. L’ing. Lazarevic mi ha fatto chiamare. Un intellettualoide con il pince-nez e una giacca con i bottoni d’oro, che mi fa: “Compagno pittore, mi faccia un manifesto futurista sui voli”. Io sono rimasto sinceramente stupito. E lui ha continuato: “Come dirle, qualcosa di stravagante ma non troppo, però”. Io non riuscivo a capire e gli domandai cosa pensasse dei miei manifesti. E gli indicai quelli appesi al muro. E lui: “Sono realistici, i suoi”. Allora ho capito e gli ho detto: “No compagno, i manifesti futuristi non so proprio farli”. E l’ordine à la futuriste venne passato a un pittore di destra. Più tardi il compagno Lazarevic scoprì l’arcano o, meglio, glielo spiegò una segretaria. Mi son fatto un nemico…». E, a proposito del suo diretto collaboratore, Rodcenko continua nelle sue memorie: «Divenimmo insomma “Majakovskij-Rodcenko costruttori pubblicitari”. Lavoravamo con entusiasmo. Era la prima vera pubblicità sovietica, una pubblicità che si ribellava alla banalità dei testi, ai fiorellini e alle altre manifestazioni di gusto piccolo-borghese tanto in voga nel periodo della Nep». I “costruttori pubblicitari” realizzano nell’arco di pochi anni, con contrasti aggressivi di colori piatti e una tipografia cubitale, una cinquantina di memorabili manifesti e un centinaio di insegne, incarti e pubblicità sulla stampa, ciclostilati e da proiettare, lavorando -tra l’altro- per il Gum (grandi magazzini statali di Mosca) e il Mospoligraf (poligrafico moscovita), il Mossel’prom (associazione moscovita per la lavorazione della produzione agricola) e il Rezinotrest (trust statale per l’industria della gomma), le case editrici Molodaja Gvardija, Gosizdat, Transpecat’, Krasnaja Nov’ e i sindacati. «In seguito, il lavoro venne interrotto -concludono mestamente le memorie di Rodcenko- […] I membri del Rapp [associazione russa degli scrittori proletari] e del Mapp [associazione degli scrittori proletari di Mosca] fecero naturalmente quanto era in loro potere per danneggiarci, ricorsero ad ogni mezzo possibile e immaginabile per screditare e far cessare la nostra attività. E finirono per aver partita vinta. Naturalmente, avevano ottimi motivi per essere preoccupati: tutta Mosca, tutti i punti di vendita del Mossel’prom, tutti i giornali e le riviste erano inondati dalle nostre réclames […] La pubblicità ripiombò a poco a poco nel solco battuto delle testoline e dei fiorellini».

[Costruttori pubblicitari, in “Casabella” (Milano), 682, ottobre, p. 92]

16.8.04

[2000#06] el lisickij

«Ogni invenzione nel campo dell’arte è unica, non ha sviluppo -scriveva El Lisickij nel Gutenberg-Jahrbuch del 1926-27 a proposito dell’arte libraria, in un saggio intitolato Il nuovo libro-. Intorno all’invenzione, con il tempo evolvono diverse variazioni sullo stesso tema, talvolta più acute, talvolta più piatte, ma raramente viene raggiunta la forza primitiva. Così si procede, finché l’azione dell’opera d’arte, per il lungo uso, diventa automatica e meccanica: è maturo il tempo per una nuova invenzione […] Gutenberg, inventore del sistema a caratteri mobili, ha stampato con questi mezzi alcuni volumi che rappresentano dei veri capolavori dell’arte libraria. Quindi sono venuti alcuni secoli senza invenzioni fondamentali (fino alla fotografia) nel nostro campo […] È da miopi pensare che solo la macchina, cioè la sostituzione dei processi manuali con processi meccanici, sia importante nel mutamento di apparenza e forma delle cose. In primo luogo, il mutamento è determinato dal pubblico con le sue esigenze […] Oggi non si tratta più di una cerchia ristretta ma di “tutti”, della massa. L’idea che oggi muove la massa si chiama materialismo ma ciò che caratterizza l’epoca è la dematerializzazione […] Il materiale si riduce, noi dematerializziamo, sostituiamo inerti masse di materiale con energie in tensione. Questo è il segno della nostra epoca […] Finché il libro sarà necessariamente un oggetto palpabile […] dovremo aspettarci giorno per giorno nuove, fondamentali invenzioni nella sua produzione, per raggiungere anche qui il livello della nostra epoca. Ci sono segni che questa invenzione fondamentale sia da attendere nel settore della fototipia. Si tratta di una macchina che porta la composizione tipografica su una pellicola e di una macchina da stampa che riproduce il negativo della composizione su carta sensibile. Così spariscono l’enorme peso del materiale da composizione e il barattolo del colore, così abbiamo anche qui la dematerializzazione. Il fatto più importante è che la produzione delle parole e delle immagini è sottoposta ad uno stesso processo: la fototipia, la fotografia. La quale fotografia costituisce a tutt’oggi il tipo di raffigurazione che offre la massima comprensibilità a tutti. In tal modo, ci troviamo di fronte a una forma del libro in cui la raffigurazione diviene primaria e la lettera dell’alfabeto secondaria […] Cosicché io credo che la forma futura del libro sarà rappresentativo-plastica». Se non fosse per un’esercitata diffidenza circa le profezie e i loro portavoce di chi scrive, sarebbe lecito qualificare con l’appellativo di “profetico” questo brano di El Lisisckij. Non si può negare, infatti, che appaiano puntuali alcune considerazioni general-filosofiche (circa l’unicità anevolutiva delle “invenzioni” o il ruolo della dematerializzazione, ad esempio), quanto tempestiva la sua sensibilità a fenomeni nuovi della comunicazione visuale (tema di queste colonne). El Lisisckij sembra intuire, infatti, sia quella riduzione/omologazione di parole e immagini a un unico medium che oggi si sperimenta appieno, sia la portata di un processo allora agli albori con la fotocompositrice Uhertype, cioè il passaggio dalla preparazione testuale a caldo del piombo a quella a freddo della fotocomposizione nella produzione editoriale. Ma per meglio comprendere pregi e contraddizioni del contributo dello straordinario “costruttore” russo alla grafica del novecento, non si può che rileggere l’acuto ritratto che Jan Tschichold (altro protagonista di assoluto rilievo nella storia della visualità novecentesca) ne delineava nel 1965, dalle pagine delle «Typographische Mittelungen» elvetiche: «El Lisickij, uno dei primi grandi propugnatori della tipografia della nostra epoca tecnica, era d’ingegno sfavillante e movimenti vivaci, magro, piuttosto piccolo di figura e, a suo modo, quasi un damerino, ma serio. Era d’uno sfrenato impulso inventivo e, perfino quando si trovava insieme agli altri, doveva sempre fare qualcosa: fotografare, disegnare, scrivere. Che dal 1909 al 1914 avesse studiato ingegneria al politecnico di Düsseldorf, venne a tutto vantaggio della sua creatività, che si dispiegò in un modo singolare. Ogni problema, per lui, era fondamentalmente tecnico. Ma spesso il suo intelletto scappava insieme all’immaginazione, la quale concepiva ancor prima d’essere orientata. Si credeva ingegnere, ed era un artista […] Come tipografo, El Lisickij […] doveva lavorare con la composizione a piombo di Gutenberg, nata quasi 500 anni prima, poco adatta e troppo pesante per il suo mondo formale. Gli esperti rilevano immediatamente l’erroneità tecnica e i difetti della sua composizione diagonale. El Lisickij non sviluppava le sue forme sulla base della tecnica della composizione tipografica […] Tutto il resto, per quanto nuovo e potente, mostra spesso la lotta faticosa del tipografo dilettante con una tecnica tipografica vecchissima e riluttante […] La veemenza di molte sue impaginazioni nasceva dalla protesta contro il grigiore monotono che egli riscontrava in tutte le cose stampate […] Metteva con disinvoltura nelle pagine grandi titoli e larghe striscie, che ordinassero il tutto e ponessero l’accento su un punto, per scuotere il lettore […] Si trattava di scuotere il lettore e non di fargli piacere, anche nella presentazione tipografica di un testo […] Guardava a troppe cose, forse aveva troppe idee. Ciò gli impedì di dedicarsi tutto a un problema. Quanto la sua tipografia possiede di forza d’urto, le manca talvolta nei particolari. Con le sue composizioni tipografiche, ha anticipato, come possiamo vedere oggi, la possibilità della composizione tipografica su pellicola, il che gli avrebbe permesso tutto ciò che egli aveva in mente». «Il foglio stampato supera spazio e tempo -proclamava, infatti, El Lisickj dalle pagine di «Merz» già nel 1923, in Topografia della tipografia-. Il foglio stampato, l’infinità dei libri, devono essere superati. ELETTROBIBLIOTECA».

