9.7.04

[1999#08] matthew carter

«Potrà comprendere appieno l’arte solo chi non le imporrà una finalità estetica né simbolica, perché essa è assai più che un oggetto di eccitazione estetica e, più che illustrazione, è linguaggio al servizio della conoscenza»
Konrad Fiedler, Aphorismen, 36

Il non flere non indignari sed intelligere, proclamato e reclamato da Baruch Spinoza, nel grandioso corso del secentesco Gouden Eeuw (il Siglo de Oro neerlandese), ben esprime la hybris razional-astratta che è diuturno portato dell’esprit de géométrie impiantato da Renato Cartesio nei fertili terreni filosofico-pratici dei Paesi Bassi, sua seconda e vera patria; a buon diritto, il motto spinoziano potrebbe trovar posto in esergo a un immaginario medaglione accademico di Matthew Carter. A merito del grande designer va, infatti, ascritta in primis una elasto-plastica intelligenza progettuale, ossia la capacità di adottare (mettendoli a selettiva prova) strumenti e tecnologie forgiati dal rincorrersi incessante dell’evoluzione produttiva moderna, senza tema alcuna né inutili nostalgie, tanto quanto di adattarli alle assidue necessità di espressione prestazionale e di conformazione comunicazionale, proprie di ogni artefatto umano che non sia né banalmente cosmetico né futilmente modajolo, bensì meta ed esito di una razionale etica del lavoro progettuale. Restando nei medesimi dipressi filosofici, all’ultra-quarantennale carriera di disegnatore di caratteri di Matthew Carter si potrebbe dunque appropriatamente attribuire anche il titolo imprestito di ethica more geometrico.
Classe 1937, nato nel Regno Unito di Sua Graziosa Maestà Britannica, in un certo senso figlio d’arte, perciò forse predestinato dalla sorte stessa d’avere un padre quale il suo (Harry Carter, noto storico dell’arte dei punzoni e dei plumbei secolari tipi da stampa, nonché archivista presso la degnissima Oxford University Press), il nostro Matthew inizia il suo apprendistato professionale -vedicaso- in Olanda, non ancor ventenne e fresco di scuola superiore, con vaghi piani universitari (Oxford, of course). L’internato di un anno presso la scuola severa della veneranda officina tipo-editoriale Enschedé, ove impara l’arte d’incider punzoni con PH Rädisch, assistente di Jan van Krimpen, dev’esser stata per Matthew Carter esperienza di intensa folgorazione, come dire?, sulla via di Haarlem, a giudicare dagli esiti successivi. Infatti, superati di lì a breve gli esami d’ammissione all’esclusivissimo ateneo oxfordiense, il nostro ne rifiuta l’accademismo conservatore e un po’ stantio («English at Oxford was all Beowulf, -ricorda Matthew Carter, al proposito, in un’intervista del 1996- nothing modern») per intraprendere una straordinaria carriera nelle arti della stampa, supportato con sua sorpresa dal tipofilo padre. Troppo lungo sarebbe qui rintracciarne analiticamente e puntualmente la vicenda, come merita e ancor non s’è forse fatto appieno. Basti sapere che per sei anni, dopo l’esperienza olandese, Matthew Carter lavora come Freelance Type & Lettering Designer a Londra (del 1961 il suo Dante semi-bold, che esegue sotto la direzione di John Dreyfus e Giovanni Mardersteig), per diventare nel 1963 consulente della Crosfield Electronics (distributore inglese della primeva Photon/Lumitype: MC entra così in contatto con la parigina Deberny et Peignot e il direttore artistico della medesima, il venerabile Adrian Frutiger), affrontando per tempo il passaggio dai punzoni per il piombo alle maschere ottiche e ai successivi pixellaggi per la prima fotocompositrice industriale. Nel 1965, Matthew Carter si trasferisce nel Nuovo Mondo: lavora a New York per la Mergenthaler-Linotype, ove incontra Mike Parker e Cherie Cone, disegnando i caratteri Snell Roundhand (figlio legittimo delle possibilità nuove di legature della fotocomposizione) e Helvetica Compressed, oltre a vari altri tipi, ad esempio greci e coreani. Sei anni dopo (che i suoi bioritmi siano esannuali?), Matthew Carter torna a Londra, mantenendo stretti legami con la Linotype; è la volta dei tipi Galliard (un redesign delle secentesche forme di Robert Granjon, espressivo di uno spirito eminentemente carteriano, nella ricezione comune, eseguito in collaborazione con Mike Parker, futuro sodale anche nella Bitstream), Bell Centennial (un classico caso-studio di “problem solving”, completato nell’anno del centenario della gigantica Bell Telephone Company), Shelley Script e di molti altri, ebraici, greci, devanagari… Dal 1980 al 1984, Matthew Carter è chiamato anche alla alta responsabilità di Typographical Adviser to Her Majesty’s Stationery Office, la stamperia di stato britannica (com’è brutalmente distante la situazione del nostro paese da tutto ciò, ancora…) ed è nominato nel 1982 -grande onore- Royal Designer for Industry dalla compassatissima Royal Society of Arts. Nel concerto di questi eventi, si risveglia in Matthew Carter una inedita vis imprenditoriale; nel 1981 è tra i quattro fondatori della Bitstream (omen nomen) Inc., una delle primissime -se non proprio la prima delle- “fonderie digitali indipendenti” al mondo, con sede a Cambridge (quella in Massachusetts, Usa, non quella omonima e originaria, in Uk): nuovi strumenti di forgia vettoriali, nuovi tipi da disegnare in PostScript, per primo il Charter (ideato per la bassa risoluzione delle prime stampanti laser, epperciò parente stretto del Lucida del duo Charles Bigelow & Kris Holmes e dello Stone Sans di Sumner Stone). Una decina d’anni dopo, Matthew Carter e Cherie Cone -due dei partner fondatori della Bitstream Inc., in difficoltà per ragioni varie, non ultima di avere un catalogo di oltre 1000 caratteri, in massima parte di pubblico dominio, dati in licenza a circa 300 produttori- avviano una nuova impresa, la Carter & Cone Type Inc., ibidem. È il periodo ultimo (in senso cronologico, ça va sans dire), di caratteri crudelmente raffinati e sensibilmente interpreti della storia delle scritture (naturali e artificiali), sperimentalmente fusivi e provocatoriamente radicali, quali Alisal, Big Caslon, Elephant, Mantinia («I think he [Andrea Mantegna] is the best letterer of any painter»), Miller, Sophia (bizantinamente ibrido e densamente cupo), il geniale Walker (uno dei pochi in vera sintonia con i nostri tempi, un inedito “bastoncino poli-graziabile” da tastiera, per il trainante Walker Art Center di Minneapolis, Usa). La Carter & Cone Type Inc. ha anche pragmaticamente sviluppato su commissione tipi per Apple, «Sports Illustrated», «Time», «Us News & World Report», «Wired»; da notarsi, i loro caratteri per il www dell’internet, cioè degli autentici “tipi da schermo” (compatibili con dei normali requisiti di hardcopy), commessi dal gigante Microsoft: Georgia e Verdana -provare per credere, si installano free con Internet Explorer!
Conclusione provvisoria, meditabonda e augurale. Non prima di una finale citazione di Matthew Carter: «[disegnare] un carattere è sempre una sorta di lotta tra la natura alfabetica della forma delle lettere, la Aità delle A, e il desiderio di metterci qualcosa di tuo; è un conflitto tra la rappresentazione di qualcosa (non puoi prenderti libertà smodate nel disegno delle lettere) e la tensione di ritrovarvici un ette di te stesso». Ars longa, vita brevis, parrebbe avvisarci l’attività perdurante dell’uomo di caratteri Matthew Carter, oggi acuto Senior Critic (due per tutte, delle sue osservazioni recenti, riportate dal bravo J Abbott Miller: «movable type is now mutable type» e «technology changes faster than design») presso la Yale’s Graphic Design Faculty, a monito di chi voglia intraprendere (con studio, applicazione e passione) l’arte sublime e sottilissima dei punzoni attuali, ovverossia il disegno dei caratteri digitali. Arte ingrata, ancor per poco si vorrebbe, nel Bel Paese che vide attivo tempo addietro un certo Francesco Griffo (manigoldo sembra, quanto geniale punzonista del soave umanista-imprenditore Aldo Manuzio, tanto per rammemorarne due almeno, de’ nostri, ché la lista sarebbe lunga assai) ed è oggi nuovamente ostello di una sparuta, incerta ma (assicuro e testimonio di persona) agguerrita - più di quanto non s’immagini essa stessa - truppa di letteristi novissimi. Lunga vita a quest’arte antica, ergo, in cui fummo eccellentissimi: fervidi intensi auspici (spero condivisi) di progettuali patrii ricorsi, in una visione della storia che per l’umillimo scrivente non conosce ripetizioni, strictu sensu, ma consente dei ritorni, forse.

