[2006#0] tipografia visibile
Tipografia visibile
Tra i compiti di una rivista specializzata come “Progetto grafico” – in un paese, come il nostro, ancora non troppo ricco di letteratura (nonché di traduzioni di classici) in ambito visuale specifico –, non ultimo impegno è quello di far conoscere i fondamenti della disciplina che la intitola e le diverse tradizioni che la innervano. A questo fine, è auspicabile la presentazione (periodicamente ripetibile, per le nuove generazioni) di documenti e testi storici, in particolare quelli più vicini alla contemporaneità, per la presa che ancora possono avere sull’operare di ciascuno ma anche ai fini di una rilettura critica, secondo la prospettiva non immobile dell’analisi storica.
La traduzione di un testo quale The Crystal Goblet di Beatrice Warde, dalla redazione ultima del 1955, offerta qui nella pregevole veste di una edizione ad hoc, risponde in pieno a tale compito e rappresenta un basilare tassello di una ideale antologia del pensiero grafico contemporaneo nella nostra lingua, analoga ai vari fortunati Graphic Design Reader in ambito anglosassone.
Quanto si legge in The Crystal Goblet va collocato, inquadrato e inteso nel suo preciso contesto, sia storico (lo stato dell’arte della cultura tipo-grafica nel mondo anglosassone dei primi anni trenta, quando è stato originariamente steso il testo), sia biografico (la singolare vicenda di una fascinosa donna-in-carriera di singolari meriti intellettuali e capacità promozionali); ben vi provvedono altre pagine di questa rivista, ça va sans dire.
Acclarato e acquisito ciò, sono anche convinto che alcunché di canonico, come The Crystal Goblet, reclami un po’ di spirito laico; in primis: (ri)leggere, senza pregiudizi di sorta, come fosse la prima volta.
È quanto ho tentato di fare; con una certa qual delusione e delle domande, a cui non so rispondere con certezze pari a quelle che l’autrice esibisce.
Delusione, per lo scarso appeal letterario intrinseco, la debolezza delle argomentazioni, il divagare dei periodi – insomma, ci si ritrova di fronte a un testo occasionale e celebrativo, non troppo strutturato, un po’ noioso e abbastanza supponente.
Domande, perché le certezze apodittiche e le antinomie senza sfumature del testo suscitano dubbi e reclamano verifiche.
La metafora su cui si fonda il testo forse è fragrante, come scrive l’autrice, e certamente efficace (se non altro, per l’enorme fortuna e diffusione che ha avuto) ma è condivisibile l’idea che: “tutte o quasi le virtù del nostro calice ideale hanno un parallelo nella tipografia” poiché “tutto […] è calcolato per rivelare, anziché nascondere, la bellezza […] che contiene”? Esiste davvero una così radicale differenza tra “forma” e “contenuto” o si può azzardare che la “forma” sia un “contenuto” e viceversa?
Dobbiamo convenire con quell’idea “modernista”, per cui anche la nostra prima domanda sarà: “A cosa serve?” e non “Che forma deve avere?” – “e in questo senso è modernista ogni esempio di buona tipografia”? La cosidetta funzione è amorfa? Non possiamo permetterci, traducendo in termini contemporanei, di definire, articolare e corroborare la prestazione utile con una interfaccia di adeguato comfort e usabilità?
Pensiamo ancora che “compito della stampa è comunicare idee specifiche e coerenti […] ciò che conta soprattutto è il suo carattere eminentemente pratico“? Tutto qui?
Infine, siamo tutti convinti che “un carattere usato come si deve è invisibile”? La tipografia, insomma, deve essere proprio “trasparente e invisibile”, come reclama l’apex del discorso, o si tratta di un piacevole espediente retorico ad effetto, frutto di una polemica importante ma datata? Una meditata consapevolezza della dialettica leggibilità/visibilità del carattere/testo, maturata nella composizione della pagina, non è forse uno dei fondamenti stessi della progettazione tipo-grafica?
Forse è fin troppo facile smontare gli assunti di The Crystal Goblet ed è certo meglio assaporarlo, come un vino assai invecchiato, per il suo indubbio valore di documento, di un’epoca e di una mentalità, comprendendolo entro la sua cornice storica.