[L’elettrobiblioteca del costruttore, in “Casabella” (Milano), 680, luglio-agosto, p. 88]

15.8.04

[2000#05] peter behrens


Compito di una rivista seria è di tornare periodicamente a presentare opere e figure storicamente consolidate, non foss’altro per i lettori più giovani. È il caso di un eccezionale protagonista quale Peter Behrens, di cui ci si è occupati ripetutamente (v. «Casabella», 1997-98, 651-652, dicembre-gennaio e 1998-99, 662-663, dicembre-gennaio); «Casabella» non è certo nuova al tema, come prova, tra l’altro, il numero storico dedicato a Behrens da E.N. Rogers (1960, 240, giugno). Nato nel 1868, a quattordici anni Behrens è orfano di ambedue i genitori; con la sostanziosa eredità, si dedica alla formazione artistica, studiando ad Amburgo, poi a Karlsruhe e a Düsseldorf ed infine a Monaco, attivissimo centro culturale nella Germania d’allora. Dal realismo sociale dei dipinti dei primi anni novanta, l’ispirazione di Behrens muove verso il simbolismo, per approdare allo Jugendstil; disegna anche oggetti d’uso: porcellane, vetri, mobili. Questa attività nel campo delle arti applicate gli vale un ruolo di rilievo nella Künstlerkolonie voluta a Darmstadt dal granduca Ernst Ludwig von Hessen per «fondere assieme arte e vita»: nel 1899, è invitato a far parte dei Sette della “colonia artistica”. Del 1899 è anche la sua prima prova di lettering: per «Deutsche Kunst und Dekoration» disegna titoletti decorativi. Profondamente impegnato nel dibattito coevo su arte, tecnica e società, Behrens è convinto che, subito dopo l’architettura, sia la tipografia a «fornire l’immagine più caratteristica di un’epoca e la più forte testimonianza del suo progresso spirituale». Per darne prova, scrive, impagina e illustra il suo primo saggio importante, Feste des Lebens und der Kunst (1900), con scrupolosa cura visuale. Probabilmente per la prima volta nella storia della tipografia, il testo corrente è composto in un carattere bastoncino, che si affermerà come il tipo della modernità nei decenni successivi. Analogo approccio anima la copertina di Dokumente des Modernen Kunstgewerbes (1901), ove disegna un alfabeto senza grazie, modulato sul quadrato. Il problema della riforma tipografica e del disegno dei carattere è, in effetti, uno dei temi che più impegnano Behrens al principio del novecento, con l’obiettivo di «trovare un nuovo tipo, consono al sentire e allo stile contemporaneo», caratterizzato da «semplicità e leggibilità», perché «abbiamo bisogno di un carattere di stile serio per libri serii: solo allora potremo trasferire questo stile eccelso nella vita quotidiana». Nel 1901-02 vede la luce il suo primo carattere a stampa, prodotto dalla fonderia dei fratelli Klingspor, il Behrens-Schrift (molto vicino alla nitida calligrafia dell’autore), un tipo severo e stretto, tentativo di fusione tra segno gotico e latino, che Fritz Ehmcke paragonerà a una struttura in acciaio. Nella nota di presentazione, Von der Entwicklung der Schrift, Behrens spiega che «un nuovo carattere può svilupparsi solo in modo organico e quasi inavvertibile dalla tradizione, solo in armonia con i nuovi contenuti spirituali e materiali dell’epoca tutta» e che la lettura di un testo è simile alla «osservazione del volo di un uccello o del galoppo di un cavallo: fenomeni che appaiono aggraziati e piacevoli anche se l’occhio non distingue i dettagli delle forme o dei movimenti; l’osservatore vede solo il ritmo delle linee e lo stesso vale per un carattere». Nel 1903, Behrens si trasferisce a Düsseldorf, per dirigere la scuola d’arti e mestieri, e dal 1904 il suo lavoro è segnato dalle ricerche compositive di estetica sistematica olandesi, in specie di J.L.M. Lauweriks (v. «Casabella», 1997, 647, luglio/agosto), da lui chiamato a insegnare a Düsseldorf (dopo aver sperato di avere H.P. Berlage). Nel 1906-07, Behrens tiene a Düsseldorf due corsi di lettering e tipografia, coadiuvato da Fritz Ehmcke e da Anna Simons (allieva del massimo calligrafo del novecento, Edward Johnston, che Behrens tenta di chiamare come docente) -e con lei Behrens disegna nel 1909 l’iscrizione Dem Deutschen Volk, apposta sul Reichstag di Paul Wallot soltanto nel 1917, dopo lunghe polemiche. Il suo secondo carattere, l’elegante e fluido Behrens-Kursiv, viene prodotto dalla Klingspor nel 1906-07. Il 1907, anno di costituzione del Werkbund, segna una data fondamentale per la carriera di Behrens, incaricato da Emil Rathenau della direzione artistica della Aeg. In questo ruolo, svolge un lavoro di assoluto rilievo e senza precedenti, impegnato a progettare gli edifici, i prodotti e la comunicazione dell’azienda, nel tentativo di una superiore sintesi tra neoclassicismo e sachlichkeit. Suo il marchio esagonale (1907), applicato ovunque; sua la grafica di pubblicazioni di estrema raffinatezza, quali il catalogo per la Deutsche Schiffbau-Ausstellung (1908) e le «Mitteilungen» (1908-sgg) aziendali; suo il carattere Behrens-Antiqua (1908), prodotto dalla Klingspor, dapprincipio per uso esclusivo della Aeg: ispirato alle proporzioni classiche antiche, con afflato monumentale e variazioni unciali. Le decorazioni geometriche che disegna per il Kursiv e per l’Antiqua, d’altra parte, sono chiaramente suggerite dal capolavoro di Alois Riegl, Die Spätrömische Kunstindustrie (1901). L’ultimo tipo di Behrens prodotto dalla Klingspor, il Behrens-Mediäval, vede la luce nel 1914 (lo stesso anno della mostra del Werkbund a Colonia, per la quale Behrens disegna anche uno splendido poster): ideato nel 1906-07 ed elaborato nel 1909-13, è un carattere d’ispirazione rinascimentale, con alcune idiosincrasie nelle terminazioni. Non è, però, l’ultimo carattere di Behrens: il suo precoce apprezzamento dei tipi senza grazie, più volte utilizzati, fa sì che nel 1916 disegni un sofisticato bastoncino per la Aeg, in singolare coincidenza e sintonia con un celebre prototipo della tipografia novecentesca, l’Underground Sans tutt’oggi in uso, che Edward Johnston progetta per la metropolitana londinese.


[Zeitgeist: le lettere di Behrens, in “Casabella” (Milano), 678, maggio, p. 86]

14.8.04

[2000#04] wolfgang weingart


L’arte tipografica di Wolfgang Weingart, sintesi di testo e immagine
Nel corso del novecento si assiste al lento evolvere in Europa, lungo strade complesse e nodi plurimi di scambio, di un approccio oggettivo, razionale, sistematico alla grafica, che sposta il proprio accento dall’espressività e inventività artistica a una razionale progettualità comunicativa, dall’estro pittorico al design, inteso come disciplina rigorosa e trasmissibile del trattamento oggettivo dell’informazione visiva. Durante la seconda guerra mondiale, nella neutrale confederazione elvetica si sviluppano i semi di questo approccio, germogliati nei decenni precedenti tra Olanda e Germania, impiantandosi nel fertile terreno locale e incrociandosi con quelli indigeni, che hanno i nomi eccellenti di Max Bill e Theo Ballmer (ambedue allievi del Bauhaus), Walter Herdeg e Herbert Matter, Emil Schulthess e Alfred Willimann, Hans Neuburg e pari altri. Contemporaneamente, i centri di insegnamento superiore, le scuole di arti applicate di Zurigo e di Basilea, stabiliscono degli standard di eccellenza formativa e concorrono metodicamente al definirsi della “grafica svizzera”, fino a trasformarla in quello stile che ha dominato la scena internazionale per decenni. A Basilea insegnano per decenni personaggi del calibro di Emil Ruder e Armin Hoffmann, che è colui che vi chiamerà Wolfgang Weingart nel 1968. Nel 1955 Karl Gestner, grafico di Basilea, progetta e impagina un importante numero monografico di “Werk”, dedicato alla grafica: è l’occasione per mettere a punto il concetto di “griglia”, quale tracciato regolatore e ordinatore nel progetto degli stampati. Nel 1957, Max Miedinger disegna per la fonderia svizzera Haas un tipo bastoncino destinato a planetaria fama e successo, il Neue Haas Grotesk, basato sull’Akzidenz Grotesk: per la distribuzione sul mercato tedesco, da parte della Stempel nel 1961, viene ridenominato Helvetica, un tipo fin troppo a tutti noto. Nel 1958 inizia le pubblicazioni la rivista trilingue elvetica “Neue Grafik”, con l’intento di “creare una base internazionale per la discussione della grafica moderna e delle arti applicate”, frutto dell’impegno senza compromessi di quattro grandi progettisti svizzeri: Richard P. Lohse, Hans Neuburg, Carlo Vivarelli, Josef Müller-Brockmann; quest’ultimo è l’autore, tra l’altro, di Gestaltungsprobleme des Grafikers, prima sistematizzazione del principio della “griglia”, fondata sulle modulazioni tipometriche, con cui si identifica uno degli aspetti più noti della grafica svizzera. La “grafica svizzera”, a questo punto, è un fatto compiuto e si impone internazionalmente; banalizzandola, la si può tradurre in formule: adozione normativa di griglie d’impaginazione tipografiche modulari, utilizzo sistematico del bianco della pagina nell’equilibrio compositivo, ricorso quasi esclusivo a caratteri bastoncini, impostazione prevalentemente asimmetrica, preferenza per la composizione a bandiera. Il tutto, con un tono di oggettività impersonale, che finirà per tradursi nel dogma di una astratta funzionalità e impersonalità, di trasparenza dell’autore e di presunta oggettività dei mezzi di comunicazione. È esattamente a questa dogmaticità, fattasi ormai rigida norma asettica, ridotta ad anemica forma di ordinata pulizia, che Wolfgang Weingart reagirà, a partire dalla metà degli anni sessanta, tornando a considerare con ottica rinnovata soprattutto il valore sintattico delle componenti progettuali della grafica, rimettendo in discussione quanto era dato per scontato e accettato come accertato e universalmente vero, rimescolando le carte di un gioco che sembrava ormai fissato senza possibilità di variazioni, avviando un processo che (non senza equivoci) ridefinirà il volto della grafica attuale. “Per me non vi sono mai stati problemi di tipografia - spiegava Weingart al principio degli anni settanta, in una celebre conferenza - ma, piuttosto, solo problemi tipografici. Tra testo e immagine non vi è competizione di sorta, semmai vi è un’alleanza.[…] A un esame critico più attento, si comprende che la vita del progetto scaturisce dai suoi valori sintattici, dalla connessione, cioè, tra elementi come il tipo, il formato e la collocazione. Ritengo che sia proprio qui, nell’espressione del momento sintattico, che risiedono i criteri decisivi, nel senso che qui si rende fruibile la configurazione grafica, la definizione globale. […] Oggi è possibile fare tipografia solo a condizione di comprendere la dimensione sintattica della tipografia. Detto più chiaramente, la dimensione sintattica nella tipografia è per me un territorio nuovo. Io vedo qui un vocabolario visivo inesplorato e sorprendente, dotato di metodi progettuali più efficaci nel fornire le informazioni. […] La tipografia è per me un rapporto triangolare tra idee progettuali, elementi tipografici e tecniche di stampa. Qualsiasi problema si presenti […] è analizzato alla luce di questi tre aspetti, i cui criteri non vanno mai disattesi. L’elemento veramente speciale, per me, rispetto al valore che assegno alla sintassi tipografica, è la variabilità dei materiali tipografici, sotto l’influenza dell’idea e della tecnica. In altre parole, intendo la flessibilità con la quale, a fronte di problemi diversi, la tipografia è funzionale ma al tempo stesso conserva il proprio significato”. Così facendo, nel suo lavoro e con i suoi studenti, Weingart ha rimesso in discussione una secolare tradizione grafica, gutenberghiana e prim’ancora scrittoria, riportando alla luce valori espressivi e comunicativi negati da secoli di consuetudine, in una nuova sintesi di testo e immagine che ha ridefinito i rapporti tra tradizione e innovazione, tra norma e trasgressione, tra ordine e disordine, radicalmente rinnovando il concetto contemporaneo di arte tipografica. Weingart ha svolto cioè un ruolo fondamentale sia di critica della tradizione, sia di tempestiva riflessione sulle nuove tecnologie. La formazione di Weingart è stata, infatti, quella tradizionale di un compositore nell’epoca ancora del piombo, di una tecnologia fisica stabile dal secolo di Gutenberg; e nel tramonto di quell’epoca, dalla metà dei sessanta alla metà dei settanta, che comincia a mettere in questione le regole consolidate della tipografia. Ma ben presto, consapevole degli sviluppi in atto nella fotocomposizione, nel passaggio dal caldo al freddo, dal piombo al film, Weingart elabora nuove strategie comunicative sperimentali, con inedite forme di composizione fondate sulla stratificazione, deformazione e sovrapposizione di testo e immagine, ove didatticamente denuncia spesso le componenti fisiche del processo, prefigurando quanto diverrà portato tipico dell’uso di programmi di elaborazione digitali di immagini. E immediatamente dopo, al primo comparire negli anni ottanta del desktop publishing, del personal computer come strumento di progettazione, Weingart si rapporterà in modo altrettanto disinibito e inventivo, intuendo le nuove chances che la tecnologia digitale offre nell’aver trasformato la fisicità della lettera fusa di piombo in un deformabile elastico contorno, nel consentire compenetrazioni, fusioni e stratificazioni prima impensabili per le immagini, nel permettere iterazioni, traslazioni, mutazioni, variazioni e soluzioni limitate solo dall’intelligenza del mezzo. A suo merito, va dunque ascritta anche la rara sensibilità di aver saputo immediatamente avvertire e mettere alla prova, senza nostalgie né ostacoli, quanto appena si poteva intuire della radicale trasformazione dei mezzi di produzione del progettista tipografico, potentemente radicatasi nei decenni successivi, dimostrandosi capace di affrontare serenamente e positivamente la catastrofe digitale in cui siamo ancora fortunosamente immersi.

