[2004#06] caratteri d'italia 2
testo idem [2002#03]
L’Italia s’è desta? Forse s’era solo distratta; al peggio, leggermente appisolata. Fuor di metafora – e di riferimento al patrio inno di Mameli –, la situazione italiana è diversa da quel che si crede comunemente, soprattutto all’estero. E cioè anche l’Italia ha i suoi disegnatori di lettere e caratteri, digitali ovviamente, e non son pochi. Ma prima di dar loro voce, quattro osservazioni introduttive.
Prima annotazione
Vorrei ribadire il fatto che il disegno dei caratteri fa parte, è materia (dal punto di vista scientifico, didattico e professionale) che pertiene strettamente al disegno industriale, più precisamente a quel vasto campo dell’industrial design che si chiama visual design: la grafica, in italiano. I caratteri son frutto del lavoro di disegnatori che dovrebbero esser educati alla calligrafia, all’estetica delle lettere e alla storia dell’arte della stampa, frutto del lavoro cioè di progettisti visuali che credo dovrebbero avere piena consapevolezza della duplicità intrinseca di ogni artefatto umano. Ogni artefatto umano infatti è, in gradi internamente variabili, allo stesso tempo prestazionale ed espressivo, è funzionalità e comunicazione, è usabilità e appropriatezza formale, interfacciate assieme. In linea di principio, non esistono materiali brutti o belli: sbagliati posson essere invece il progetto di un carattere o l’uso di un carattere in un contesto specifico.
Seconda annotazione
È importante osservare che, proprio in relazione a quanto appena detto, i caratteri non sono tanto prodotti autonomi quanto elementi di una catena, di un ciclo industriale ideativo-produttivo-distributivo. I tipi sono sì oggetti finiti e complessi ma sono soprattutto componenti basilari, materiali essenziali per il lavoro tipo—grafico, cioè (come i mattoni per l’architetto) sono elementi strutturali per il grafico che li sceglie, li usa, li impagina, ne fa fogli e pagine stampate, anche sullo schermo, oltre che sulla carta. Sono i progettisti visuali i veri utilizzatori, i destinatari primi dei caratteri, anche se gli utenti finali siamo noi tutti, i lettori; e il giudizio dei grafici è determinante nella questione. Se non ne trovano di coerenti alle loro intenzioni progettuali, non di rado disegnano lettere atte a soddisfare tali intenzioni, e da queste sperimentazioni (la storia ci insegna) sono nati molti dei più importanti caratteri che conosciamo.
Terza annotazione
Non dobbiamo dimenticare che la storia dei tipi è anche una storia di rinascite, di riprese continue, legate ai mutamenti delle tecnologie, dei sistemi e dei mezzi di produzione, oltre che legata sia al lento trascorrere del gusto e delle forme che li accomunano alla storia delle arti, sia al mutare del quadro dell’alfabetizzazione e della cultura, che li legano alla storia sociale della comunicazione e dello sviluppo della civiltà, più in generale. Insomma, il nuovo – qui più che in altre vicende storico-artistiche – nei caratteri si innesta perlopiù su un resistente ramo della tradizione; qui il tradimento, lo sviamento necessario dell’innovazione quasi sempre si confronta e si misura volente o nolente con la certezza della tradizione. Ed è interessante notare come nei momenti di svolta (non tanti, a dire il vero), nei pochi punti di crisi, legati alle vere trasformazioni produttive, la tradizione svela anche una particolare resilienza, una elastica capacità di riprender tono, di riaffiorare, di riprendersi, come quei materiali plastici che hanno memoria della loro forma. Gutenberg per primo imita, riprende le grafie manuali, le scritture dei codici; lo stesso farà Griffo con il corsivo; con le macchine compositrici meccaniche, quali la Linotype e la Monotype, nella prima metà del novecento, si assiste a un serio revival storico, come esemplifica il lavoro svolto da Stanley Morison; e ancora, il passaggio alla fotocomposizione riavvia il tema della traduzione in nuove tecnologie che oggi trionfa con il digitale. Rammentiamoci che i tipi di cui disponiamo oggi son solo quelli digitali e, per varie ragioni, la vicenda italiana del novecento non ha ancora trovato esauriente traduzione, o meglio ripresa cioè copia intelligente, in questo formato.