[Matthew Carter, uomo di caratteri, in “Notizie Aiap” (Milano), 2000, 10, giugno, pp. 41-42; idem, in “Casabella” (Milano), 2001, 690, giugno, pp. 76-83]

8.7.04

[1999#07] bruno monguzzi


I molti modesti ideologi salottieri del nostro ultimo piccolo novecento; i critici incapaci di metter in crisi i propri strumenti d’indagine e di forgiarne di nuovi, caparbiamente, rischiosamente, galileianamente, di fronte all’evidenza fattuale e al riverbero veridico delle “cose” in campo; gli storici che ripercorrono solo agevoli sentieri ben battuti (mostrandosi “as happy as a monkey can be”, direbbe un celebre ironista chansonnier), pervicacemente abbarbicati a compartimentazioni stagne d’indagine, spacciate per specialismi, che riducono la cultura (in sé, una e olistica) a segmenti e lacerti fra loro necessarimente muti; i progettisti adusi a un professionismo indigente di idee e didassi, biecamente arrabattantisi a star dietro ai ghiribizzi delle mode e alle lusinghe del successo, invece di chiedersi il senso del loro fare e la “ragion etica” dei loro prodotti; tutti questi e noi tutti, appropriatamente siamo avvertiti da Mario Tronti, nel suo più recente libro, sul senso del nostro tempo: «Diciamo con onestà ciò che è: è un’età di Restaurazione. Ma senza Romanticismo. Anzi, sostanzialmente, neoclassica. Un neoclassicismo impudicamente avveniristico». In simile squallore, ancor più che ieri bisogna - parrebbe - tentare quanto Spinoza suggeriva come condotta filosofica: “nec flere, nec indignari, sed intelligere”. La pubblicazione di cui siamo onorati di occuparci in questa sede, eloquente e problematica sin dalla copertina, ci mette di fronte a un interrogativo cogente, a una domanda pressante, a un problema irrisolto. Quale ne è il soggetto, il tema, il contenuto ultimo, la questione che, come ogni buon libro, pone alla nostra attenzione e intelligenza, visto che sostanzialmente ci sottopone un articolata rassegna di “oggetti grafici”? In altre e più dirette parole: cosa è, meglio: cosa significa “arte”, al crepuscolo stanco di un secolo sanguigno quanto sanguinario, instabile e fecondo quant’altri mai?
La storia dell’arte del novecento in buona parte si svolge, giusta un’interpretazione condivisa, all’insegna della crisi della rappresentazione classica, in un accidentato percorso di scabrosa riflessione sui propri mezzi e fini, che non di rado è divenuta autodafé. Stando a tale ipotesi, l’arte del novecento esprime surtout un “negativo”: l’annichilimento delle forme, la distruzione della raffigurazione, la deflagrazione inesausta dell’universo iconico tradizionale, alla ricerca della sussistenza, in un improbabile status di autonomia. Fotografia, cinema, riproducibilità meccanica delle imagerie paiono esser stati gli ingredienti tecnici collaboranti a tale processo di “elaborazione”: una “analisi del profondo” - impiantatasi (sia chiaro) in un terreno artistico-culturale già assai instabile -, che si dilata fino all’oggi, con esiti variabili e lungo strade non tutte confrontabili, fatto salvo che il rischio tragico delle avanguardie artistiche d’inizio secolo si è stemperato troppo spesso nella facile vena di molti sperimentalismi successivi. Inutile dire che uno dei versanti più rigorosi di questa ricerca, quello astrattista, ben presto giunse a conclusioni estreme: bianco su bianco, nero su nero, afasia ultima del rappresentabile e rarefazione iper-sublimata dei mezzi di rappresentazione. Per distrazione sintomatica (lapsus mentis?), gli storici dell’arte sembrano non voler riconoscere (se non impropriamente e di sbiego, cioè per i pochi sparsi “artisti accademici” sopravvissuti) che, nel novecento, si è svolta anche un’altra ricerca, parallela, potentemente “positiva”, soprattutto anzi sostanzialmente da parte di chi ha continuato a saggiare forme, limiti e convenzioni della rappresentazione (senza negarla né evaderne), della comunicazione visiva, dell’architettura dell’informazione figural-testuale. Epigone di ciò: le varie arti villanamente definite “minori”, che poco hanno di minore, anzi, segnate dall’asciutta sachlichkeit del misurarsi (del doversi misurare) con le esigenze/pretese dei committenti, le attese/abitudini dei destinatari e i requisiti/limiti del mercato, cioè con la forma di “civilizzazione” che pare essersi imposta (malgré tout, malgré tous) al mondo, guasi verdadera verdad - ierofanìa o transustanziazione dell’epochè affaristico-millennaristica attuale? Nel riscrivere - perché di ciò si tratterebbe, e sarebbe ora - una storia delle arti del novecento (se preferite: degli artefatti comunicativi o, forse, visuali, per non parlar qui degli artefatti cinetici o utilitari - comunque, tutti protetico/comunicativo-prestazionali), si riconoscerebbe finalmente il merito che compete a figure straordinarie quali, ad libitum: Bayer, Boggeri, Burchartz, Caniff, Cassandre, Dudovich, Dwiggins, Erté, Frutiger, Goudy, Hergé, Jacovitti, McCay, Novarese, Renner, Rockwell, Stankowsky, Steinberg, Steiner, Tschichold, Zapf…
Queste alcune, inter alia - va da sé -, delle riflessioni (al di là della piacevole ed istruttiva lettura degli utili testi, a prescindere dalla raffinatissima mise-en-page di un non comune repertorio di artefatti visuali, oltre l’esser autentica rara avis di “qualità editoriale globale”) che può suscitare, in lettori non distratti né superficiali, il bel volume intitolato Bruno Monguzzi A Designer’s Perspective di Franc Nunoo-Quarcoo, edito nella serie Issues in Cultural Theory - sia detto en passant, francamente imbarazzante, per un europeo, questa fame ultima di teoria, fortemente yankee, dopo secoli di feroce pragmatismo - dalla Fine Arts Gallery della University of Maryland della Baltimore County, quale catalogo di una mostra sul nostro designer. V’è dell’altro da dire, in estrema sintesi, tuttavia, senza con ciò pretendere d’essere esaustivi né conclusivi con questa pubblicazione. A mio avviso, Monguzzi rientra a pieno titolo nella parzialissima, partigiana elencatio di cui sopra di protagonisti inter pares delle arti del novecento. Non a caso, perché è un allievo, tra gli ultimi but not least, di un geniale protagonista della cultura italiana di metà secolo: Antonio Boggeri, di cui ancor poco s’è scritto e che, invece, ben altra trattazione reclamerebbe. Con acume, in un breve ma parlante testo di un paio d’anni fa, saporosamente intitolato La mosca e la ragnatela, ovverossia l’Italia e la Svizzera, Monguzzi ricordava serenamente e onestamente questo suo debito (d’esser stato discepolo di Boggeri) e assieme grande merito (d’averne assorbito e ripreso la lezione), lasciando irrisolto, ché altrimenti non sarebbe possibile, il problema della propria personale identità: “che da allora sono andato cercando nel mio lavoro [corsivi nostri]. Identità, forse connaturale e connaturata a questo piccolo triangolo di terra elvetica insinuata in terra lombarda, dove la gente è troppo italiana per essere svizzera, ma troppo svizzera per essere italiana”.

[Bruno Monguzzi, in “notes” (Mendrisio), 3, pp. 9-10 e 37-39, partim]

7.7.04

[1999#06] tapiro


Le Tapis roulant
(il Tapiro rullante)
“Il tapiro non è un parente affatto del maial
ma un animale diciam ‘binario’ (enricogigi), fetente
bianco-nera villosa esotica bestia original,
timida e silvana, che discende invero dal lionfante”.
quartina di versi extemporanei in rima baciata (abab)
di Anonimo Labronico, in Rime Sparse