[L’arte tipografica di Wolfgang Weingart, in “sintesi” (Perugia), 9, giugno, snp]

13.8.04

[2000#03] pittogrammi

Da un po’ di tempo, i grafici son tornati a interessarsi ai pittogrammi, speciale categoria di segni che manifesta una particolare capacità di sintesi tra idea e immagine, in un originale amalgama espressivo, assai solleticante agli effetti del linguaggio visivo. Alt! Ogni tanto - non credete? - è utile tornare a chiarirsi le idee, a fare il punto sulle definizioni delle cose di cui si scrive, per non fare e non creare confusioni. Si parla spesso qui, e ancora se ne parlerà, di segni. Ma che cos’è un segno? CS Peirce, uno dei fondatori della semiotica (la teoria generale dei processi segnici), spiega in un celebre passo che ogni “segno, o representamen, è qualcosa che sta per qualcos’altro, per qualche aspetto o capacità: esso si indirizza a qualcuno, cioè crea nella mente di quella persona un segno equivalente”; il segno è dunque un sostituto, un succedaneo, un simulacro dell’oggetto a cui si riferisce, secondo una concezione che risale almeno a sant’Agostino. “Da questo modo di vedere - commenta Ugo Volli - deriva l’idea di una circolazione infinita dei segni nella vita sociale, quella che Umberto Eco chiama semiosi illimitata. Fino a che un fenomeno comunicativo, in particolare un segno, è vivo, lascia continuamente nuove tracce di sé”. Ma allora quello dei segni, vien da chiedersi, è un linguaggio della comunicazione? “Effettivamente si usa spesso il termine ‘linguaggio’ in modo metaforico - argomenta in un’intervista Roland Barthes - per qualsiasi tipo di comunicazione o, cosa più grave, per ogni tipo di espressione […] Tecnicamente, il ‘linguaggio’ è qualcosa di molto preciso: nel sistema di segni che costituisce il nostro linguaggio articolato, i segni sono - se così si può dire - due volte divisi: una prima volta in parole, una seconda volta in suoni (e lettere). A livello delle parole, il rapporto che unisce il significato e il significante è un rapporto immotivato; per esempio, quando si dice ‘bue’, il suono in sé non ha alcun rapporto analogico con ciò che possiamo chiamare ‘immagine psichica’ del bue. Tant’è vero che il suono utilizzato cambia da una lingua all’altra. La seconda articolazione, quella dei fonemi, funziona per opposizioni di numero finito, che sono opposizioni binarie. Per questa ragione si dice che il nostro linguaggio articolato è un codice digitale […] Accanto al nostro sistema linguistico a doppia articolazione esistono altri sistemi di comunicazione in cui, questa volta, il rapporto del significato e del significante è analogico. È il caso, per esempio, della fotografia (in questo caso preciso il rapporto è molto forte, molto verista, si potrebbe dire), degli schemi come quelli del codice stradale e di certi disegni di uso pedagogico. Non si può parlare di ‘linguaggio’ a proposito di segni senza doppia articolazione e in cui il rapporto significante/significato è analogico […] L’immagine, in quanto segno, in quanto elemento di un sistema di comunicazione, ha un considerevole valore impressivo. Si è tentato di studiare questo potere di choc ma […] occorre essere molto prudenti: in quanto segno, l’immagine comporta una debolezza, diciamo una difficoltà notevole che risiede nel suo carattere polisemico. Un’immagine irradia sensi differenti, che non sempre sappiamo padroneggiare […] per il linguaggio, il fenomeno della polisemia risulta notevolmente ridotto dal contesto, dalla presenza di altri segni, che indirizzano la scelta e la comprensione del lettore o dell’ascoltatore. L’immagine si presenta invece in modo globale, non discontinua, ed è per questo che è difficile determinarne il contesto […] Così, ciò che l’immagine guadagna in impressività lo perde spesso in chiarezza […] Sì, questa koinè, questa vulgata di segni e di simboli visivi [a cui fa riferimento una domanda dell’intervistatore] comuni a tutti gli uomini può essere molto utile, ma non si potrà mai realizzare in questo campo, che ha codici estremamente ristretti, perché sono sempre analogici. E soprattutto non bisogna dimenticare che la comunicazione è solo un aspetto parziale del linguaggio. Il linguaggio è anche una facoltà di concettualizzazione, di organizzazione del mondo, e dunque è molto più della semplice comunicazione. Gli animali, per esempio, comunicano molto bene tra loro o con l’uomo. Ciò che distingue l’uomo dall’animale non è la comunicazione, è la simbolizzazione, cioè l’invenzione di segni non analogici […] Allo stato attuale, l’immagine rientra soprattutto nella sfera della comunicazione […] È stato detto e ripetuto che siamo entrati in una civiltà dell’immagine. Ma si dimentica che praticamente non c’è mai immagine senza parole, siano queste sotto forma di legenda, commento, sottotitolo, dialogo ecc.”. Questa lunga citazione di Barthes ci ha soddisfatto, per il momento; ora possiamo tornare ai nostri pittogrammi, con maggior sicurezza. Non prima di aver chiarito con Tomás Maldonado un’ultima questione terminologica: “Fonogramma è un segno grafico il cui referente è un elemento di espressione di tipo fonologico. Ad esempio, la parola ‘stop’ nella segnaletica stradale […] Pittogramma è un segno iconico il cui referente è un oggetto o una particolare classe di oggetti o ancora la particolare qualità o azione che la classe di oggetti può designare. Ad esempio, la rappresentazione grafica di due bambini in corsa per indicare ‘uscita scuola’ nella segnaletica stradale […] Diagramma infine è un segno grafico non iconico o di bassissimo grado di iconicità. Di norma il diagramma è usato per designare un evento o un processo o il modo o il luogo in cui si svolge un evento o un processo. Nella segnaletica stradale, ad esempio, il triangolo per segnalare ‘pericolo’ genericamente”. È stata proprio la necessità di trovare risposte appropriate e sensibili, non ripetitive né banali, a precise esigenze nel campo delle segnaletiche, sempre più diffuse e richieste nel mondo d’oggi, che ha portato molti e rinomati progettisti visuali a rimetter mano nell’ultimo decennio a repertori classici di pittogrammi, come quelli per i trasporti collettivi o per la circolazione stradale, che affondano le loro origini nei pionieristici sforzi del Touring Club italiano di fine ottocento, per trovare nel novecento un terreno di fertile elaborazione nel “metodo viennese” di Otto Neurath, poi noto come Isotype, International System of Typographic Picture Education, “un linguaggio mondiale senza parole” ideato per la rappresentazione statistica. Ma questo non basta a spiegarci la peculiare attrazione pittogrammatica che caratterizza, in un arco di tempo più recente, le personali ricerche di tanti grafici contemporanei, documentate - - ad esempio - da lavori come Facts of Life di Pippo Lionni (presentato al Typomedia di Franfurt a/M nel 1998, stampato a Mainz nel 1999 but coming soon also Facts of Life # 2) o dalle pittografie di Giorgio Camuffo che pubblichiamo in questo numero. Ciò che colgono e mettono umorosamente in luce simili lavori non è infatti la naturale predisposizione indicale o prescrittiva di questi segni iconici, quanto un coté laterale, interstiziale, residuale dei pittogrammi, in quanto artefatti analogici: la loro polisemia, la loro capacità di produrre nuovo senso, data dalla loro costitutiva ambiguità d‘immagini. Si attiva così una sorta di inedita sintesi narrativa, fatta di flash paradossali e di affermazioni recise (sospese spesso tra l’apodittico e il caustico), obbligandoci a una salutare riflessione sulla natura dei segni che configurano l’immaginario stesso della grafica contemporanea.

