10.12.04

[2004#01] john maeda


La grafica di Maeda
La Fondation Cartier annuncia per il 2005 una mostra monografica a Parigi su John Maeda, che «Esquire» ha incluso tra le 21 Most Important People of the 21st Century. Nato a Seattle nel 1966, Maeda si è laureato nel 1988 al Mit, prestigiosa scuola ove, dopo essere stato Associate Director del Media Laboratory nel 2000-01, oggi è Associate Professor di Design and Computation e dirige il Plw, Physical Language Workshop. Il Plw rappresenta la rinascita, in altre vesti, dell’Acg, Aesthetics + Computation Group, che Maeda aveva precedentemente diretto, sulla scorta di alcune idee del celebre e fondativo Visible Language Workshop di Muriel Cooper. Fondato nel 1996, l’Acg è stato un laboratorio sperimentale di ricerca, ove Maeda ha sviluppato Design By Numbers (a cui Mit Press ha dedicato un volume), al contempo sia ambiente che linguaggio di programmazione, quale introduzione al design computazionale per progettisti visuali e artisti, sviluppandolo fino al 2002. Nelle attuali ricerca del Plw, Maeda si indirizza alla soluzione di problemi ancora irrisolti di espressione digitale nei campi della visualità, dell’economia globale e dello spazio fisico, come documentano due progetti in corso di elaborazione: OpenAtelier e Treehouse Studio. Prima di arrivare al Mit, Maeda si era fatto notare, tra l’altro, per i lavori pubblicati nella collana Reactive Books: giocosi libretti a tema, dotati di originale software ad hoc; dopo 4 ormai quasi irreperibili uscite (dedicate rispettivamente a suono, tempo, tastiera e mouse), la collana –sostenuta dalla generosità di Naomi Enami, l’editore– si è interrotta, lasciando in sospeso l’uscita del numero 5, dedicato al video. Da allora, una carriera fulminea, che ha portato Maeda nell’empireo del Media Lab di Negroponte, con notevoli riconoscimenti accademici, espositivi, culturali e editoriali, quali le ben 480 pagine del tomo magno maeda@media del 2000, e una fortuna globale quale Graphic designer.
Tutto ciò contribuisce mirabilmente alla confusione che impera oggi nella “grafica”, nei rispetti cioè di una area professionale altrimenti ben definita quale la progettazione visuale, con il concorso del monopolio editoriale che il mondo di lingua inglese vi detiene, non senza discreta arroganza. È dagli anni ottanta, almeno, che lo star-system ha inghiottito, a partire dagli Usa, quanto si elabora di significativo (con peculiari disattenzioni e omissioni) in termini di progettazione grafica, sottoponendola alla tirannia delle tendenze e dei protagonismi effimeri –basterebbe ricordare, uno per tutti, il caso di Carson. Tale parrebbe l’estensione del termine “grafica” da potervi includere le più varie competenze e attitudini, dall’artista al designer (magari mescolati in uno), dalla stampa ad ogni e qualsiasi forma di visualizzazione. La straordinaria fama raggiunta da Maeda, pur non priva di meriti, ben esemplifica questo stato dell’arte. Da una parte, non si possono non apprezzare i suoi originali tentativi di esplorazione computazionale e non condividere le sue osservazioni sulla opportunità che il grafico sappia, all’occorrenza, costruirsi i propri strumenti, per non rimanerne imbrigliato: come dimostrano i palesi limiti di quasi tutto il software disponibile, con il loro portato di planetaria omogeneizzazione d’espressione e di distrazione dalla tradizione. Dall’altra, a compulsare, su carta e online, quanto Maeda ha prodotto di ciò che viene identificato come grafica, si scoprono dei piacevoli giochi informatici, assieme a gradevoli e suadenti disegni, che altro non sono che visualizzazioni di funzioni matematiche o esercizi di Postscript, il principe del pdl. Insomma, effetti neanche tanto speciali, di una intelligente e didascalica maniera d’illustrare l’immaginario digitale, la cui complessione mal si attaglia, se non per reiterati equivoci, a far di Maeda un protagonista della progettazione visuale contemporanea, quanto un abile e intelligente tecnologo della computazione visiva.