In itinere. Nodi al fazzoletto della memoria di eventi recenti. Breviter, per appunti lampeggianti e frammentati. In un certo senso, novissimi clerici vagantes, eco di pellegrinaggi antichi, dal Gargano alla Galizia: nella Guida del pellegrino di Sant’Jacopo di Compostella, Bernardo il Vecchio mirabilis magister et dominus. Appunti, album, taccuino secreto, segreti delle arti, maçons, consorterie, logge, gilde e sodalità: un ritratto di gruppo, quasi quasi. Livre de portraiture di “De Honnecourt, cil qui fut en Hongrie”: “Wilars de Honecort vos salue et si proie a tos ceus qui de ces engiens ouverront, c’on trovera en cest livre, qu’il proient por s’arme et qu’il lor soviengne de lui, car en cest livre puet on trover grant consel de la grant force de maçonerie et des engiens de carpenterie, et si troverés le force de la portraiture, les trais, ensi come li ars de jometrie le commande et ensaigne” (Villard de Honnecourt vi saluta e chiede, a tutti coloro che operano nelle diverse attività illustrate in questo taccuino, di pregare per la sua anima e di ricordarsi di lui, perché qui possono trovare un grande aiuto per imparare i principi del costruire in muratura e in carpenteria, il metodo per eseguire ritratti e disegni come la geometria reclama e insegna). Si parva licet.
Immaginare una mostra (all’origine, una e trina: ubi majores, s’è sdoppiata, tertium non datur), ideare un itinerario, tracciare un percorso, fare il punto, navigare a vista, bordeggiare, carteggiare con sestante e compasso: progetto di problemi comunicabili, cantiere di un lavoro produttivo (architetto : cantiere = sarto : laboratorio) - meccanica dell’arte, lavoro concreto vs narcisismi trendismi egotismi; rigore dimostrativo, passione dialettica: non mostrare se stessi, di-mostrare la questione: il come e, soprattutto, il perché. Mostra come itinerario, itinerare, procedere, processo, processualità, procedimento. Il percorso istruisce la mostra; si spera, utile e dilettevole. Sulle orme di un lavoro ventennale, che serve da apparato argomentativo, (auto)riflessivo, critico; se non azzerare, attenuare la vanità, qb; smembrare, smontare, analizzare per ritrovare il filo d’Arianna. Esibire le interiora: gente che lavora, le cose materiali che lo compongono, le quotidianità urgenti e affannate, il farsi nel suo sbocciare contraddittorio, i tracciati delle idee, i metodi che ogni volta si avvolgono ai bisogni alle richieste alle esigenze. Esibire, esporre: ex-ponere, porsi fuori, sporgersi da sé, arrischiarsi all’esterno, rischiare l’esposizione, esporsi con le proprie convinzioni, mettersi in discussione nel gioco delle idee. Perciò anche un Work In Progress, che mi rammenta sempre The Rake’s Progress. Musica del’occhio progettante.
A un certo punto, si decide di iniziare. Ergo: interrogarsi; domande, poi si vede. Così è stato. Et voilà, nella loro formulazione originale, 13 domande, talune biforcate (alcune biforcute) e insomma analoghe o anche multiple [per la complessità intrinseca della materia e delle questioni], per (il / i) Tapiro(i). [Q-domande (tutte) S-suggerimenti (esempi, per capirsi) A-risposte (nessuna, per ora; tutte, dopo le Vs] che titolerei, ove fossero da titolare: (il) Tapiro risponde oppure A domanda, Tapiro risponde. Eccovi sùbito 5 domande cinque e cominciamo, per scaldarci, con le classiche 5 by W.
Q-1 . che cos’è, in sintesi e sostanza, la |grafica|?
S-1 . è più facile dire che cosa non è la grafica, delimitarla preventivamente e precauzionalmente in negativo, per sottrazione di ambiguità, imho (in my humble opinion) - causa, selon moi: l’assenza di uno status riconosciuto socialmente e di una diffusa condivisa cultura visiva nel ns paese, certamente non di una teorizzazione potente, che non manca affatto (per carità, lasciamo perdere i “manifesti” e le nostalgie dei proclami ingenui per le “culture del progetto”: non è più tempo d’avanguardie - né di chiari di luna, diceva FTM -, morte nella prima metà del novecento, ben già prima dell’eclisse della politica!)
Q-2 . chi [può] fa[re] [pratica(re) / esercita(re) / professa(re)] il (mestiere di / la professione di / l’arte del] |grafico|?
S-2 . tutti e nessuno, come diceva il grande siciliano?
Q-3 . quando si [scopre di voler / decide di - altrimenti in forma personale e diretta, ossia: hai scoperto (sogg. duale: Tapiro) di voler, deciso di] fare il |grafico|?
S-3 . sulla via di Damasco, come Paolo di Tarso, o sui banchi di una scuola [di vita, di lavoro] [duri ai banchi, come i remiganti]?
Q-4 . come si [impara / apprende] la |grafica|?
S-4 . come si smette un vizio? forse nello stesso modo in cui si dovrebbe disimparare ciclicamente [continuamente?] l’arte, per:
a . riapprenderla, sicut virgo castissima;
b . metterla [mettila] da parte [sèguito di: impara l’arte, e]?
Q-5 . perché si fa la |grafica|?
S-5 . vexatissima quaestio; al fondo, etica, spinoziana, come per ogni questione di design vero, cioè di progettazione.
Passiamo adesso a quelle sfuse, per arrivare a concludere (come previsto) ad uno dei primi [nel duplice senso dei numeri primi, anche] significativi scaramantici termini (13) della serie illustre del Fibonacci (1 2 3 5 8 13 etc), tendendo così al rapporto aureo…
Q-6 . l’idea e la materia (intesi come analoghi della mente e del corpo) quale reciproca importanza relativa hanno nella |grafica|?
S-6 . mens sana in corpore sano, dicevano i ns padri.
Q-7 . il |grafico| è autore o esecutore, poeta o ingegnere, problem thinker o problem solver?
S-7 . vel… vel! instead of: aut… aut.
Q-8 . il mondo della |grafica| è come la Wonderland allo specchio di Alice o come lo specchio della regina di SnowWhite And the Seven Dwarfs?
S-8 . perché lo specchio inverte la dx con la sx e non l’alto col basso?
Q-9 . la grafica è comunicazione?
S-9 . cos’è la comunicazione o, meglio, cosa NON è comunicazione?
Q-10 . se la |grafica| è comunicazione, è possibile non comunicare?
S-1O . si può portare a contraddittorio la scuola di Palo Alto?
Q-11 . la |grafica| è un’arte [ars quale tekné dell’augere autoriale] o una pratica [praxis]?
S-11 . che sia un’arte pratica & [vel] una pratica artistica?
Q-12 . se la |grafica| è un’arte, una volta appresa, bisogna metterla da parte?
S-12 . che l’arte, talora, anche si rapprenda?
Q-13 . con la |grafica| si arricchisce l’anima o la borsa?
S-13 . Homo sine pecunia, imago mortis - Sant’Agostino.
Nb: il convenzionamento delle note diacritiche, intertestuali ed esegetiche è una parafrasi delle notazioni “scientifiche” (para- / peri-) linguistiche.
Se non vi siete già stufate/i (e ne avreste ben donde) gentili Lettrici e Lettori, Vi chiederete, forse, com’è andata a finire. Così: che è stato di non poca (altrimenti non poteva essere) fatica impegno concentrazione tentare di rispondere anche solo alla prima domanda, che riassume e fonda tutte le altre. Didascalico al proposito il comunicato stampa. Eccolo. Repetita juvant.
“Per schivare il rischio di ridurre l’occasione espositiva a una rassegna antologica o, peggio, a mera celebrazione di una carriera duale, gli organizzatori [sta per: chi ha pensato la mostra - ndr] hanno voluto programmaticamente affrontare un rischioso tentativo di proporre - attraverso la concretezza della propria esperienza e dei propri lavori - una provvisoria definizione militante di campo, così come una parziale ricognizione dei problemi e dei temi di una professione ancora misconosciuta, fin troppo spesso confusa con la pubblicità o con la bella confezione visiva, almeno in Italia. Annunciato da un significativo disegno di Eric R Gill (la mano che guarda, quasi a simbolo della mostra), il percorso espositivo si snoda attraverso una serie di ambienti e di episodi che corrispondono tematicamente ad altrettanti nodi di un personale itinerario critico sulla situazione attuale della progettazione visuale. Dalla incerta natura stessa della grafica alla sua complessità come lavoro concreto nella materialità quotidiana di un studio a struttura leggera, dal confronto con le cangianti esigenze di un committente d’eccezione quale la Biennale di Venezia al rapporto con una città unica e ammaliante, dagli ambiti plurimi dell’arte della stampa alle esperienze dell’architettura dell’informazione fino a una sorta di wunderkammer finale: questo in sintesi il tapis roulant che intende muovere l’interesse e la curiosità del pubblico, dei professionisti e degli operatori del settore, dalla parte dell’occhio progettante”. Dell’arte, de artibus, si potrebbe concludere, sempre ad lib e provvisoriamente - “ars longa, vita brevis”, che il compito ci sovrasta ognuno. “Potrà comprendere appieno l’arte solo chi non le imporrà una finalità estetica né simbolica, - scriveva infatti, molto tempo fa ormai, Konrad Fiedler in Aphorismen, 36 - perché essa è assai più che un oggetto di eccitazione estetica e, più che illustrazione, è linguaggio al servizio della conoscenza”.
Vs umilissimo servitore, Sergio Polano

[Le Tapis roulant (il Tapiro rullante), nel catalogo della mostra Tapiro Il cantiere dell’occhio, Galleria Bevilacqua La Masa, Venezia, maggio, snp]

6.7.04

[1999#05] 399 words


A Letter to Cesare
My Dear Son, what a hell of day you choosed to work on your PB1400 that you named EscherScript, and now you call Escher55, and so on, in a Univers-like fashion? Don’t you think it’s enough to be in charge as AD of Lanx, your school newsletter?
M Carter appreciated your first efforts (“Escher typeface is splendid”), and E Spiekermann too (“looks great, and i’d love to see more”). Very kind, both of them, and your father is proud of you.
Anyway, here in Typo99 we are, and i have to explain why i entitled our talk The Dutch Type Tradition and the Escher Script Case, in a max of 400 words. Well, T Maldonado told me once: “Complex questions, complex answers, no short cuts” - nice guy, he’s right, i guess. Wait, i’m checkin’; i’ve already used: 138 words, without the headline. Stop cheating. What’s the matter? Your font seems to be a “very consistent extrapolation from Escher’s monogram” - to quote Mr Carter, thank you Matthew! My problem is (you know, your father would like to be like Sherlock Holmes, a clue-tracer): where do they come from, these 3 negative, subtractive, xylographic letters, the “MCE”? Honourable Lords of the Court, i hereby summarize my suspicions, Have Mercy.
The West Coast flower-power-hippy-psychedelia lettering (eg W Wilson for Fillmore) of our mid-Sixties is similar to the lettering of the Wien Secession (eg A Roeller for the XVI Ausstellung, 1903), early XXth Century (no Fox). Am i wrong? Yes. Curved-biomorphic instead of straight-mineral.
More similar to the letters of CEM Kupper (you know him as Theo van Doesburg, ok?) 1919 ca. Am i wrong? Yes.
The idea of a “systematic aesthetic” (modular-proportional, ia), grown in the Netherlands of the 1890s, in people like JH de Groot or JLM Lauweriks, strongly influenced their and the following generation of designers, as well as those in Germany (i’m speaking of P Behrens). In particular, after teaching at the Düsseldorf Kunstgewerbeschule (1904-9), Lauweriks directed the Staatl. Handfertigkeitsseminar (1910-14) in Hagen, where he did his masterworks, including seminal lettering.
That’s the correct genealogy, imho. Or not?
Never trust on the written word or words, my dear son: it’s the technology of lies, by semiotic definition.
Just remember: Aut Caesar, Aut Nullus! Servus. 399 words.