[La semiosi si camuffa, in “sintesi” (Perugia), 10, ottobre, snp]

12.8.04

[2000#02] paul (renner + rand)

Per chi della letteratura scientifica e dei libri specialistici faccia strumento di conoscenza, di riflessione e di lavoro, è perlomeno curioso, certamente significativo e un tantino sconcertante, se non paradossale, scoprire e rendersi conto che sulla vita e le opere di taluni conclamati maestri, di certi riconosciuti protagonisti, di alcune figure fondamentali, di vari attori insomma di primo piano della cultura, delle scienze e delle arti (forse per la forma mentis stessa del generalizzato consenso che accompagna la fama e i nomi di tali leaders, forse per una qualche sparsa dose di nequiziosa pigrizia degli studiosi a fronte di indiscusse eccellenze) non di rado siano rari e talora del tutto assenti attendibili testi critici di riferimento, puntuali monografie standard, ricerche specifiche da leggere, studiare e compulsare all’occorrenza. Nel campo della progettazione grafica del novecento, del Visual Design contemporaneo, tale è stato, fino a poco tempo, fa il destino, ad esempio, sia di Paul Renner, attento interprete teutonico del proprio Zeitgeist e autore di un tipo da stampa universalmente apprezzato quale il Futura (1924-28), sia di Paul Rand, straordinario talento americano di Graphic Designer ed esponente perfetto dell’equivoco “modernismo” indigeno, ai più noto almeno per il marchio della Ibm (1956).

Paul Renner
La fine, rada quanto domestica produzione della casa editrice londinese Hyphen Press, capitanata da Robin Kinross (di cui si deve segnalare l’acuto e fortunato Modern typography: an essay in critical history, 1992, 1994) ci ha abituati a preziosi e rari testi sulla storia della grafica e della tipografia del novecento -come avemmo modo di segnalare, a proposito di Designing books, dedicato all’opera dello svizzero Jost Hochuli, in «Casabella», 1997, 649, ottobre. Il volume di Christopher Burke intitolato Paul Renner: the art of typography, London 1998, costituisce in assoluto il primo studio (esito di una ricerca per la tesi dottorale dell’autore presso l’University of Reading, forse la più specializzata al mondo nel settore della tipografia) sulla figura esemplare di questo tipografo e disegnatori di caratteri tedesco. Assai filologico e parcamente ma puntualmente illustrato (spiace la pesante copertina, non all’altezza degli standard abituali della casa editrice), il lavoro di Burke esamina l’intero arco della carriera artistica e umana di Renner. Nato nel 1878 in Prussia (e “prussiano” si dichiarerà in un suo curriculum del 1925), da un padre teologo evangelico, segnato da una rigorosa educazione religiosa, Renner incarna, con il suo lavoro, temi centrali nella cultura germanica della prima metà del novecento. Formatosi come artista tra le accademie di belle arti di Berlino, Karlsruhe e Monaco di Baviera, attivo inizialmente come pittore nell’ambito del “rinascimento culturale monacense” del primo novecento, è attratto dalla progettazione del libro (per cui frequenta una scuola di arti applicate a Monaco, ove insegna anche Hermann Obrist) ed è tra i primi e duraturi membri del Deutscher Werkbund, partecipando attivamente all’intera vita dell’associazione e ai suoi controversi dibattiti. Dopo aver lavorato brevemente alla Kunstschule di Francoforte (città ove entra in contatto con Ferdinand Kramer, attivo nel dipartimento standardizzazione alle dipendenze di Ernst May) alla metà degli anni venti, nello stesso periodo in cui inizia a progettare il carattere Futura, già dal 1926 torna a Monaco, chiamatovi come direttore di quella che sarà nota come Graphische Berufschule, celebre scuola di arti grafiche, che vede tra i suoi docenti anche Jan Tschichold (il teorico della neue typografie), divenendo il fulcro della riforma grafica della Germania della repubblica di Weimar. Con l’avvento del nazismo, nel critico anno 1933, Renner viene allontanato e poi dimissionato dal suo posto; non prima (tra marzo e maggio) di aver organizzato, a nome del Werkbund berlinese, e allestito -guardato a vista da una camicia bruna- la partecipazione tedesca alla V Triennale di Milano, dedicata alle arti e le industrie grafiche, ove ironicamente si merita un gran diploma d’onore e l’attenzione ufficiale delle autorità, a cominciare dal sovrano in visita. Gli anni del nazismo sono vissuti da Renner in una sorta di “immigrazione interna”, che lo vede comunque attivo sia come progettista, che come scrittore (da segnalare, in una ricca bibliografia, i suoi volumi Die Kunst der Typografie, del 1940, eco inversa del giovanile Typografie als Kunst, del 1922, oltre al “progressivo” Mechanisierte Grafik, del 1931). La sua presenza critica tornerà ad emergere nei dibattiti del dopoguerra, come voce amara dell’esperienza e della ragione, in un lento tramonto, fino alla sua scomparsa nel 1956. Un contributo fondamentale, dunque, questo di Burke su Renner, a cui si può rivolgere forse solo l’appunto critico di non aver rivolto abbastanza attenzione, in tanto sforzo di ricerca archivistica, alle vicende della Triennale, ignorando la documentazione disponibile e l’impatto profondo prodotto dalla mostra di Renner sulla cultura grafica italiana: non a caso, il 1933 è l’anno della riforma di «Casabella» (con la nuova testata composta proprio in Futura, com’è anche oggi), della nascita di «Campo grafico», dell’inizio delle attività dello studio Boggeri, per dirne alcune. È sfuggito a Burke anche l’eco non trascurabile prodotta nella pubblicistica da tale evento, di cui, ad esempio, Edoardo Persico (all’autore inglese sarebbe stato utile consultare almeno Guido Modiano, Tipografia di Edoardo Persico, in «Campo grafico», 1935, 11-12) scrive in «L’Italia letteraria», nel maggio 1933, concludendo profeticamente: «Alla Triennale di Milano, soltanto la mostra tedesca, che si limita a saggi di arte grafica, e la mostra svedese […] sono al corrente del gusto europeo. Basterebbe notare come la composizione tipografica si vada orientando, in Germania, verso equilibri e ritmi che esistono indipendentemente dal contenuto dello scritto, per capire come questo espressionismo grafico si accordi al gusto più vivo dell’arte moderna. […] Nel 1936, noi, forse, non rivedremo a Milano, né Paul Renner, che ha ordinato questa mostra della stampa tedesca, né nessuno dei suoi compagni che hanno fatto la rivoluzione dell’architettura moderna».