Quarta e ultima annotazione
La tradizione dell’Italia è storicamente di primissimo ordine, nel campo delle scritture e dei tipi: basti ricordare che l’alfabeto occidentale è quello romano-latino, che le forme più diffuse dei tipi di piombo prendon forma tra secondo quattrocento e primo cinquecento in Italia (a Venezia, in particolare) sulla scia del rinascimento, che figure come Manuzio o Bodoni – ad esempio – sono tra i più genuini e alti interpreti della tipografia dei loro tempi. La vicenda italiana del novecento, poco studiata e solo di recente (se non ci fosse Questioni di carattere, il prezioso volume di Manuela Rattin e Matteo Ricci, uscito nel 1997, non sapremmo dove indirizzare chi ci chieda letteratura sul tema), ha una sua particolare complessione, che ha bisogno di essere ancora approfondita, così come meritano di trovare traduzione digitale vari caratteri italiani del novecento. È un insieme di fattori che ha consentito il primato tedesco e anglo-americano nel campo del disegno dei tipi nel novecento. Grandi fonderie, vere imprese multinazionali, con volontà di mercato ma anche di ricerca; buone scuole superiori di arti grafiche; la fortuna di aver dei magistrali calligrafi e dei notevolissimi disegnatori industriali di caratteri, che presso tali scuole si son spesso formati o hanno a loro volta formato, e per le grandi fonderie hanno lavorato. L’Italia di rilievo internazionale ha avuto in sostanza una sola fonderia (naturalmente, anche produttrice di macchine da stampa), la Nebiolo, che è stata malamente dismessa dopo una gloriosa vicenda; il problema delle scuole superiori e non puramente professionali di arti grafiche si è posto solo in anni recenti (con minime eccezioni precedenti e una quasi totale cecità pubblica). Non mi pare di rilievo, nel senso appena indicato, la vicenda dei patrii calligrafi; numericamente pochi, e abbastanza particolari come figure, i nostri disegnatori di tipi lungo l’arco del novecento: da Raffaello Bertieri a Francesco Pastonchi, dall’oriundo Giovanni Mardersteig all’eccentrico Alberto Tallone, fino a Francesco Simoncini. A fianco di questi, l’equipe della Nebiolo, in particolare lo studio artistico della fonderia torinese, istituito nel 1933: da Giulio da Milano a Alessandro Butti fino al più noto e fecondo dei disegnatori italiani di tipi del secondo novecento, cioè Aldo Novarese. Dunque, delle ragioni obiettive per un ruolo non di primissimo piano dell’Italia nel novecento seppur ancora non indagato a fondo. Ma oggi? oggi un’ennesima rinascita, che è planetaria: con il digitale, la fonderia sta in un computer portatile; certo, poi i caratteri van fatti conoscere, distribuiti, venduti, protetti, perché non restino un hobby; contemporaneamente, qualcuno deve provvedere a un’adeguata formazione: si può essere, ma non basta, autodidatti, perché ciò non permette di affrontare la complessità di progettazione e del prodotto, che è e resta industriale.
[intervento alla conferenza Atypi 2002 Roma, in "Progetto grafico" (Roma), 2004, 2, maggio, pp.]
L’Italia s’è desta? Forse s’era solo distratta; al peggio, leggermente appisolata. Fuor di metafora – e di riferimento al patrio inno di Mameli –, la situazione italiana è diversa da quel che si crede comunemente, soprattutto all’estero. E cioè anche l’Italia ha i suoi disegnatori di lettere e caratteri, digitali ovviamente, e non son pochi. Ma prima di dar loro voce, quattro osservazioni introduttive.
Prima annotazione
Vorrei ribadire il fatto che il disegno dei caratteri fa parte, è materia (dal punto di vista scientifico, didattico e professionale) che pertiene strettamente al disegno industriale, più precisamente a quel vasto campo dell’industrial design che si chiama visual design: la grafica, in italiano. I caratteri son frutto del lavoro di disegnatori che dovrebbero esser educati alla calligrafia, all’estetica delle lettere e alla storia dell’arte della stampa, frutto del lavoro cioè di progettisti visuali che credo dovrebbero avere piena consapevolezza della duplicità intrinseca di ogni artefatto umano. Ogni artefatto umano infatti è, in gradi internamente variabili, allo stesso tempo prestazionale ed espressivo, è funzionalità e comunicazione, è usabilità e appropriatezza formale, interfacciate assieme. In linea di principio, non esistono materiali brutti o belli: sbagliati posson essere invece il progetto di un carattere o l’uso di un carattere in un contesto specifico.
Seconda annotazione
È importante osservare che, proprio in relazione a quanto appena detto, i caratteri non sono tanto prodotti autonomi quanto elementi di una catena, di un ciclo industriale ideativo-produttivo-distributivo. I tipi sono sì oggetti finiti e complessi ma sono soprattutto componenti basilari, materiali essenziali per il lavoro tipo—grafico, cioè (come i mattoni per l’architetto) sono elementi strutturali per il grafico che li sceglie, li usa, li impagina, ne fa fogli e pagine stampate, anche sullo schermo, oltre che sulla carta. Sono i progettisti visuali i veri utilizzatori, i destinatari primi dei caratteri, anche se gli utenti finali siamo noi tutti, i lettori; e il giudizio dei grafici è determinante nella questione. Se non ne trovano di coerenti alle loro intenzioni progettuali, non di rado disegnano lettere atte a soddisfare tali intenzioni, e da queste sperimentazioni (la storia ci insegna) sono nati molti dei più importanti caratteri che conosciamo.