[contributo online al congresso internazionale Typo99 ImageLanguage, Haus der Kulturen der Welt, Berlino, 15-17 aprile]

5.7.04

[1999#04] tipologia


I caratteri della parola visibile
Si tratta di un caso di omonimia: quella del titolo non è la tipologia cara alla trattatistica sette-ottocentesca e al filone notevolissimo di studi architettonici, che ha svolto un ruolo tutt’altro che trascurabile nel panorama teorico anche del quasi concluso nostro secolo. Il nostro “discorso sui tipi” ha, comunque, a che fare con l’etimo greco typos, «che significa, in un senso generale e quindi applicabile a molte gradazioni o varietà della medesima idea -spiega il III tomo (1825) dell’Encyclopédie Méthodique. Architecture del buon Quatremère de Quincy-, modello, matrice, impronta, forma, figura in rilievo o a basso rilievo». Come riconosce l’autorevole autore, il termine «per altro è appropriato anche per alcune arti meccaniche, come prova la parola tipografia». È, in effetti, la tecnologia della «officina gutenberghiana», il materiale medium della plurisecolare produzione editoriale post-amanuense, quella a cui si fa riferimento nel titolo, attirando l’attenzione su una essenziale costituente di progetto e di processo: il disegno dei caratteri “mobili” della scrittura artificiale, il progetto dei “tipi” (seriali e componibili) della letteratura a stampa.

Lettere
È necessario ricordare a mo’ di premessa che i nostri “tipi” son segni che stanno per dei suoni: come tali, derivano dalle lettere delle scritture naturali, dalle chirografie alfabetiche. Si tratta, in altri termini, di sistemi di notazione manuale delle emissioni fonetiche, fondati sulla rappresentazione in particole discrete delle componenti del tessuto sonoro verbale. Sono forme di codificazione della comunicazione, della lingua e dunque del pensiero, radicalmente diversi, in quanto a economia mediale e potenza diffusiva del sapere, rispetto ai sistemi ideografici che li hanno preceduti storicamente, peraltro tuttora in uso in ampie aree geografiche. Le scritture infatti hanno avuto origine, circa ottomila anni fa, quando tratti grafici ripetibili e riconoscibili hanno per la prima volta reificato, isolato, spezzato, informato e reso distinto in pittogrammi (segni questi che raffigurano idee invece che suoni) il continuo auditivo della comunicazione, concettualizzandola in simboli, trasformando radicalmente i caratteri (potentemente conservatori, formulaici, paratattici) della cultura orale -alma mater di ogni forma di comunicazione umana. Solo assai più tardi, attraverso un lungo processo genealogico, il tessuto sonoro della lingua si è rappreso in lettere, in segni di suoni, distraendosi dall’originaria immagine figurale di cose/idee rappresentabili, per farsi codice più facilmente condivisibile. L’invenzione straordinaria -se così si può definire- delle vocali, la loro trascrizione in lettere è frutto del mondo ellenico, di pochi secoli anteriore all’era cristiana, esito di una atomistica percezione della struttura fonetica della comunicazione orale. La conseguente estrema riduzione dei segni alfabetici (inferiori ai trenta) operata dai greci meno di tremila anni fa, rispetto agli assai più complessi sistemi sillabici medio-orientali anteriori, ha resa finalmente appieno visibile -in modo straordinariamente efficace, preciso ed economico- la parola, per riversarsi nel sistema dell’alfabeto latino, tuttora egemone in occidente.

Alfabeti
La matura conquista classica dell’alfabeto risulta, dunque, in un codice notazionale di lettere, in un convenzionamento di segni tanto efficace dal punto di vista delle prestazioni quanto semplice da tracciare e apprendere, dotato di notevole stabilità tipologica nella propria configurazione ma non perciò sottratto a continue variazioni morfologiche lungo l’asse del tempo.
Vi è di più: ogni scrittura diviene visibile, si realizza, si effettua solo nel suo materiale farsi segno fisico; ogni impronta letterale, in specie, è risultante dell’interazione tra due vettori, applicati a un codice di configurazione: lo strumento che traccia e il supporto su cui si traccia. A seconda della loro natura, la storia -in estrema sintesi- ha visto evolversi e trasformarsi gli alfabeti, lungo poco lineari percorsi, in due filoni: le “archigrafie” e le “calligrafie”, per usare delle etichette di comodo. Nelle prime, risuona l’accezione più antica dell’etimo stesso di “grafia”, il greco «graféin»: scavare, raschiare, scalfire, incavare, incidere -«sémata grápsas en pináki», «incisi i segni nelle tavole», come recita l’Iliade. È il lavoro dello scalpello (di ogni strumento atto a togliere o incidere la materia del supporto, come per lo scultore) che ha disegnato pazientemente nelle tre dimensioni, per asporto e scavo, l’enorme parco testuale graffito in stele, lapidi, fregi e insigni monumenti classici, vero libro parlante dell’antichità, privilegiato ambito dell’epigrafia. Da una parte, dunque, uno strumento “duro” che scrive tramite rilievi (positivi o negativi) lettere definite da contrasti chiaroscurali: l’archigrafia come pratica incisoria monogrammatica, dal lento tracciamento, che non sopporta indecisioni né tampoco errori; scrittura di lunga durata in supporti durevoli e sostanzialmente immobili, dal segno strutturalmente lapideo, intimamente connesso con le qualità proprie del materiale per eccellenza dell’architettura. Il repertorio che chiamiamo comunemente “maiuscole” ne è il lascito evidente, nella polistratificata storia del complesso artefatto alfabetico. La capitale quadrata dei monumenti romani, che in epoca imperiale si arricchisce dei tratti terminali noti come “grazie”, è una delle due componenti sostanziali del nostro alfabeto, di eccezionale unitarietà formale e coerenza in un arco storico-geografico plurisecolare, obbediente a dettati percettivi rigorosi quanto rifuggenti geometrie elementari, in virtù di una plastica sensibilità alla luce. Dall’altra parte, invece, uno strumento “molle” che scrive lambendo e coprendo il supporto di uno strato, lasciando una saliva, un succo, una bava sulla scia del proprio passaggio. La “calligrafia” come tracciato bidimensionale, macchia, opacità: lo strumento tracciante (calamo, penna, pennello, pennino e simili, propri anche al pittore) è un deposito temporaneo di liquidi scuri e oscuranti, che non toglie ma aggiunge sulla superficie del supporto un visibile indizio del proprio passaggio. L’orma piatta del movimento continuo della mano e non l’urto di una abrasione vela un fondo neutro e assorbente, facendo della lettera figura su sfondo. Dunque, una scrittura in cui risuona l’altra polarità che convive nell’etimo “graféin”: dipingere, figurare, rappresentare; in essa, la piacevole venustà delle tracce, la tattile sensuosità delle grafie, la scioltezza del tratto trova individuale, personale, autoriale espressione. Tendenzialmente continua, fluida, la “calligrafia” esalta la velocità di stesura, il valore figurale dei segni, la loro possibilità di legatura nei poligrammi delle parole e delle abbreviazioni; scrittura di relativamente breve durata in supporti effimeri e sostanzialmente mobili, dal segno strutturalmente morbido, intimamente connesso con le qualità proprie della carta, materiale per eccellenza del disegno artistico. Alla vis sottrattiva della “archigrafia”, corrisponde dunque la natura additiva della “calligrafia”, il cui lascito più forte nella storia del repertorio alfabetico è non a caso la famiglia di lettere che chiamiamo “minuscole”, al termine di un millenario processo di elaborazione della lettera corsiva e rustica latina, cioè delle forme di scrittura classica non monumentali.