Paul Rand
Escludendo dal novero della bibliografia randiana una non poi ricchissima messe di articoli in riviste e periodici diversi (magri, comunque, gli interventi di rilievo), gli unici volumi sull’attività di Rand erano finora quelli da lui stesso pubblicati, certamente non trascurabili ma inevitabilmente autoreferenziali e parabiografici, da assumere piuttosto come documenti e “sintomi” di una poetica. A porre rimedio a questa situazione è un lussuoso, recente volume di grande formato, frutto dell’abile penna di Steven Heller, autore che si distingue nella bibliografia statunitense specializzata nel settore della grafica per una rigogliosa produzione ma che è anche Senior Art Director del «New York Times», Editor dell’«Aiga Journal of Graphic Design», nonché docente della School of Visual Arts Mfa/Design Program di New York -una vera quanto prolifica autorità, dunque, nel campo. Intitolato semplicemente e senz’altra sottotitolazione Paul Rand (e come poteva essere diversamente?), questo autentico coffee-table book, non trascurabile già solo per il suo peso fisico, edito per i tipi di Phaidon Press, London 1999, nelle oltre 250 pagine che lo compongono accoglie anche una breve premessa di Armin Hofmann, una (poco più lunga) introduzione di George Lois e un capitolo finale sulla didattica di Rand «professore moderno» a cura di Jessica Helfand, prima degli inevitabili, utili apparati cronologici e bibliografici. Accompagnato da una ricchissimo, stracurato e strepitoso repertorio iconografico, il testo di Heller costituisce il corpo centrale del volume, articolandosi in cinque capitoli, che biograficamente corrispondono grossomodo ad altrettanti fasi della carriera di Rand. Subito veniamo a scoprire che il nostro, nato nel 1914 con il gemello Fishel (scomparso assai giovane) da una famiglia di stretta ortodossia ebraica e cresciuto nel distretto di Brownsville a Brooklyn, New York, in realtà si chiamava di nome Peretz e di cognome Rosenbaum e che assumerà lo pseudonimo di Paul Rand per via della minor connotazione “etnica”. Dopo aver studiato (1929-32), prima al Pratt Institute e poi alla Parsons School of Design, nel 1933 Rand segue anche un corso di disegno di Georg Grosz; dalla metà degli anni trenta i primi lavori di rilievo: Art Director (1936-41) delle riviste «Apparel Arts» ed «Esquire», tra l’altro disegna una memorabile serie di copertine per «Direction» (1938-45). Il lavoro di Rand viene ben presto notato da Laszlo Moholy-Nagy, che pubblica uno dei primissimi articoli su di lui nel 1941. Sempre nel 1941, a 27 anni, Rand diventa Art Director di una delle più importanti agenzie di advertising di New York, la William H. Weintraub, ove lavora fino al 1955, dando vita a memorabili campagne (una per tutte: quella per i sigari El Producto). È attivo anche in campo editoriale (copertine di riviste e volumi, in particolare per Knopf); nel 1946 pubblica il suo primo libro, Thoughts on Design -riedito nel 1970-, a cui seguiranno, tra il 1985 e il 1996: Paul Rand. A Designer’s Art; Design, Form, and Chaos; From Lascaux to Brooklyn. Giunto rapidissimamente nell’Olimpo della grafica statunitense, dalla metà degli anni cinquanta Rand inizia la serie di assai durevoli consulenze («good design is good business») per la corporate identity di alcuni colossi industriali, che lo hanno reso celebre, quali: Ibm (1959-91), Westinghouse (1959-81), Cummins (1961-96); per non parlare dei suoi altri logo, capolavori da manuale d’immagine, da Ups (1961) a Abc (1962) fino a NeXT (1986) o Ussb (1995). Sciovinisticamente, non dispiace scoprire che il modello ispiratore del primigenio impegno della Ibm sono le attività di comunicazione aziendale della nostra Olivetti, che peraltro commette a Rand alcuni poster per la mitica Lettera 22 di Marcello Nizzoli. Tralasciando i non pochi altri suoi impegni, in tutti questi anni Rand non mancherà di insegnare, prima saltuariamente, poi regolarmente, in scuole di gran prestigio, quale la Yale University a Harvard (1956-69, 1974-96) o a Brissago (1977-96), fino alla sua scomparsa nel 1996. Assai puntuale seppur tendenzialmente agiografico nella parte testuale, abilmente integrata da brani di interviste a vari collaboratori, il libro-testimonianza di Steven Heller su Paul Rand era un titolo che mancava nella letteratura specializzata; finalmente ha riempito, per molti versi, un vuoto nei nostri scaffali che non si giustificava, se non per l’impegno e la cura richiesti a condurre in porto una simile impresa.

[2 x PR, in “Casabella” (Milano), 676, marzo, pp. 85-86]

11.8.04

[2000#01] wim crouwel


In una collana sperimentale, denominata Kwadraatblad (quaderno quadro) per via del formato fisico (25 x 25 cm) e, si presume, ideal–teorico, l’azienda tipo–litografica olandese De Jong & Co. di Hilversum pubblica nel 1967 un fascicolo dalla squillante copertina rossa, intitolato nella versione inglese (propriamente, a nuove lettere) new alphabet (nella versione indigena, suona nieuw alfabet); ove, scorrendo il colophon, si legge, tra l’altro: © Wim Crouwel (Total Design) Amsterdam. Non è il primo di tali quaderni, però: la serie dei Kwadraatbladen, ricca di altri significativi episodi, inizia nel 1954, per iniziativa di un grafico assai attivo nella promozione della cultura visuale non solo nel suo paese, quale Pieter Brattinga, figlio peraltro del proprietario della De Jong & Co.
Con sobria discrezione, si annuncia così uno degli esperimenti di disegno di lettere più interessanti della seconda metà del novecento, quale coagulo di lunghi e dipanati fili che si intrecciano sia nella vicenda del progettista che nella storia degli alfabeti moderni e della parola visibile. “Nel 1967, con l’introduzione delle prime attrezzature elettroniche per la composizione tipografica, – commenterà Crouwel nel 1988 – ho proposto un carattere monoalfabetico in risposta a nuovi bisogni funzionali. Era una proposta di natura sostanzialmente teorica, giacché alcune nelle lettere non avevano somiglianza alcuna con quelle usuali. La cosa richiamò molta attenzione ma il tentativo era piuttosto futile, in un periodo nel quale il funzionalismo, per come lo si intendeva nello spirito del Bauhaus, veniva attaccato e dichiarato anti–umano e antiquato”.