Terza annotazione
Non dobbiamo dimenticare che la storia dei tipi è anche una storia di rinascite, di riprese continue, legate ai mutamenti delle tecnologie, dei sistemi e dei mezzi di produzione, oltre che legata sia al lento trascorrere del gusto e delle forme che li accomunano alla storia delle arti, sia al mutare del quadro dell’alfabetizzazione e della cultura, che li legano alla storia sociale della comunicazione e dello sviluppo della civiltà, più in generale. Insomma, il nuovo – qui più che in altre vicende storico-artistiche – nei caratteri si innesta perlopiù su un resistente ramo della tradizione; qui il tradimento, lo sviamento necessario dell’innovazione quasi sempre si confronta e si misura volente o nolente con la certezza della tradizione. Ed è interessante notare come nei momenti di svolta (non tanti, a dire il vero), nei pochi punti di crisi, legati alle vere trasformazioni produttive, la tradizione svela anche una particolare resilienza, una elastica capacità di riprender tono, di riaffiorare, di riprendersi, come quei materiali plastici che hanno memoria della loro forma. Gutenberg per primo imita, riprende le grafie manuali, le scritture dei codici; lo stesso farà Griffo con il corsivo; con le macchine compositrici meccaniche, quali la Linotype e la Monotype, nella prima metà del novecento, si assiste a un serio revival storico, come esemplifica il lavoro svolto da Stanley Morison; e ancora, il passaggio alla fotocomposizione riavvia il tema della traduzione in nuove tecnologie che oggi trionfa con il digitale. Rammentiamoci che i tipi di cui disponiamo oggi son solo quelli digitali e, per varie ragioni, la vicenda italiana del novecento non ha ancora trovato esauriente traduzione, o meglio ripresa cioè copia intelligente, in questo formato.
Quarta e ultima annotazione
La tradizione dell’Italia è storicamente di primissimo ordine, nel campo delle scritture e dei tipi: basti ricordare che l’alfabeto occidentale è quello romano-latino, che le forme più diffuse dei tipi di piombo prendon forma tra secondo quattrocento e primo cinquecento in Italia (a Venezia, in particolare) sulla scia del rinascimento, che figure come Manuzio o Bodoni – ad esempio – sono tra i più genuini e alti interpreti della tipografia dei loro tempi. La vicenda italiana del novecento, poco studiata e solo di recente (se non ci fosse Questioni di carattere, il prezioso volume di Manuela Rattin e Matteo Ricci, uscito nel 1997, non sapremmo dove indirizzare chi ci chieda letteratura sul tema), ha una sua particolare complessione, che ha bisogno di essere ancora approfondita, così come meritano di trovare traduzione digitale vari caratteri italiani del novecento. È un insieme di fattori che ha consentito il primato tedesco e anglo-americano nel campo del disegno dei tipi nel novecento. Grandi fonderie, vere imprese multinazionali, con volontà di mercato ma anche di ricerca; buone scuole superiori di arti grafiche; la fortuna di aver dei magistrali calligrafi e dei notevolissimi disegnatori industriali di caratteri, che presso tali scuole si son spesso formati o hanno a loro volta formato, e per le grandi fonderie hanno lavorato. L’Italia di rilievo internazionale ha avuto in sostanza una sola fonderia (naturalmente, anche produttrice di macchine da stampa), la Nebiolo, che è stata malamente dismessa dopo una gloriosa vicenda; il problema delle scuole superiori e non puramente professionali di arti grafiche si è posto solo in anni recenti (con minime eccezioni precedenti e una quasi totale cecità pubblica). Non mi pare di rilievo, nel senso appena indicato, la vicenda dei patrii calligrafi; numericamente pochi, e abbastanza particolari come figure, i nostri disegnatori di tipi lungo l’arco del novecento: da Raffaello Bertieri a Francesco Pastonchi, dall’oriundo Giovanni Mardersteig all’eccentrico Alberto Tallone, fino a Francesco Simoncini. A fianco di questi, l’equipe della Nebiolo, in particolare lo studio artistico della fonderia torinese, istituito nel 1933: da Giulio da Milano a Alessandro Butti fino al più noto e fecondo dei disegnatori italiani di tipi del secondo novecento, cioè Aldo Novarese. Dunque, delle ragioni obiettive per un ruolo non di primissimo piano dell’Italia nel novecento seppur ancora non indagato a fondo. Ma oggi? oggi un’ennesima rinascita, che è planetaria: con il digitale, la fonderia sta in un computer portatile; certo, poi i caratteri van fatti conoscere, distribuiti, venduti, protetti, perché non restino un hobby; contemporaneamente, qualcuno deve provvedere a un’adeguata formazione: si può essere, ma non basta, autodidatti, perché ciò non permette di affrontare la complessità di progettazione e del prodotto, che è e resta industriale.
[intervento alla conferenza Atypi 2002 Roma, in "Progetto grafico" (Roma), 2004, 2, maggio, pp.]
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