Tipi
I tipi mobili di Gutenberg sono invece oggetti fisici, tangibili, manipolabili, discreti: lettere a rilievo in blocchetti di lega di piombo fuso, costitutivamente isolate e separate le une dalle altre, veri tridimensionali monogrammi (fondamentali le osservazioni di Giovanni Anceschi in Monogrammi e figure, al proposito) che vengono affiancati, a rovescio, a comporre le parole, le righe, le colonne, le pagine dei testi. Unita in una forma, la pagina di piombo viene inchiostrata e la sua impronta si trasferisce a pressione sulla carta, scavandola leggermente e depositandovi l’inchiostro. Questa, sommariamente, la stabilissima tecnologia che si trasmette inalterata dalla metà del quattrocento fino alla metà dell’ottocento, resistendo fin quasi i giorni nostri. Le singole fusioni metalliche dei tipi sono ricavate da matrici che ripetono la forma dei punzoni, gli originali incisi (in serie di diverse dimensioni, con opportune correzioni al variare dei “corpi”) dai progettisti delle lettere o da abilissimi interpreti di altrui disegni alfabetici. La storia dell’evoluzione del disegno dei tipi è stringentemente legata al gusto e alla sensibilità architettonica dei tempi, forse più d’ogni altra forma d’arte, per la stringente metrica di reciproci rapporti finissimi e l’inesorabile controllo proporzionale che reclama. Ai nostri fini, che qui non possono essere quelli di ripercorre tale storia ma soltanto di individuare un’epocale frattura ultima, basta rilevare alcuni fattori basilari. Il primo è la contraddittoria condizione iniziale in cui si trovarono i progettisti dei tipi: tentare di replicare al meglio il disegno, il modellato, la fattura di superbe qualità calligrafiche e poligrammatiche delle lettere scrittoriali, chirografiche, amanuensi, insomma la tradizione millenaria in cui vivevano, con un mezzo intrinsecamente monogrammatico. Sia la straordinaria ricchezza di glifi (impercettibili varianti della stessa lettera, in tipi da usarsi in specifici accoppiamenti) della editoria umanistica e rinascimentale, a cominciare dai tipi aldini (tra l’altro, con l’invenzione del carattere corsivo), sia le sottili correzioni ottiche al variare delle misure dei tipi della più schietta tradizione tipografica, ne sono prova e conseguenza diretta, che i secoli provvederanno a stemperare fino a quasi cancellare dal secolo scorso, attutendo progressivamente una sofisticata quanto diffusa sensibilità percettiva degli equilibri visivi nella composizione letterale della pagina. Il secondo è il trionfo dell’umanesimo italiano nei tipi: il rinascimento impone all’occidente l’alfabeto latino, la tonda chiarezza della littera antiqua (non dimentichiamo che la stampa era nata, da poco, con i neri angolosi tipi gotici di Gutenberg) o, meglio, quella originale reinterpretazione dell’antichità classica che è ai fondamenti della risorgenza delle arti nella penisola. Conseguenza ne è la strutturazione finale dei tipi in due “casse”, compresenti in ogni alfabeto completo: gli alti archigrafici, le maiuscole, le lettere capitali quadrate di eredità romana; i bassi calligrafici, le minuscole, lettere che avevano trovato forma ultima nella rinascita carolingia, quasi un millennio dopo -a cui deve aggiungersi una moltitudine di segni analfabetici (dagli accenti alle interpunzioni varie) e le cifre, d’origine indiana, ascendenza araba e diffusione solo due-trecentesca in Europa. Il terzo aspetto è l’intrinseco legame tra strumento tracciante e supporto anche nella tipografia, tra piombo inchiostro carta: una relazione ibrida, uno strumento “duro” che scava il supporto per depositare una traccia liquida, come gli strumenti “molli”, insomma una sottrazione assieme a una addizione.

Neografia
La estrema stabilità della tecnologia gutenberghiana fa sì che, per secoli, il progetto dei tipi evolva lentamente ma significativamente attraverso variazioni morfologiche in relazione diretta e reciproca con tali tre fattori. Gli ultimi decenni dell’ottocento mutano e sviano la grandiosa tradizione secolare di paziente ricerca e di lento perfezionamento tipografico. La comparsa di macchine compositrici, quali la Linotype e la Monotype, a sostituzione della lunga preparazione manuale del testo, accoppiata alla diffusione del pantografo, quale strumento per accelerare il disegno dei tipi a partire da un unico modello per ogni dimensione, segna l’inizio di un processo di forte semplificazione che il novecento ha completato con la messa a punto e il predominio attuale del processo di stampa offset. La stampa offset, in sostanza, trasferisce tramite un tampone cilindrico di gomma l’inchiostratura di una lastra, incisa dai grafismi della pagina, sulla carta: la stampa non è più uno scavo, la pressione è solo quella necessaria al passaggio dal cilindro al foglio; il foglio di carta è, quindi, dipinto o, meglio, spalmato di inchiostro -la condizione tecnica è nuovamente di uno strumento “molle”. Nella seconda metà del nostro secolo, con una accelerazione invasiva dalla seconda metà degli anni ottanta, è mutata radicalmente anche tutta la fase di preparazione, la “prestampa”: la fusione “a caldo” dei tipi è ormai archeologia (e nostalgia, talora) industriale, sostituita prima da procedimenti “a freddo” di fotocomposizione e oggi dal virtuale dei computers. Il tipo digitale, che si materializza al positivo in una pellicola plastica, ha eliminato il piombo secolare. I progettisti di lettere, già dagli anni sessanta, si sono trovati di fronte a incertezze e problemi analoghi ai punzonisti dell’umanesimo: prima tentando di tradurre in “numerico” il repertorio storico di decine di migliaia di tipi nati per il piombo, poi ponendosi la questione critica della coerenza tra sistema strumental-produttivo e disegno delle lettere. Le prime lettere digitali erano formate da una sempre più fine matrice di punti; la tecnologia si è rapidamente evoluta (alla fine degli anni ottanta, con il linguaggio PostScript di descrizione di pagina, fondamento della prestampa odierna), offrendone una descrizione geometrica scalabile delle lettere, che le riduce a pantografi digitali -una serie di accorgimenti (come i MultiMaster) ha tentato senza grandi esiti di porre rimedio a questa condizione di povertà, ereditata dall’ottocento. Il desktop publishing, l’editoria elettronica da scrivania, ponendo potenzialmente nelle mani di tutti formidabili strumenti di disegno digitale dei caratteri (possiamo ancora chiamarli tipi?), ha avviato al contempo una impetuosa rinascita dell’arte del disegno delle lettere in tutto il pianeta, che nel corso degli anni novanta è andata esplodendo, non solo in termini quantitativi. Una nuova consapevolezza della natura ambigua del tipo digitale si va diffondendo, con una diversa maturità problematica, dopo l’orgia spesso indigesta di tanta produzione contemporanea, sospesa sull’onda di entusiasmi neofiti, intemperanze trasgressive e appetiti di mercato. Il tipo digitale deve rispondere, del resto, a esigenze più ampie e diversificate del tipo disegnato per la stampa. Da una parte, l’affermazione evidente del monitor come nuovo supporto della comunicazione, radicalmente diverso dalla carta (la sua risoluzione attuale, cioè la sua finezza di dettaglio delle lettere, è di 1:40 rispetto al libro, la cui carta peraltro assorbe la luce, invece di emetterla) pone una pressante urgenza di disegno di alfabeti per lo schermo, in cui si sono impegnati alcuni tra i più sensibili progettisti attuali -sullo schermo, le lettere possono anche mutare continuamente colore, contorno, disposizione nonché muoversi o emettere suoni. Dall’altra, la trasformazione dei metodi di stampa su carta impone di tener conto di uno sdoppiamento ormai universale dei sistemi: a bassa risoluzione (dal getto d’inchiostro alle laser), in ambiti domestici e d’ufficio; ad alta risoluzione, con l’offset. E in questi casi pure, le esigenze poste al disegno delle lettere sono sensibilmente diverse, per il variare del rapporto tra strumento e supporto. Anche restando nel campo degli alfabeti per la stampa d’alta qualità, la pesante eredità della più conservatrice delle arti, la tipografia, implica a suo modo dei pregiudizi, formali e concettuali, difficili da rimuovere, in assenza di una più diffusa frequentazione critica dei problemi e delle vicende storiche -tra gli operatori tutti del settore-, che non può prescindere dalla conoscenza delle tecniche. In altri termini: nello scegliere, ad esempio, un carattere a stampa come il Bembo è utile sapere che questo è stato prodotto nel 1929 dalla Monotype per il suo sistema di composizione a caldo, sulla base di un tondo disegnato a Venezia da Francesco Griffo per Aldo Manuzio nel 1495, accoppiato a un corsivo ispirato da un alfabeto disegnato ancora a Venezia da Giovanni Tagliente negli anni venti del cinquecento, e che la serena qualità rinascimentale reinventata nel piombo novecentesco non si è persa fortunosamente del tutto nella versione digitale e nella stampa offset? È significativo sapere che l’ubiquo Helvetica di Max Miedinger, della metà degli anni cinquanta, non è altro che un fortunatissimo banale remake del robusto, giusto centenario Akzidenz Grotesk? Dice qualcosa il fatto che un altro carattere eccellente del novecento, il Times New Roman dell’inizio degli anni trenta è un vero pastiche: costruito su assi umanistici, con proporzioni manieriste, pesi barocchi e finitura neoclassica, come ha notato Robert Bringhurst? Fino a che punto è legittimo il riversamento digitale di tipi disegnati per la composizione a mano, al fusione in piombo e la stampa a pressione, che a tante serie di caratteri lascia il sapore dei «traduttori dei traduttor d’Omero»? Che cosa significa, dopo il trionfo degli strumenti di progetto sulle idee dei primi alfabeti digitali, aprés le déluge di una decostruzione sui generis, il ripiegamento in un apparente ritorno all’ordine a cui assistiamo, con il redesign di Baskerville e Bodoni vari? La forte tendenza al recupero delle legature, dei glifi, della figuralità “calligrafica” e i tentativi di correzione ottica di molte delle più interessanti serie alfabetiche digitali contemporanee è l’unica chance che il digitale offre, all’egida di un “recupero” intelligente del passato, della “conservazione” del patrimonio storico? Le radicali ricerche del moderno (con i suoi rigori geometrici, il sogno dei monoalfabeti e analoghe sperimentazioni) non meritano anch’esse una attenta riflessione che vada oltre le semplici fattezze? Oggi, il problema non è forse ancora lo stesso che attraversa la storia intera delle grafie, e pur tuttavia ancor più complesso per la pluralità dei mezzi attuali, cioè quello della forma appropriata e non della “bella forma”, di una adeguata coerenza di relazione tra disegno (digitale) della lettera, strumento tracciante e supporto?
Tra le molte domande che non hanno ancora trovato adeguata risposta nell’occhio del “ciclone” digitale, una emerge, in conclusione, come assolutamente preliminare: non è giunto forse il tempo di dotarsi di strumenti, teorici e progettuali, e di repertori metodici, atti ad affrontare e dar corpo disciplinare a ciò che vorremmo chiamare la scienza della “neografia”, rispettivamente moderna e contemporanea, a disciplinare cioè quanto sarebbe il naturale seguito della paleografia, nel conformarsi delle lettere in forme tipografiche e oggi digitali?

exempla

PostScripti

Sumner Stone
L’acronimo pdl individua il software che nell’editoria digitale serve a descrivere la pagina e i suoi elementi, tipi inclusi. I pdl, a differenza delle “mappe di punti” (bitmaps), sono resolution-indipendent: attualizzano la pagina alla massima risoluzione della periferica di output. Il più noto pdl è il PostScript (peraltro, un versatile general-purpose, simile al Forth), scritto da John Warnock e sodali, alle origini della fortuna planetaria di Adobe Systems, Inc., già dal 1985. Sumner Stone ha ottimizzato il disegno della famiglia di tipi PostScript Stone Sans, Serif e Informal (1987) per la stampa nel limite dei 300 dpi delle prime laser. Erik van Blokland e Just van Rossum hanno utilizzato una subroutine PostScript per provocare graduabili distorsioni casuali nel loro Beowolf (1990).