Originario di Groningen, capoluogo della autoctona Frisia nel nord del Paesi bassi, il trentanovenne Willem ‘Wim’ Hendrik Crouwel nel 1967 è già uno dei progettisti visuali olandesi di maggiore rilievo e notorietà internazionali. Terminata la formazione superiore nella sua città natale presso l’accademia Minerva (1946–49), una scuola di arti applicate di salda tradizione, dopo il servizio militare (1949–51) che lo porta per la prima volta lontano da casa, Crouwel segue il corso serale di tipografia dell’IvKNO (1951–52), Instituut voor Kunstnijverheids Onderwijs (istituto per l’educazione alle arti industriali, meglio noto, in seguito, come accademia Gerrit Rietveld) ad Amsterdam; in questa città inizia a lavorare, con l’apprendistato presso la Enderberg (1952–54), specializzata in standistica e realizzazioni espositive, che lo mette in contatto per la prima volta con dei grafici svizzeri. All’apertura di uno studio proprio ad Amsterdam (1954–57), segue un periodo di collaborazione con l’architetto d’interni e designer Kho Liang Ie (1956–60) e la riapertura del proprio studio (1960–63), prima della fondazione (con Friso Kramer, Benno Wissing e i fratelli Paul e Dick Schwarz) e co–direzione di TD Associatie voor Total Design NV (1963–80), sigla che – confrontabile forse solo, per analogia di struttura, afflati e cronache, con la partnership originariamente britannica dei Pentagram – lo rende celebre in tutto il mondo: un pool di designers, mirato alla progettazione integrata e razionale di artefatti comunicativi e strumentali, all’egida di una visione positiva di intervento nell’ambiente antropico.
Non è questa né l’occasione, né la sede per ripercorrere la vicenda straordinaria di Total Design, che profondamente impronta di sé la scena visual–internazionale degli anni sessanta e settanta sotto la leadership ideologica di Crouwel, con realizzazioni esemplari nei suoi vari campi di attività e in particolare in quelli della comunicazione istituzionale d’immagine, documentata in numerose mostre e pubblicazioni (a cui si può rimandare il lettore che desideri maggiore approfondimenti) e probabilmente ai più nota, se non per ricordare che Crouwel ne sarà in seguito anche il consulente e consigliere spirituale (1980–85), prima di dirigere il museo Boymans–van Beuningen di Rotterdam (1985–93) e di riprendere, con vena instancabile, un’attività in proprio (1994–sgg). Alla felice e fortunata figura professionale, inoltre, Crouwel ha sempre affiancato quella di un assai qualificato e ricercato docente, inizialmente presso l’accademia di Den Bosch (1954–57), poi presso l’IvKNO di Amsterdam (fino al 1963), infine al politecnico di Delft (1965–85) e al Royal College of Art di Londra (1981–85).
L’esperimento del new alphabet si colloca, dunque, sul crinale della carriera di Crouwel, le cui attitudini progettuali si potrebbero descrivere, tentando un sintetico paragone con due dei maggiori esponenti nel secondo dopoguerra del design Usa (paese di continuo, storico confronto per l’Olanda), come una sorta di ibrido tra la sapienza del corporate design di Paul Rand (in una versione cordiale e con una visione collegiale del lavoro) e la effervescente vena espositivo–comunicativa degli Eames (temperata da un approccio razionale, poco incline alla emotività, e innervata da un gusto europeo).
Di fatto, pur avendo avuto continuamente a che fare con le lettere e gli alfabeti nel suo lavoro di progettista visuale, Crouwel non è (e non si reputa) progettista di lettere, disegnatore di tipi a stampa, bensì uno sperimentatore, non assiduo e occasionale, di forme appropriate per la parola visibile.
La presentazione del nuovo alfabeto nelle pagine del Kwadraatblad si precisa fin dalla copertina, ove vien spiegato, nei sottotitoli, che è una “possibilità di nuovo sviluppo”, cioè una “introduzione alla tipografia programmata”.
Cosa intende dire, con ciò, Crouwel? La dichiarazione che si legge più avanti è esplicita: il new alphabet è la proposta di “un nuovo tipo che, più di quelli tradizionali, è adatto ai sistemi di composizione con tubi a raggi catodici”. In altri termini, argomenta Crouwel: “la macchina deve essere accettata come un dato essenziale, se vogliamo far fronte alle necessità della nostra epoca. La quantità di informazioni che dev’essere stampata ogni giorno, necessariamente, è cresciuta a tal punto che la meccanizzazione è indispensabile […] Ma le lettere non si sono mai evolute con le macchine. L’alfabeto non convenzionale qui illustrato va inteso meramente come un passo iniziale in una direzione che può probabilmente essere sviluppata con altre ricerche. Il mezzo di riproduzione che si assume come punto di partenza è il raggio catodico, che corrisponde al medesimo principio della televisione”.
A una civilizzazione macchinista matura, a un’era medial–elettronica alla conquista di nuovi spazi, a micro– e macro–scala (a ciò alludono scopertamente le immagini che illustrano il fascicolo), deve – secondo l’intuizione di Crouwel – corrispondere, sia pur sperimentalmente, un disegno di lettere “catodico”, basato sul nuovo supporto fisico di tracciamento (il monitor tv) e sull’accrescimento necessario del flusso informazionale, reclamato dai tempi moderni. Si intrecciano significativamente, sullo sfondo di questa ipotesi, tre elementi di ragionamento: la pristina consapevolezza della radicale trasformazione in atto nei sistemi di allestimento testuali (il perfezionamento allora in corso della fotocomposizione sta per distruggere la plurisecolare, plumbea, immobile essenza della bottega di Gutenberg); le esigenze urgenti di accelerazione produttiva, fondate sull’unica variabile attiva (“solo la velocità del processo di manifattura è cambiato”, afferma Crouwel nella presentazione, infatti); l’aspirazione a un controllo o, meglio, a una nuova progettualità, in grado di tradursi in una esatta, razionale pianificazione del disegno delle lettere, a sfondo matematico–computazionale, echeggiando una tematica diffusa nella sperimentazione contemporanea, quella delle “arti programmate”, fondate su una teoria di costruzione e fruizione delle attività estetiche tanto impersonal–processuale quanto logico–astratta.
In questa cornice, Crouwel formula la struttura del suo alfabeto; si tratta di una matrice bidimensionale da 5 x 9 unità, in cui ogni lettera e le relative variazioni di peso e colore (dal “chiaro” al “nero”, dallo “stretto” al “largo”, nonché un “inclinato”, per ricorrere alla terminologia classica dei tipi a stampa) sono individuabili tramite un codice associato di 5 variabili, a/b/c/d/x: a è il numero di unità verticali (dispari), b le linee per unità verticale (200 per cm), c le unità orizzontali (dispari, minimo: occhio della lettera + 4), d le linee per unità orizzontale (200 per cm), x le unità dell’occhio della lettera (dispari). È ovvio che le variazioni possibili, in forma combinatoria dei singoli parametri, una volta definiti i tratti delle singole lettere, sono innumerevoli quanto agevolmente “programmabili”, per analogia di variabili, onde ottenere determinati effetti. Il tutto appare, in conclusione, come una procedura scientifico–matematica di operazioni univoche, a variabilità controllata, che permette di descrivere e configurare un nuovo alfabeto, esito conseguente di premesse chiare.
Fin qui, nell’esame del new alphabet non s’è fatto altro che seguire le dichiarazioni programmatiche del progettista; ma è il caso di fidarsi e affidarsi candidamente alle intenzioni dell’autore, alle auto–descrizioni progettuali, o ci sono altri elementi in gioco, celati sotto tanta esternata razionalità?
Parrebbe opportuna una verifica, che saggi la corrispondenza tra tali affermazioni e il concreto artefatto comunicativo che il Kwadraatblad presenta. Per dare delle risposte conseguenti, dobbiamo tornare a scorrere il fascicolo, guardando con attenzione le figure; e a ben vedere, troviamo subito, sin dalla copertina, non uno ma due alfabeti: uno (positivo, nero impresso su bianco) composto da tratti pieni ortogonali, sottili rettangoli i cui giunti sono formati da snodi a 45° o, più precisamente, dalla semicampitura di un’unità quadrata del modulo lungo la diagonale, così che il giunto risulta essere un triangolo isoscele di cateti pari a 1 e ipotenusa pari a radice di 2; l’altro alfabeto (negativo, bianco bucato su nero) è composto, invece, da una serie di pallini (uno per unità del modulo), ove le giunzioni non sono altro che i pallini che si trovano nel punto di snodo.
Che cosa accomuna allora i due alfabeti, a prescindere dal palese ma sviante richiamo alle forme–base di componenti elettronici di segnalazione dell’epoca piuttosto che ai pixel dei tubi catodici o alle matrici di aghi dei sistemi di stampa a impatto? Fissata la logica della griglia 5 x 9, ad apparentare gli alfabeti è, in effetti, una scelta sensibile quanto arbitraria di ur–formen, di configurazioni originarie dell’intero set alfabetico (lettere, cifre, segni d’interpunzione), elementarizzate fino al limite della potenziale riconoscibilità, secondo un processo non nuovo, anzi insistentemente ricorrente, nella storia del disegno delle lettere moderne – ma su questo aspetto dovremo tornare presto. In ogni caso, non possiamo non notare come, nella letteratura specialistica, il nome di new alphabet sia attribuito ed identifichi solo la prima, positiva, serie dei due alfabeti, suggerendo una scarsa attenzione della critica alla lettura dei documenti.
Altra verifica che appare utile, è quella di ripercorre la produzione di Crouwel, in cerca di tracce, precedenti ma anche successive, per meglio collocare la novità del new alphabet e il suo utilizzo evolutivo da parte dell’autore. Le immagini pubblicate di schizzi e studi per il new alphabet (datati, non a torto, prudenzialmente “circa 1967”) rivelano, innanzitutto, una grande variabilità di soluzioni in itinere, talora con gradi inferiori di riduzione dei tratti pertinenti e varie incertezze, pur tuttavia sempre ancorate alla medesima ipotesi di minima forma materiale, problema – è ben noto – comune a tutto il design razional–ulmiano dell’epoca. A ritroso, si scopre ben presto che nell’aprile 1967, per la relazione e l’invito al congresso Mechanisering en automatisering in het grafisch bedrijf, promosso dalla vjgo, associazione di giovani operatori grafici, e nel settembre del 1966, per la copertina di un fascicolo introduttivo alla Commission on the use of computers, per il quarto congresso della European federation of financial analyst societies, Crouwel aveva già utilizzato esattamente le lettere del primo dei due alfabeti illustrati nel Kwadraatblad; il che ci impone di retrodatare di forse un paio di anni il disegno del new alphabet. Andando ancor più lontano, ci si imbatte in due assai simili e significative (ai nostri fini) copertine, rispettivamente del 1960 e del 1962, per il catalogo della partecipazione olandese a la Biennale di Venezia, ove la parola Olanda è analogamente composta con lettere disegnate a tratti pieni ortogonali, dai giunti a 45°: invenzione che è progenitrice diretta del new alphabet e che, in una variante ancor più sensibile al problema dei giunti, appare anche nella copertina del catalogo dello Stedelijk Museum di Amsterdam dedicato a Brusselmans nel 1960 (riutilizzato poi nella copertina del catalogo Ewald Mataré, sempre dello Stedelijk Museum di Amsterdam) ma la cui primissima formulazione si riconosce nel logo della carta intestata per il centro copie Rijnja di Amsterdam (1958 circa). Tutto ciò conferma l’idea di un lavorio di lunga data (e di un reiterato affiorare nel tempo) sul tema della forma delle lettere in Crouwel, che già al principio degli anni sessanta individua una soluzione in grado di eliminare le curve, cioè la geometria d’ordine superiore alle rette – forse perché le curve sono espressione della scrittura manuale, naturale, sin quasi dai primordi, e invece l’obiettivo è quello di una lettera meccanico–macchinista?
