18.12.04

[2004#09] la sfida del design


Per ragionare con una qualche agile destrezza, come qui si conviene, di arte e design, bisognerebbe esser più o meno certi di intendersi reciprocamente; in altri termini, sarebbe bene ritenersi grosso modo sicuri di concordare sul significato che attribuiamo alle due parole, non prive di interpretazioni molteplici e spesso contraddittorie, talora anche confuse e vaghe, sia nel linguaggio comune che in quelli specialistici.
Altrimenti, son garantiti fischi per fiaschi; il che è possibile e, in una certa misura, alla fin fine, probabile.
Non è poi così grave; corriamo il rischio e andiamo brevemente avanti, perché comunque le definizioni (necessarie a ogni discorso con pretese scientifiche e non salottiere) non sempre soddisfano, astrattamente scandite. Forse può bastare avvicinarsi da un lato solo alla questione, prendendola dalla parte del fare, dei designers più che del design, ad esempio.
“È difficile dare una esatta definizione di industrial designer, ma credo che risulti chiaro quello che io definisco un vero industrial designer: colui che, lavorando in gruppo progetta e realizza oggetti veri per dei bisogni reali. Il suo lavoro è produrre oggetti di grande serie per la comunità: molto diverso da quello dell’artista che produce opere rare per sé o destinate a una élite” ha spiegato Achille Castiglioni, con vissuta competenza, precisando che “i vari tentativi di dare definizioni della parola design sono quasi sempre inutili, ma è altrettanto vero che inquadrare, anche solo entro labili confini, un’area di progettualità è abbastanza importante per combattere almeno la maniacale visione totalizzante del design di oggi: tutto, ovunque, è sempre design, dalla moda all’architettura, dall’urbanistica alla grafica, fino all’engineering, ecc. Sostanzialmente, invece, si tratta di occuparsi seriamente e con caratteristiche non effimere del progetto di produzione, nel nostro ambiente artificiale, o meglio di accettare la sfida del progetto del nostro futuro artificiale”.
Per chi si riconosca in questa posizione, resta veramente poco da aggiungere, se non riconoscere che, d’altro canto, la storia (delle arti, in senso lato) mostra con evidenza come taluni uomini siano capaci di essere, al contempo, artisti e designers (e altro ancora, in certi casi): come definiremmo, altrimenti, figure quali Peter Behrens o Franco Grignani, tanto per citarne due? Il che suggerisce anche come siano complesse, sfaccettate e plurali le strade su cui possono continuare a misurarsi le sfide di progetto per gli arte-fatti del nostro futuro.
A chi, invece, dissente, lasciamo tutta la consolazione dell’invenzione geniale di Karl Philipp Moritz e del pensiero romantico: l’arte come autonoma attività creativa[*], all’occorrenza spalmabile sul design qb, si raccomanda con cura, come ogni buon cosmetico; ma in questo caso, la sfida del progetto pare già persa.
nota
(* Non a caso, molti tra i dissenzienti vengon chiamati “creativi”.)

[La sfida del design, in “Sugo” (Venezia), 2005, 2, pp. 174 e 193]


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