Addio alle bitmaps

Zuzana Licko
Prima del PostScript, i caratteri digitali erano descritti da matrici più o meno fini di punti o, meglio, di pixel (picture elements): una sorta di graticcio, come nei lavori di cucito della scolastica educazione domestica delle nonne. Ingrandendoli, se ne evidenziava la trama, con una tipica seghettatura o dentellatura che dir si voglia: insomma, si pixellavano! «Il Modula è stato il primo carattere PostScript che ho progettato -spiega Zuzana Licko, magistra litterarum di emigre- con il Macintosh. Nel 1985, il computer era ancora assai rozzo nel disegnare curve ma straordinario per tipi perfettamente geometrici. Come guida, ho usato le proporzioni del mio Emperor 15, un bitmap». «La diagonale a 45°, usata per il Matrix -del 1986, sempre di Licko- è la migliore che una laser può stampare».

Sulle orme del moderno
Meta
La fama vastissima acquisita negli anni ottanta dal britannico Neville Brody è legata anche al disegno di tipi di palese ispirazione “modernista” (con tutte le ambiguità del termine): esemplare il Typeface Two di rigida elementare geometria, concepito per «The Face» nel 1984 (poi distribuito col nome di Industria), con il quale Brody intendeva restituire empaticamente un “clima” razionalista europeo da anni trenta. Altro il caso del Meta, il carattere più fortunato degli anni novanta, utilizzato per qualche tempo anche da «Casabella»; disegnato da Erik Spiekermann, originariamente per le poste tedesche (1984), è figlio spirituale -come suggerisce acutamente Robert Bringhurst- del Goudy Sans (1929-30) dell’americanissimo Frederic Goudy: un assai peculiare “bastoncino modulato”.

Tipi mixeriosi

Beowolf
Esemplari di una tendenza portata dalla natura stessa, dalla complessione intima del digitale (le chances rischiose ma forse necessarie da sperimentare colore, suono, movimento, mutabilità e instabilità, già intuite nel Beowolf di Van Blokland e Van Rossum), i tipi idiosincrasici, mutanti e iperattivi di Elliott Peter Earls -piaciuti a Hollywood e visti perciò nei titoli di film come Spawn, ad esempio- esprimono la particolare verve fusiva e, assieme, la crudele vis destruendi di uno dei più originali allievi di Cranbrook, segnalato ripetutamente da «Casabella» per i suoi cd-rom Throwing Apples at The Sun (645) e Eye Sling Shot Lions (659), che li offrono come bonus.

Il ritorno dei glifi

Mantinia
Il glifo non è un animale mitico: il termine (da glyphé, intaglio) significa ogni incisione in un materiale duro, riferendosi abitualmente a pittogrammi e geroglifici. Per molti secoli, da Gutenberg fino all’ottocento, disegnare i tipi è stato materialmente farli, cioè inciderli nel metallo: l’arte del punzonista. Era anche assai comune che per una stessa lettera o altro segno si realizzassero i punzoni di molte varianti, ovvero glifi diversi -così fecero Francesco Griffo e Simon de Colines, tra i primi. Il magistrale punzonista digitale Matthew Carter è tornato a saggiare la questione dei glifi (e delle legature) con due suoi recenti tipi: Mantinia (1992), complesso alto umanistico («[Mantegna] is the best letterer of any painter»); Sophia (1993), bizantinamente ibrido e densamente cupo.

Calligrafia digitale

Lithos
Per la sua elastica, penetrabile natura (affatto opposta alla fisica solidità del piombo), il tipo digitale pare permettere ogni specie di sperimentazione e di recupero nel disegno alfabetico: avanguardisticamente decostruttive, filologicamente conservativo-ricostruttive del moderno (sono infatti apparse accurate versioni storiche degli ur-tipi di Bayer, Bill, Renner, Tschichold, Van Doesburg et similia), arcaicamente ante-tipografiche (come il fortunato Lithos di Carol Twombly o il più gustoso Herculanum del venerabile Adrian Frutiger), nostalgicamente calligrafiche, sapientemente epigrafiche. Quest’ultimo è il caso dei molti tipi di Paul Shaw e Garret Boge: il set fiorentino (1997) Beata (Bernardo Rossellino), Donatello, Ghiberti; il trio barocco romano (1996) Pontif, Pietra, Cresci.

Decostruzioni
Template Gothic
Il versante più sperimentalista dei nuovi disegnatori di tipi digitali si è accanito negli ultimi anni, con ottimi risultati peraltro, in esercizi sadici di smontaggio, abrasione, corrosione, decoupage, frottage e collage, accoppiati a frankensteiniani trapianti, a mutazioni perverse e a rischiose ibridazioni genetiche, all’egida della morte della storia e della fine della stampa, nel segno di una voluta “illegibilità” accoppiata a una impura “visibilità” delle lettere. Exempla significativi di tutto ciò: il Template Gothic (1990) di Barry Deck, criticamente ispirato dall’insegnamento di Ed Fella (vedi «Casabella» 658), in una sorta di omaggio al vernacolare; il Dead History (1990) di P Scott Makela -altro prodotto di Cranbrook, come peraltro Fella stesso- che, sin dal nome, è tutto un programma…

Ricostruzioni
Mrs Eaves
«Un ritorno di ottocento ha sconfitto alla fine il nostro secolo […] Diciamo con onestà ciò che è: è un’età di Restaurazione. Ma senza Romanticismo. Anzi, sostanzialmente neoclassica. Un neoclassicismo impudicamente avveniristico» ha scritto acutamente Mario Tronti, nel suo più recente libro. Qualcosa di analogo sembra attraversare ultimamente anche il mondo dei tipi: non a caso, Zuzana Licko, una tra le più intelligenti e sensibili protagoniste della scena, autrice di buona parte dei ben noti tipi digital-novissimi di emigré, ha -forse non troppo sorprendentemente- (ri)disegnato il suo ideal-tipo bodoniano con il Filosofia (1996) («before the age of personal computers […] my favourite typeface was Bodoni») e il femminile Mrs Eaves (1996): «my first revival, based on the design of Baskerville».

[Tipologia, in “Casabella” (Milano), 668, giugno, pp. 68-75 e 88-89]