Successivamente, non sono molte le occasioni in cui Crouwel ricorre al new alphabet, anche se ciò può apparire curioso; è da sottolineare, anzi, il fatto che lo utilizzi soltanto per la copertina del numero di luglio–agosto 1968 del nostro “linea grafica”, su invito del lungimirante Franco Grignani, eccelso ede appartato maestro della progettazione visuale italiana. Di lì a poco fanno la loro comparsa altre lettere modulari ed elementari di Crouwel, come quelle disegnate nel 1968 per la mostra Vormgevers allo Stedelijk Museum di Amsterdam e per il calendario della tipografia Erven E. van de Geer di Amsterdam, nel 1969 per la mostra Visuele communicatie Nederland sempre allo Stedelijk Museum di Amsterdam, nel 1970 per la mostra Claes Oldenburg ancora allo Stedelijk Museum di Amsterdam, nel 1971 nell’alfabeto per il Fodor Museum (un ben noto set, che è una variante del principio di Vormgevers), nel 1972 per il quaderno Visuele communicatie. Typo Vision International (altra variante di Vormgevers), nel 1975 ancora per il calendario 1975 della tipografia Erven E. van de Geer di Amsterdam, nel 1976 nell’alfabeto per macchina da scrivere Politene per la Olivetti e nei parentali notissimi francobolli delle poste olandesi (precorsi dal commemorativo per Osaka del 1970).
E se si percorre nel verso cronologico opposto la carriera di Crouwel, si trovano altrettanti esperimenti significativi di disegno di lettere, a comprovare un interesse di ricerca durevole e coerente negli indirizzi: le lettere albersiane del poster e della copertina del catalogo Edgar Fernhout per lo Stedelijk van Abbe Museum di Eindhoven nel 1963 (la cui resecazione orizzontale ricorda la soluzione del poster per la partecipazione olandese alla XII Triennale di Milano nel 1960), le lettere silografiche e compresse del poster Hiroshima per lo Stedelijk van Abbe Museum di Eindhoven nel 1963 (sintomo di un problema ricorrente, riappaiono, ad esempio, nella copertina del catalogo Robert Muller lo Stedelijk Museum di Amsterdam, nel 1964, e in versione ortogonalmente irrigidita, nelle carte intestate per Alice Edeling, nel 1969), le cifre spezzate verticalmente degli auguri personali per il 1957 (riprese negli auguri per il 1958 dello Stedelijk van Abbe Museum di Eindhoven, ma anche nelle lettere per la copertina del catalogo Wessel Couzijn nel 1958). Nonostante questi elenchi, non si sono certo esaurite tutte le circostanze in cui Crouwel s’è cimentato con forme di lettere sperimentali ma ciò che importa è tanto mostrare la continuità di un atteggiamento sperimentale, che nel new alphabet trova il luogo di stazione più elevato e meditato, quanto le ristretta gamma di occasioni in cui questo è stato utilizzato effettivamente.
Solo la diffusa rinascita di vasti interessi nei confronti del disegno dei caratteri, spinta dall’avvento recente della tecnologia del desktop publishing, ha fatto sì che l’attenzione critica tornasse a rimeditare sul ruolo del new alphabet (e di molti altri alfabeti moderni) – fino alla riedizione digitale di quattro tipi di Crouwel nel 1997, nella collana Architype della britannica The Foundry diretta da Freda Sack e David Quay: new alphabet (in 3 pesi), Stedelijk (Vormgevers 1968), Fodor (1971), Gridnik (Politene 1976).
Non ci siamo ancora interrogati, tuttavia, né sulla effettiva parentela o contiguità del new alphabet con altri coevi tipi “catodici” né, soprattutto, abbiamo risposto alla domanda: donde derivano quelle forme scabre e quali garanzie offre l’autore circa le loro condizioni di lettura e riconoscibilità, operando con uno scoperto approccio di riduzione all’essenziale?
Alla prima domanda, non si può che dare una articolata risposta negativa. Il disegno degli alfabeti a matrici di punti delle stampanti ad impatto, oggi rese obsolete dalla tecnologia laser e ink–jet, ormai antidiluviane sul piano della forma delle lettere e pressocché abbandonate ovunque ci sia un problema di qualità, si è evoluto rapidissimamente, incrementando assai presto il numero degli aghi nelle testine, per emulare la resa di tradizionali caratteri a stampa; solo in una fase precoce, le matrici in questione erano formate da un set così ridotto da poter essere paragonate alle 5 x 9 unità del new alphabet – sia pur solo in teoria, in quanto l’incerto segno risultante dalla parziale sovrapposizione di punti non è certo confrontabile con la perfezione geometrica di rette e diagonali richiesta dal new alphabet (illuminante una illustrazione del Kwadraatblad, ove si confrontano le a di un Garamond e del new alphabet, rivelando l’altissima risoluzione necessaria a rappresentarle, in una logica di riproduzione ancora non vettoriale). D’altra parte, i tipi dettati dalla necessità dell’ocr, il riconoscimento ottico dei caratteri a quel tempo in piena elaborazione, presentano tutt’altre caratteristiche: questa semplificazione dell’alfabeto, per adattarlo alle tecniche di ocr, risulta in un disegno comunque elaborato nei raccordi, fitto di curve, pienamente memore della forma comune delle lettere sia maiuscole che minuscole, tutt’altro che radicale insomma rispetto al new alphabet, pur fondandosi su matrici minimali, come nel caso della griglia di 4 x 7 dell’Ocr–a (1966), disegnato per rispondere ai requisiti dell’Us Bureau of Standards, che già per l’Ocr–b (1968), sviluppato con la supervisione di Adrian Frutiger sulla base delle richieste avanzate dall’European Computer Manufacturer Association fin dal 1961, si trasforma in una matrice di 18 x 25; né si possono riscontrare affinità con i caratteri per analoghe codifiche bancario–numeriche, quali il diffusissimo E13b o il Cmc7, che trovano consonanza puramente stilistica con i toni da era spazial–robotica di una pletora di tipi rapidamente passati di moda, quale il Countdown di Colin Brignall e le infinite analoghe variazioni nella gamma dei trasferibili, allora in uso. Semmai, la mancanza o meglio la sostituzione delle curve con giunti a 45° potrebbe ricordare il disegno di lettere in situazioni e luoghi ove ciò rappresenta una semplificazione esecutiva, come in certo lettering aereo–navale militare, ripreso da caratteri come il Machine (1970) di Tom Carnase e Renne Bonder, se non fosse che si tratta palesemente di tutt’altro repertorio.
Alla seconda domanda, relativa alle radicali scelte di minima forma utile, bisogna rispondere osservando (cosa non fatta finora) che il new alphabet è un monoalfabeto, cioè appartiene a quelle particolari famiglie di tipi che prendono a proprio modello una sola delle due serie che (storicamente giustificate, logicamente rigettabili) compongono il nostro alfabeto: maiuscole e minuscole, le cui origini vanno rintracciate rispettivamente nella capitale lapidaria romana (I secolo) e nella minuscola carolingia (IX secolo). L’alfabeto di Crouwel è palesemente riferito alle sole forme del minuscolo; inoltre, se volessimo apparentarlo storicamente con maggior precisione, potremmo ravvisarvi una impostazione affine al semionciale (VI secolo), per l’assetto tetracorde e l’apparire di ascendenti e discendenti, sia pur contenute, nonché nel disegno a forca della e. Tuttavia, il processo di tracciamento dei segni pertinenti è talmente sottrattivo in Crouwel, almeno per alcune lettere (come a, g, j, s, x e z), da suggerire l’obbedienza a un principio di astrazione assai forte, più della possibile mediazione a favore di criteri comuni di riconoscibilità. Se è risaputo che leggiamo le parole (gruppi di lettere), grazie al loro relativo isolamento (spazi bianchi minori tra le lettere che tra le parole), per il loro profilo complessivo – giacché il nostro occhio sfiora lo skyline delle righe di testo, nello scansirle durante l’atto della lettura – e non certo compitando ad una ad una le lettere che le compongono, è altrettanto noto che la riconoscibilità delle singole lettere (anche nei gruppi che formano le parole) è data dalla loro emiporzione superiore, fatto facilmente verificabile confrontando le due metà (superiore ed inferiore) di qualsiasi lettera o gruppo di lettere: la metà superiore contiene un maggior numero di tratti individuali, di elementi caratterizzanti, di segni pertinenti, che sono quelli che consentono appunto il rapido riconoscimento mentale delle singole lettere. Il new alphabet nega questo basilare principio percettivo: le emiporzioni di alcune lettere sono tutt’altro che riconoscibili e, in molti casi (a, f, g, l, p, q, s, x, y, z, a parte la barretta inferiore di raddoppio che individua artificialmente la m e la w), è indispensabile l’apprendimento del loro disegno, per poterle distinguere. Alcune lettere sono, infatti, prive di porzioni significative dei loro tratti pertinenti abituali: l’occhio nella a, il fusto nella f, il cappio inferiore nella g, il gancio inferiore nella j, il gancio superiore nella s, il gancio inferiore nella z, mentre l’irrigidimento geometrico porta a un disegno della k e della x abnorme; inoltre, risultano ambigue coppie di lettere come la d e la g, la k e la t, la s e la z, la u e la v – in conclusione, è di difficile individuazione, per il disegno eterodosso, buona parte dell’alfabeto e, in particolare, le lettere a, g, j, k, s, x, z. Né la situazione migliora se teniamo conto del fatto che, per indicare le maiuscole, Crouwel adotta l’artificio di una barretta orizzontale superiore.
Minima materia, dunque, non implica né massima né abituale leggibilità; semmai, nel caso di Crouwel, si tratta del rispetto di una norma strutturale a priori, a cui conformare la meccanica delle forme, in una logica di congruenza, indifferente ai criteri usuali della leggibilità, che non caso reclamano l’uso di alti e bassi, di maiuscole e minuscole. L’universalità “catodica” del new alphabet è, dunque, palesemente contraddetta dal suo scarso rispetto delle forme storiche delle lettere. A quale obiettivo mira Crouwel o, meglio, a quali altri principi si ispira?
È necessario, a questo punto, rivolgersi alla storia delle lettere moderne, per poter rispondere alla domanda, riconoscendo come, in una serie di esperimenti novecenteschi, i temi sia della verifica del limite di riconoscibilità delle lettere, che della tensione verso un monoalfabeto non siano affatto nuovi – e perciò collocare il new alphabet di Crouwel lungo questa linea di continuità, a costituire una sorta di tappa pressocché finale, pel successivo infrangersi e assieme radicale innovarsi del disegno dei tipi nella procella digitale in cui siamo oggi immersi.
Esempi di tentativi di riduzione alla minima forma utile attraversano tutta la storia dei tipi del novecento, come dimostrano i casi esemplari tanto del semiomissivo Bifur (1929) di A.M. Cassandre, quanto (a distanza di quarant’anni, a dimostrazione del perdurare del problema) del logografico Stop (1970) di Aldo Novarese, ambedue fondati sullo scheletro delle maiuscole, con l’ambizione di individuarne una ultimativa essenza formale.