Vien da chiedersi, però, se la nostra brava Beatrice avesse mai provato davvero a bere del vino da una coppa d’oro, magari alla temperatura giusta…
[in “Progetto grafico” (Milano), 8, giugno, p. 177]
Tra i compiti di una rivista specializzata come “Progetto grafico” – in un paese, come il nostro, ancora non troppo ricco di letteratura (nonché di traduzioni di classici) in ambito visuale specifico –, non ultimo impegno è quello di far conoscere i fondamenti della disciplina che la intitola e le diverse tradizioni che la innervano. A questo fine, è auspicabile la presentazione (periodicamente ripetibile, per le nuove generazioni) di documenti e testi storici, in particolare quelli più vicini alla contemporaneità, per la presa che ancora possono avere sull’operare di ciascuno ma anche ai fini di una rilettura critica, secondo la prospettiva non immobile dell’analisi storica.
La traduzione di un testo quale The Crystal Goblet di Beatrice Warde, dalla redazione ultima del 1955, offerta qui nella pregevole veste di una edizione ad hoc, risponde in pieno a tale compito e rappresenta un basilare tassello di una ideale antologia del pensiero grafico contemporaneo nella nostra lingua, analoga ai vari fortunati Graphic Design Reader in ambito anglosassone.
Quanto si legge in The Crystal Goblet va collocato, inquadrato e inteso nel suo preciso contesto, sia storico (lo stato dell’arte della cultura tipo-grafica nel mondo anglosassone dei primi anni trenta, quando è stato originariamente steso il testo), sia biografico (la singolare vicenda di una fascinosa donna-in-carriera di singolari meriti intellettuali e capacità promozionali); ben vi provvedono altre pagine di questa rivista, ça va sans dire.
Acclarato e acquisito ciò, sono anche convinto che alcunché di canonico, come The Crystal Goblet, reclami un po’ di spirito laico; in primis: (ri)leggere, senza pregiudizi di sorta, come fosse la prima volta.
È quanto ho tentato di fare; con una certa qual delusione e delle domande, a cui non so rispondere con certezze pari a quelle che l’autrice esibisce.
Delusione, per lo scarso appeal letterario intrinseco, la debolezza delle argomentazioni, il divagare dei periodi – insomma, ci si ritrova di fronte a un testo occasionale e celebrativo, non troppo strutturato, un po’ noioso e abbastanza supponente.
Domande, perché le certezze apodittiche e le antinomie senza sfumature del testo suscitano dubbi e reclamano verifiche.
La metafora su cui si fonda il testo forse è fragrante, come scrive l’autrice, e certamente efficace (se non altro, per l’enorme fortuna e diffusione che ha avuto) ma è condivisibile l’idea che: “tutte o quasi le virtù del nostro calice ideale hanno un parallelo nella tipografia” poiché “tutto […] è calcolato per rivelare, anziché nascondere, la bellezza […] che contiene”? Esiste davvero una così radicale differenza tra “forma” e “contenuto” o si può azzardare che la “forma” sia un “contenuto” e viceversa?
Dobbiamo convenire con quell’idea “modernista”, per cui anche la nostra prima domanda sarà: “A cosa serve?” e non “Che forma deve avere?” – “e in questo senso è modernista ogni esempio di buona tipografia”? La cosidetta funzione è amorfa? Non possiamo permetterci, traducendo in termini contemporanei, di definire, articolare e corroborare la prestazione utile con una interfaccia di adeguato comfort e usabilità?
Pensiamo ancora che “compito della stampa è comunicare idee specifiche e coerenti […] ciò che conta soprattutto è il suo carattere eminentemente pratico“? Tutto qui?
Infine, siamo tutti convinti che “un carattere usato come si deve è invisibile”? La tipografia, insomma, deve essere proprio “trasparente e invisibile”, come reclama l’apex del discorso, o si tratta di un piacevole espediente retorico ad effetto, frutto di una polemica importante ma datata? Una meditata consapevolezza della dialettica leggibilità/visibilità del carattere/testo, maturata nella composizione della pagina, non è forse uno dei fondamenti stessi della progettazione tipo-grafica?
Forse è fin troppo facile smontare gli assunti di The Crystal Goblet ed è certo meglio assaporarlo, come un vino assai invecchiato, per il suo indubbio valore di documento, di un’epoca e di una mentalità, comprendendolo entro la sua cornice storica.
Vien da chiedersi, però, se la nostra brava Beatrice avesse mai provato davvero a bere del vino da una coppa d’oro, magari alla temperatura giusta…
[in “Progetto grafico” (Milano), 8, giugno, p. 177]
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