4.7.04

[1999#03] tibor kalman


And the Heat Goes On…

Difficile dimenticarla, la grafica della copertina di Remain in Light dei Talking Heads e del “lyric sheet” (donde traggo la frase del titolo) che accompagnava il vinile. Era il 1980 e l’autore dell’artwork era destinato a divenire famoso: si chiamava Tibor Kalman. Ci ha lasciato questa primavera e la sua scomparsa è tanto più drammatica, perché era uno dei pochi della mia generazione ad avere qualcosa da dire nel proprio campo. Kalman non era né un “grafico” né un designer di formazione, il che invero non cambia nulla, anzi è assai istruttivo per un paese, come il nostro, ove i progettisti d’artefatti sono perlopiù degli autodidatti. Kalman era, piuttosto, un outsider sui generis: «sono privo di ogni talento manuale -era pronto a confessare, pochi anni fa-, tuttora non so disegnare e non so come far funzionare un computer». Il suo obiettivo dichiarato era la “comunicazione”, questa vasta confusa metafora che sigilla la nostra civilizzazione attuale; lo interessavano, palesemente, dichiaratamente, sfacciatamente i “contenuti” e non il “contenitore”, cioè (se e quando sia possibile districarli) il messaggio più del mezzo -alla faccia dell’idea che il medium è il messaggio. Il design era per lui solo una tappa, un processo, uno strumento di quanto voleva fare in questo mondo: cercare di cambiarlo, almeno un po’, almeno in parte: «il mio Sacro Graal non è il design, perché il design è un linguaggio, non un messaggio». Nato nel 1949 a Budapest, in Ungheria (paese, peraltro, di grande e assieme poco nota tradizione nel campo della “visualità”: bastino i nome di Huszar e Moholy Nagy, Farago e Biro, Lajos Kozma e Karoly Kos, last but not least di Ferenc -naturalizzato Franco- Pinter), Kalman affronta un destino classico da emigré, quando la famiglia si trasferisce negli Usa, dopo la tragedia del 1956. Frequenta nel 1963-67 la Our Lady of Lourdes High School di Poughkeepsie, luogo noto ai più come la culla e il quartier generale della Ibm; nel 1967-70, studia giornalismo e storia presso la New York University -e conosce Maira, sua compagna di vita. Inizia a lavorare in una libreria di New York, un po’ per caso, come ribadiva spesso d’ogni accadimento della sua esistenza: si tratta della Barnes & Noble, catena destinata a grande fortuna commerciale. Dal 1968 al 1979, Kalman segue la comunicazione tutta di Barnes & Noble (vetrine, segnaletica, allestimenti, pubblicità…), finché nel 1979 fonda M&Co., una vera officina progettuale, di voraci e mobili attitudini, che dalla metà degli anni ottanta mostra uno scatto notevole d’inventiva applicata. «M&Co non ha uno stile -spiegava Kalman, parlando del loro lavoro- ma un metodo, fondato sulle idee»: idee a tratti surreali, talora sarcastiche; e spesso divertite, nonché condite di pungenti provocazioni. Con questo spirito e molti bravissimi collaboratori, M&Co. attraversa gli anni ottanta e sbuca attivissimo nei novanta, operando per tre lustri in uno spettro sempre più ampio, esplorando e travalicando senza timori apparenti confini, mezzi e linguaggi diversi, liberandosi dal convenzionale, a favore di una sapida riappropriazione del vernacolare, con feconda discontinuità. Così, dal dominio tradizionale degli stampati, la M&Co. passa ai video musicali, ai titoli di film, agli spot televisivi, fino al design di oggetti. Si son visti perciò uscire da quella peculiare officina d’idee degli orologi con le cifre scompigliate o con il vetro smerigliato, in modo da sfocar le ore, o quintessenziali come il “dieci.una.quattro”; involucri magrittiani che affermano questo non è un cappello; cartoline raffiguranti stomaci sezionati per un restaurant; video come (Nothing but) Flowers ancora per i Talking Heads -tutto giocato sul rapporto tra parola visibile e immagine del gruppo-; e anche la collaborazione al progetto di recupero di 42nd Street & Times Square a New York (dall’orologio alla città, come vedete, realizzando il sogno di tanto design moderno), oltre a importanti lavori editoriali, quali l’art direction di riviste come «Artforum» (1987-88) o «Interview» (1989-91). «Per me -intuiva già allora Kalman, cogliendo uno dei nodi centrali delle trasformazioni in corso nella comunicazione attuale- il futuro della grafica non è tanto nella pagina stampata, quanto nello schermo». Nel 1990 è il progetto di una rivista a portarlo in Italia: si tratta di «Colors», uno straordinario esperimento, promosso dall’Oliviero (Toscani) nazionale e dalla liberalità benettoniana, che lo ha reso popolarmente famoso, in tutto il mondo e anche da noi. I primi cinque numeri Kalman li cura, dal 1991 al 1993, ancora a New York; dal 1993 al 1995, si trasferisce con la famiglia (che comprende, oltre alla fedele Maira, finissima illustratrice, anche i figli Lulu Bodoni e Alexander Tibor Dibi M.L. Onomatopeia) a Roma, ove realizza altri otto numeri. La serie di «Colors» curata da Kalman termina con la performance di Wordless, un fascicolo composto unicamente d’immagini, scelte tra 25000 scatti. Nell’autunno 1995, Kalman torna a New York, già sofferente. Torna a lavorare come consulente per un’ampia serie di progetti: ancora il recupero di Lower Manhattan; allestimenti per il Whitney Museum (la mostra New York: City of Ambition); invenzioni editoriali per Vitra International, dal magazine «Workspirit» all’apprezzatissima monografia Chairman Rolf Felbaum, già un classico nel suo genere. Ci ha lasciati, troppo presto; vorremmo ricordarne lo spirito, con una sua cruda testuale frase: «Tanta parte di quanto si comunica è merdaccia. Penso che i progettisti dovrebbero veramente impegnarsi dentro i messaggi, cominciare a esaminarli i messaggi, cominciare a commentarli, cominciare a influenzarli».

[And the heat goes on…, in “Casabella” (Milano), 670, settembre, p. 84]

3.7.04

[1999#02] adrian frutiger


Petite Histoire de l’Univers
Si potrebbe sottotitolare: indizi di una non-lineare storia del lineare; meglio ancora, oscillazioni del lineare. Perché ciò cui allude il gallicizzante titolo non è l’infinito universo della cosmologia, della filosofia, delle belle lettere: né ciò che «avvolge e governa tutte le cose» (Anassimandro), né «un movimento per andare sempre più lontano» (de Malebranche), né quella «idea capace di corrompere tutte le altre» (Borges). Prosaicamente (alla lettera), è il carattere da stampa con cui sono composti, ormai da tempo, i testi della rivista che avete il garbo di leggere, universalmente (si fa per dire e per celiare) noto come Univers. È un lineare: un «tipo di carattere privo di tratti terminali (> Grazia) che si ispira alle lettere lineari dell’alfabeto greco e a quelle dell’arcaico romano» -spiega, sub voce, con concisa efficacia, Il dizionario del grafico di Giorgio Fioravanti (Zanichelli, Bologna 1993). Il rimando precisa: «Grazia. Tratto terminale di una lettera alfabetica (> Carattere). La forma della grazia è determinante per distinguere il disegno di un carattere e per darne una classificazione». Domanda: come si fa a distinguere e classificare i lineari, privi di grazie -non perciò, si spera, sgraziati d’emblée- per definizione? Compulsiamo ancora l’utile dizionario, ai lemmi correlati (guizza un’ideuzza: che il dizionario sia la matrigna di tutti gli iper-testi di cui si vocia tanto?). Alla fine, l’impressione è che la scienza dei tipi dei tipi sia una tipologia incerta; sottovoce: fonti riservate segnalano interessanti works in progress sul tema, nel nostro paese, non nuovo a imprese del genere. Di fatto, le tassonomie classiche di Thibaudeau (1924), Vox (1954), Novarese (1956), Pellitteri (1958), come anche la classificazione Din 16518 (1964), oscillano tra vaghe stilematiche del gusto, approssimative periodizzazioni parastoriche, descrizioni sommarie e parziali. Nulla dicono, ad esempio, sulla gestaltica conformazione essenziale delle lettere, sulla «A-ità delle A», come direbbe Matthew Carter. Nulla su quanto suggerisce circa la Tipologia l’esprit de finesse di un Roland Barthes, ad esempio: «In uno stesso campo culturale o storico, scritture si disgiungono o si generano da altre scritture. -si legge in Variazioni sulla scrittura (Einaudi, Torino 1999)- Si oppongono, sovente, in ragione della funzione […] Ma altrettanto spesso si incontrano, nella nostra storia, tipi di scritture fondate su semplici differenziazioni di forme -differenze in certo modo non necessitate ma dalle quali è sempre possibile trarre, per contrappunto, questo e quel risvolto etico […] Per concludere, la scrittura, come qualsiasi fenomeno storico, è sovradeterminata: sembra sottoposta, ad un tempo, a cause materiali (la scrittura si restringe se bisogna risparmiare spazio, allorché il supporto costi caro) e a motivazioni spirituali (la scrittura si rastrema per avvicinarsi allo stile di un’epoca e, se mi è concesso, per “provare” che c’è una filosofia della Storia: cioè che la Storia è una e unica)». Comunque sia, la genealogia del nostro Univers rimanda al mondo classico antico. Senza addentrarsi troppo nella bibliografia paleografica (ove l’Italia eccelle), di ciò si trova conferma già nelle illustrazioni del magnum opus di Nicolete Gray, A History of Lettering (Phaidon, London 1986): nell’epigrafia greca e in quella repubblicana romana le lettere son soventissimo lineari. Proseguendo la ricerca, sia pure a gran salti, si può scoprire che, nel saggio Sans Serif and Other Experimental Inscribed Lettering of The Early Renaissance (in «Motif», 1960, 5, reprintato in estratto da Letterperfect, Seattle 1997), la stessa Gray disquisisce della ripresa umanistica del lineare nelle opere di Lorenzo Ghiberti, Donatello, Michelozzo, Luca della Robbia, Bernardo Rossellino: per non parlar dell’Alberti (per questa via, si giunge presto ad Alvar Aalto…). Del resto, nell’ottimo, recente The Nymph and the Grot. The Revival of The Sanserif Letter (Friends of the St Bride Printing Library, London 1999), una vera autorità quale James Mosley disamina un’ennesima oscillazione del lineare, moderna questa volta, conducendo il lettore a osservare tanto i cartigli dei disegni di George Dance jr e di John Soane, quanto le opere di Thomas Banks e di John Flaxman, per arrivare al primo dei tipi a stampa sanserif, il Two Lines English Egyptian di William Caslon IV (1819 ca); ma c’è anche chi, in Italia, ipotizza con acume un’altra strada, che si dipana da Piranesi. E l’Univers? Ci siamo quasi. Un ulteriore revival del lineare ha luogo nel flesso otto-novecento; ben lo esprimono tipi come Akzidenz-Grotesk (1898) o News Gothic (1908); altra ondata lineare, tra anni dieci e venti del novecento, con caratteri quali London Underground (1916), Erbar (1924), Kabel (1927), Futura (1927), Gill Sans (1927), affiancati dagli esperimenti di De Stijl e del Bauhaus. Siamo ai nostri giorni: quando il giovane tipografo svizzero Adrian Frutiger (Unterseen 1928), diplomatosi alla scuola di arti applicate di Zurigo, va a lavorare presso la fonderia parigina Deberny & Peignot, ben presto si trova a ridisegnare caratteri storici per la prima fotocompositrice efficiente, la statunitense Photon. Charles Peignot, licenziatario della Photon (Lumitype in Francia), vuole un carattere lineare ad hoc per la macchina che rivoluzionerà la stampa, uccidendo il piombo. Sono vicini gli anni della terza ripresa lineare nel novecento, primi inter pares Helvetica (1957) e Optima (1958). Utilizzando esercizi scolastici zurighesi, Frutiger disegna l’Univers (1954-57), primo lineare da fotocomposizione: un carattere epocale (come il Futura di Paul Renner), nelle forme e nella inedita sistematica di progetto, con 21 varianti coordinate, di straordinaria durevolezza; non a caso, Frutiger ne ha curato un raffinato aggiornamento digitale, con 59 varianti, per Linotype, disponibile dal 1997.