Ancor più forte, soprattutto in Germania (per la frequenza stessa delle maiuscole nella lingua tedesca), l’ambigua fascinazione a sfondo ideologico verso un monoalfabeto di minuscole, come si legge in un testo di Laszlo Moholy–Nagy su Il Bauhaus e la tipografia del 1925: “Già Jakob Grimm aveva scritto tutti i sostantivi con l’iniziale minuscola […] Il celebre architetto Loos argomenta nella raccolta dei suoi saggi: ‘Per i tedeschi, c’è una grande frattura fra lingua scritta e parlata. Parlando, non si possono usare le iniziali maiuscole. Ognuno parla, senza pensare alle iniziali maiuscole. Ma se un tedesco prende la penna in mano, non può più scrivere come pensa e come parla’. Anche il poeta Stefan George e il suo circolo hanno posto alla base delle loro pubblicazioni il monoalfabeto. Se a questo fatto si può obiettare che si tratta di una licenza poetica, possiamo aggiungere che a favore della monoalfabeto prese posizione nel 1920, in uno col libro Sprache und Schrift del dottor Porstmann, anche la sobria associazione degli ingegneri tedeschi, la quale motivò il suo atteggiamento sostenendo che l’uso delle iniziali minuscole non toglierebbe nulla alla nostra scrittura, ma la renderebbe più leggibile, più facile da apprendersi e sostanzialmente più economica: è inutile usare per uno stesso suono una quantità doppia di segni, quando basta la metà. Queste semplificazioni hanno conseguenze pratiche nella costruzione delle macchine per scrivere e per comporre, e implicano un risparmio di caratteri e di passaggi […] Il Bauhaus ha approfondito tutti i problemi concernenti la tipografia e ha riconosciuto giuste le argomentazioni addotte a favore del monoalfabeto”.
Queste tesi attraversano, aldilà del Bauhaus, la cultura tedesca di tutto il novecento (a lungo, la cultura visuale egemone in Europa), come dimostreranno gli assunti di Otl Aicher nel suo celebre volume typographie ancora nel 1988, ad esempio. Nel frattempo, si assiste a un fiorire internazionale di esperimenti di disegno di lettere che dai tipi di Herbert Bayer – dall’universal (1925) al bayer (1931) – e dal monoalfabeto (1926–29) di Jan Tschichold, passano attraverso le richieste di Laszlo Moholy–Nagy e le prove di Joost Schmidt e di Josef Albers al Bauhaus, le minuscole sperimentali di Paul Renner per la versione preliminare dell’epocale sans serif Futura (1927–30), elaborazioni miste come quelle del systemschrift (1927) di Kurt Schwitters o del peculiare Peignot (1937) di A.M. Cassandre, per giungere a saggi ancora acerbi (1944) in Max Bill, al mixage del primo monoalphabet (1945, basato sul Futura) e del successivo alphabet26 (1950, basato sul Baskerville) di Bradbury Thompson, fino al tentativo emblematico nei primi anni sessanta, ancora di Max Bill, di un “carattere di parole–immagini”, che sia “leggibile con l’aiuto di macchine, per l’enfasi sulle vocali, e più leggibile per la gente: un carattere del nostro tempo”.
Nello spazio di questa nota introduttiva, non è possibile confrontare e documentare analiticamente la vasta congerie di queste ed altre sperimentazioni dello stesso filone, per cui si è forzatamente obbligati a limitarsi a una elencazione esemplare, sulla strada di una filologia necessaria ad ogni operazione di lettura storica che non voglia ridursi ad acritica descrizione del proprio soggetto – e su questa strada, lungo è il percorso ancora da tracciare, se non altro nella poverissima letteratura specialistica del nostro paese, tutt’altro che privo di prove di rilievo nel campo del disegno di alfabeti nel novecento ma pressocché immemore di ciò, per la assoluta carenza di studi quanto, tuttora, di interessi scientifici e non dilettantesco–estemporanei per la materia.
Tornando al nostro soggetto, il caso del new alphabet è da confrontarsi e collegare con un’altra tradizione, che per certo era presente a Crouwel nel momento in cui si accingeva a riflettere sulle forme del suo alfabeto: quella indigena, autoctona, olandese, del disegno di lettere, che innerva profondamente le ricerche più radicali del novecento, fino a fare del paese la terra promessa della tipografia contemporanea, se non altro per la straordinaria quanto poco rilevata concentrazione di type designers che oggi vi lavorano.
L’Olanda ha una grande tradizione storica nell’arte della stampa e del disegno dei caratteri, notamente nel cinque–seicento: a partire, cioè, tanto dall’oriundo francese Christopher Plantin (1514–89), che si avvale dei tipi di Guillaume Le Bé, Claude Garamond e Robert Granjon, e dalla stirpe apparentata dei Moretus (attivi fino al 1876) nella cattolica Anversa, quanto dall’altra eminente dinastia degli Elzevir nella riformata Leiden, che nel “secolo d’oro” olandese ha in Christoffel van Dijck (1601–69) il proprio principale disegnatore di caratteri e punzoni (in uso ininterrottamente fino al 1810), a cui si affianca l’opera di altri punzonisti quali Bartholomeus Voskens († 1669) e Nicholas Kis (1650–1702) ad Amsterdam.
La tradizione classica delle “lettere olandesi” si rinnova nella prima parte del novecento, con figure di rilievo, per quanto poco note internazionalmente, quali De Roos e Van Krimpen. Sjoerd Hendrik de Roos (1877–1962), direttore artistico della fonderia Lettergieterij Amsterdam per trent’anni, è l’autore di tipi dal riconoscibile segno come lo Hollandse Mediäval (1912), l’Erasmus Mediäval (1923), l’Egmont (1933), il De Roos (1947) ma anche di due monoalfabeti unciali, quali il Libra (1938) e il bastoncino Simplex (1939); il suo allievo principale, Dick Doojes, disegna, tra l’altro, un carattere ispirato ai sans serif ottocenteschi, quale il Mercator (1957–61), presentato al pubblico specializzato da uno specimen curato graficamente proprio da Crouwel. Jan van Krimpen (1892–1958), dai primi anni venti fino alla sua scomparsa lavora per la fonderia Enschedé en Zonen di Haarlem come designer–capo, ideando, tra l’altro, tipi austeri e severi quali il Lutetia (1925), il Romanée (1928), il Romulus (1931), il Van Dijck (1934) e lo Spectrum (1952). Tra i suoi allievi si contano figure quali Sem Hartz (successore di Van Krimpen alla Enschedé en Zonen e autore, tra l’altro, del carattere Juliana nel 1958), Chris Brand e Bram de Does (autore, tra l’altro, del triplice Trinité negli anni settanta).
Nella seconda metà del novecento, non si può dimenticare la figura di Gerrit Noordzij, docente di rilievo alla Kabk, l’accademia reale di belle arti di Den Haag, teorico della tipografia (si veda, ad esempio, il suo The Stroke of the Pen, Kabk, Den Haag 1982), nonché disegnatore di tipi come il Remer; alla sua influenza si deve il formarsi di una squadra di designers attivi a Den Haag, quali Just van Rossum e Erik van Blokland, autori del notissimo Beowolf (1990), Petr van Blokland, Peter Verheul o Peter Matthias Nordzij, figlio di Gerrit. Altra figura d’eccellenza della seconda metà del novecento è Gerard Unger, collaboratore prima di Crouwel, poi della Enschedé en Zonen e infine designer free–lance di caratteri quali la famiglia Demos (1976), Praxis (1977) e Flora (1980) o lo Swift (1985) ma anche del lettering segnaletico per l’Amsterdam Metro e per il Giubileo 2000 di Roma. All’accademia di belle arti di Arnhem – città d’origine di Unger –, ove hanno insegnato grafici editoriale del calibro di Jan Vermeulen e Karel Martens, si è formato un altro gruppo notevole di progettisti olandesi di tipi, quali Evert Bloemsma, Martin Majoor e Fred Smeeijers.
A fianco di questa densa corrente di disegnatori di tipi d’ispirazione classica (nel senso di una professionalità specifica, maturata ed esperita sul campo), in Olanda, però, si è sviluppata anche una ricerca d’avanguardia nel campo dei caratteri, violentemente moderna e riduttiva, che (tra anni dieci e anni venti) ha avuto i suoi protagonisti principali in due membri del movimento neoplastico, ambedue alieni da una formazione specifica nel campo delle lettere: Bart van der Leck, che ricorre per tutta la carriera a un tipo di sua invenzione (1917 circa) completamente disarticolato nei giunti; Theo van Doesburg, vero leader di “De Stijl”, che elabora un carattere rigidamente geometrico (1919 circa), un monoalfabeto maiuscolo di “matematici accenti esatti” e di duratura influenza nei circoli del moderno, a cominciare dal Bauhaus, ove Van Doesburg tenterà di insegnare, limitandosi a svolgere un corso esterno (1921–22) di profonda impronta nella scuola tedesca, e dall’opera del grafico svizzero Theo Ballmer, nei secondi anni venti.
In realtà, bisogna riconoscere che l’influenza olandese sul pensiero progettuale tedesco non è una novità: dal 1904, infatti, il lavoro di un protagonista assoluto delle arti del novecento in Germania quale Peter Behrens (disegnatore egli stesso di importanti tipi nel primo decennio del secolo), che dall’anno precedente dirige la scuola d’arti e mestieri di Düsseldorf, è segnato fortemente dalle ricerche compositive dell’architetto–teosofo olandese J.L.M. Lauweriks, da lui chiamato a insegnare nella scuola di Düsseldorf (dopo aver sperato di poter avere H.P. Berlage). Vera figura–chiave per le ricerche geometriche fondate sul concetto di griglia modulare e di iterazione elementare, di una metodica delle proporzioni nello “spirito del tempo” e di una estetica sistematica, da applicarsi nell’architettura, nelle arti applicate e nella decorazione, fin dai primi anni dieci del novecento Lauweriks disegna, tra l’altro, un alfabeto geometrico da cui discendono, direttamente o indirettamente, tutti gli esperimenti di radicale elementarizzazione delle lettere del novecento. La sua didattica si basa, del resto, su manuali di disegno elaborati dall’amico e sodale Jan Hesselt de Groot fin dal 1896, in uso nelle scuole olandesi per decenni, ripresi successivamente da altri didatti, quale XXX: su quest’ultimo, non a caso, studierà la sua grammatica delle forme proprio il nostro Crouwel (che ancora lo conserva gelosamente nella sua biblioteca personale), negli anni di formazione a Groningen.
Si potrebbe credere di chiudere così un cerchio dipanantesi lungo tutto l’arco del novecento, che costituisce il contesto storico proprio del new alphabet di cui ci siamo occupati in questa nota introduttiva. Nuove direzioni di indagine potrebbero essere suggerite, tuttavia, dalla lettura del testo di Crouwel relativo alla tradizione delle minuscole in Olanda (Lower–case in the Dutch Lowlands, in “Octavo”, 1988, 5, pp. 6–13) o della conferenza tenuta a Den Haag nel 1996, in larga parte centrata sulla storia del new alphabet (Regarder, apprendre, savoir… douter, in “Étapes graphiques”, 1996, dicembre, pp. 33–38, tradotta qui in appendice); non senza che, in conclusione, si imponga di tornare a meditare sulle interrotte riflessioni di Roland Barthes circa la natura intima della lettera in Variations sur l’écriture: “La lettera è precisamente ciò che non rassomiglia a nulla: la sua natura stessa è quella di sfuggire inesorabilmente ad ogni rassomiglianza: l’assoluto intento della lettera è contro–analogico. Certo si tratta di un’affermazione al limite, poiché tutto finisce per avere similitudine con qualche cosa (e ciò che non assomiglia a niente finisce per avere somiglianza con una lettera); occorre dunque pensare che la lettera non si è ‘svincolata’ dal pittogramma, ma che piuttosto ad esso si è opposta”.

[Elementare, Crouwel… in abecedario la grafica del novecento, Electa, Milano 2002, apparato iconografico a cura di Pierpaolo Vetta]
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