[Nouveaux Bits: Petite Histoire de l’Univers, in “Casabella” (Milano), 669, luglio-agosto, p. 84]

2.7.04

[1999#01] franco grignani


per Franco Grignani, Meister

Dolenti, meste, faticose note che non avrei mai voluto stendere. Perlomeno, non per questa circostanza tristissima. Li avevo evitate finora, testi di cotal fattura, anche per coloro che più m’eran cari e vicini (anche se non sempre direttamente, personalmente, mondanamente frequentati), per riserbo e rispetto, e per muto disprezzo assieme di quei tanti troppi coccodrilli prezzolati e d quelle docili banderuole che infestano e infettano con parole di risibile doppiezza la comunicazione di massa, stampa, radio e televisione nostrane. Ora mi sento costretto a farlo, a esporre con semplice e diretta ancorché urgente ovvietà le mie osservazioncelle, per un obbligo che sento etico e d’impegno civile (si minores licet) anche. A ciò son mosso dagli esempi che a noi tutti sono stati offerti, quali aspre lezioni di vita, in questa seconda brutta parte del nostro novecento -in specie, in questa squallida coda ad libitum- da molti grandi uomini facilmente dimenticati e rapidamente rimossi dalla labile memoria del nostro paese, dall’amato Bel Paese che ormai è sì distratto e cedevole alle lusinghe peggiori dell’asservimento strisciante ai molti contrastanti poteri che l’attraversano, l’un con l’altro armati o alleati a seconda delle occasioni. Poteri forti e grevi, ovunque dilaganti, all’ombra di una unica trionfante ascosa globalità; poteri economici, curiali, consociativi, accademici, editoriali, aziendali, partitici, massonici e via discorrendo -fate voi- delle orrendevolezze con cui dobbiamo far i conti ogniddì, volenti o nolenti, turandoci il naso e sgambettando in acque limacciosamente torbide, pur e per restare a galla. Infatti: “navigare necesse est, vivere non est necesse”, esortava Pompeo, secondo Plutarco, coniando un motto di medievale ubiqua fortuna, egida verbale delle città anseatiche che si legge sulla “casa del marinaio” di Brema -e ripreso ben più tardi dall’orbo veggente nella sua Beffa di Buccari. Mi riferisco a uomini (da Pierpaolo Pasolini a Manfredo Tafuri, per rifarsi al recente passato e anche per esser chiari, ché spesso m’accusan d’esser allusivo ed ellittico -ma sull’ellisse, figura geometrico-retorica eccelsa debbo tornare) serenamente spietati con il mondo e con se stessi, eppur ilari abitatori dello squallore del proprio tempo, attraversatori impavidi della crisi perenne del contemporaneo moderno, critici impietosi dei guasti della resa diffusa al conformismo e delle languide mollezze modajole dattorno, bollati come diversi e funesti, temuti e confinati come estremisti del pensiero taluni, troppo spesso dimenticati e negletti dai soloni di tanta inutile carta stampata e di sin troppo frusta salotteria d’accatto che vorrebbe sgarbiatamente esser (e ahinoi spesso funge da) parametro di cultura.
Ordunque: Grignani. Maestro solitario e rigoroso, ricercatore raffinato e metodico della “verità” della forma visiva, della parola visibile e dell’immagine eloquente, il progettista visuale, pittore e fotografo, insomma l’artista (c’intendiamo, ormai sul lessico che propongo, a mio rischio e pericolo, d’essere confutato da insigni accademici?), l’architetto Franco Grignani, nato a Pieve Porto Morone (Pavia) nel 1908, formato ed educato all’arte del progetto presso il politecnico di Torino (1929-33), in anni ruggenti di non proprio primo, tanto sobrio e un po’ cupo, quanto fertile e dialettico razionalismo indigeno, ci ha lasciati nei primi mesi di questo funesto 1999; in silenzio, spegnendosi dopo lunga dignitosamente riserbata sofferenza. Attoniti e confusi dalla dolorosa sequenza di scomparse che ci attanaglia senza tregua negli ultimi tempi, lo ricordiamo con ammirazione reverente e venerazione disciplinata in queste righe, stese di getto, appena appresa la ferale notizia. Dopo aver fatto parte, come pittore, di un tardo secondo quanto fecondo futurismo (di non poco tratto nella città di Gianduja), la strada della ricerca di Grignani aveva incrociato i movimenti delle avanguardie artistiche internazionali, in particolare dell’astrazione europea, sviluppando in lui un sentito intimo interesse per la psicologia della percezione della forma. Esito ne era stata, sin dagli anni cinquanta, la sua dinamica versione di una OpArt ante-litteram (so d’esser anacronistico, ergo non buon storico, così scrivendo), anni prima che questa trovasse fama e nome. La piena padronanza, il perfetto dominio, il magistero elevatissimo delle regole della percezione si esprimeva reiteratamente nei suoi esperiemnti visuali sul movimento virtuale, sulle illusioni e le elusioni ottiche, sulle subpercezioni, sulle distorsioni, sui moirés, sulle dilatazioni, sui flou e così via pingendo, appliacati senza tregua né pausa né cesura, a un universo formal-espressivo che per pigra comodità tassonomico-categoriale siamo usi chiamare e distinguere (a torto, forse) pittura, grafica (editoriale e pubblicitaria), attraverso immagini, trame, segni e parole. Sin dagli anni trenta, Grignani aveva operato nel campo della grafica (dell’architettura dell’informazione, diremmo oggi, e Massimo Vignelli acconsentirebbe), collaborando tra l’altro alla comunicazione d’impresa di Borletti, Breda Nardi, Cremona Nuova, Dompé, Domus, Mondadori, Montecatini, Spi, e Triennale. La sua durevole direzione artistica dell’editoriale Alfieri&Lacroix è, tra tutte, di particolare rilievo, giacché mostra una straordinaria integrazione di riflessivi quanto concisi testi (di suo autoriale pugno) e immagini: scritture d’immagini; meglio: testo che diviene immagine e assieme immagine che si fa testo, anticipando un peculiare scambio attuale. Universalmente noto, il suo trademark per la Lana vergine è paradigmatico esempio del suo approccio al design del segno che si fa significante e significato. È stato, per 26 anni, anche art director di “Pubblicità in Italia”, rivista dedita al visual design promozional-mercantile. Autore di acuti saggi sulle arti visive, Grignani spesso era chiamato a tener conferenze in Europa e negli Usa. Lo volemmo e vedemmo, spiccante tra la folla sul fondo della sala, anche alla pristina presentazione del numero zero di questa rivista; ne avemmo uno spontaneo sentito apprezzamento, un vivo rude incoraggiamento, garbate ma recise critiche, com’era nel suo stile spiccio. Era urtato (chiaccherammo brevemente del più e del meno, subito dopo) da uno slogan circolante con insistenza: “fine della storia” (e delle ideologie e dei valori etc). Slogan stupidino ma d’effetto, per i giornalistucoli cianciaioli e soprattutto per gli intellettuali (salottieri, organici, disorganici, anche da bar e da salotto, fate vobis). Pour épater les bourgeois et les bourgeoises encore; non a caso, slogan d’origine nippo-americana, che fa il paro con “la fine della stampa”, con quel The End of Print, di cui sproloquiano, con osannato successo mondial-globale, ossia ecumenico, sagaci ciarlatani della “grafica contemporanea”, a cui invero corrisponde -a mio avviso- un (inedito ma attuale, effettuale, reale-obiettivo) The Beginning of Reprint. Ci restiamo, comunque, malgré nous, nel nostro “piccolo mondo antico dell’ultimo novecento - che, come ha scritto Mario Tronti in pagine illuminanti delle sue più recenti fatiche per i tipi di Einaudi - va scorto con occhi sobri, come realtà di fatto, dietro la spettacolarità ideologica di questo cosiddetto post-moderno, globale e virtuale. Un ritorno di ottocento ha sconfitto alla fine il nostro secolo […] Diciamo con onestà ciò che è: è un’età di Restaurazione. Ma senza Romanticismo. Anzi, sostanzialmente neoclassica. Un neoclassicismo impudicamente avveniristico”.
Pax tibi, Franco. Nec moriar. “On oi theoì filoùsin apothnéskei néos”, con Menandro. Pace a te, che “néos” eri ancora, con novanta primavere ormai già sulle larghe spalle dal signorile incedere e dall’indimenticabile portamento, di colui a cui si cede naturalmente il passo, per l’alone di rispetto autorevole che trascina seco e aleggia attorno. “Ciuti, ch’al entra el reverendo!” (se non sbaglio -lo ricordo così il verso, dagli anni del liceo, forse con involontari refusi, ché non posso adesso verificare il crepuscolare tuo conterraneo poeta - Hora ruit, e il fatidico The show must go on!, vale anche per noi redattorelli): non eri un “reverendo” nel senso comune e nell’accezione di quei versi ma, certo, un maestro è da riverirsi, almeno.

[cupi bits: Franco Grignani (1908-1999), in “Casabella” (Milano), 667, maggio, p. 80]
Creative Commons License
This work is licensed under a Creative Commons License.