bibliografia di John Maeda
The Reactive Square, libretto e diskette, 1995
Flying Letters, libretto e diskette, 1996
12o o’clocks, libretto e cd, 1997
Tap, Type, Write, libretto e cd, 1998
(tutt’e 4 nella collana Reactive Books della Digitalogue)
Design By Numbers, Mit Press, Cambridge (MA) 1999, introduzione di Paola Antonelli
maeda@media, Rizzoli / Thames&Hudson, New York / London 2000, introduzione di Nicholas Negroponte
Some Recent Thoughts On Digital Media, negli atti del congresso Designing Interactive Systems, ACM Press, New York 2002, pp. 15-18

per ulteriori informazioni maedastudio

Intervista a John Maeda
D – Nel 1984, lei si è iscritto al Mit (la prima generazione di studenti con un computer Apple Mac a disposizione!), con l’idea di fare il Gui designer, cioè il progettista di interfacce-utente grafiche; poi ha optato per il Graphic design, per diventare progettista visuale. Per lei, che cosa significava design?
R – Al tempo dei miei studi, per design intendevo qualcosa di molto diverso da quanto penso oggi. Credevo fosse una sorta di magia sensibile, in cui un mix di immaginazione, personale filosofia, oggetti del mondo e icorpo dovevano fondersi in un’unica istanza creativa. Non ho più questa nozione magica del design.
D – Qual è la differenza tra un artista e un designer?
R – La questione è annosa; me la son spesso posta ma ora molto meno. Certo, non posso fare a meno di pensarci, perché mi rendo conto che è come dire “questo è bianco, questo è nero”: in realtà, arrista e designer sono la stessa figura ma la società tende a dire “tu sei quello e tu quell’altro”. Penso sia una specie di sciocca convenzione generale.
D – Qual è la differenza, allora, tra buon design e cattivo design?
R – Credo sia la differenza che c’è tra qualcosa di rilevante e di irrilevante; non è questione di opinioni, è invece una nozione molto razionale: ma questa differenza non dovrebbe affatto esserci –questo è il problema da porre.
D – Quali sono le qualità fondamentali per un designer, oggi?
R – Le stesse di sempre, penso: avere dell’intuito e il senso di un futuro in cui si possono cambiare delle cose. Sono qualità non troppo frequenti, oggi, perché molti giovani non colgono l’opportunità di traformazioni nel futuro: sono quelli che pensano “c’è questo programma per le immagini, l’usano tutti” oppure “cosa posso farci, adesso c’è la rete!”. Il senso di un futuro così è molto fiacco attualmente e, perciò, diventa difficile un design di qualità.
D – Qual è il suo segreto?
R – È buffo, molte persone chiedono qual è il mio segreto; quando replico che non lo so, si pensa che voglia nasconder qualcosa. Ho scritto dei ibri per spiegare quanto so ma i libri non restituiscono tutto. Forse il segreto è la mia famiglia e non è un vero segreto.
D – Come ha iniziato l’attività di designer?
R – In seguito a un curioso incidente, quando studiavo al Mit, che mi ha cambiato la vita: l’aver incrociato un testo quale Thoughts On Design di Paul Rand. Ho principiato dalla gavetta, con una cartolina, in Giappone, e poi cartelle, menu, minime cose di grafica d’ogni tipo. Ho avuto la fortuna di conoscere molti grandi designers giapponesi, che mi hanno –per così dire– adottato.
D – “L’arte è in primo luogo problema di forma, non di contenuto”, come afferma Paul Rand citata in apertura del suo libro maeda@media?
R – Condivido la definizione di Rand, perché prospetta un percorso infinito di ricerca su come vediamo e sentiamo le cose, a fronte della comune scala dell’economia politico-sociale. Tento di raccordarmi a questa idea di arte e design, perché è una strada su cui proseguire.
D – Nella prefazione al volume appenta citato, Nicholas Negroponte sostiene che “il pensiero visuale è parte delle nostre vite, oggi più che mai […] noi non siamo solo digitali, siamo visuali”. Per lei, che cosa è il “pensiero visuale”?
R – Sul pensiero visuale è stato scritto molto e si può definire in vari modi. Credo che Negroponte intendesse dire, in quel passo, che oggi, per via del computer, siamo esposti a tanti linguaggi visuali classici e che li incontriamo con sempre maggior frequenza. A mio avviso, non è tanto importante questa osservazione, quanto il fatto che viviamo un periodo nel quale tutto il visivo è visibile, ecco tutto. L’invisibile, però, è assai più eccitante; l’attuale concentrarsi tanto sul visibile è abbastanza triste. Si perde tanto tempo in cose come “rosso come? non questo, quest’altro!”. Quando si entra nell’ambito dell’invisibile, ci si trova invece in uno spazio straordinario, ancora tutto da esplorare.
D – Negroponte scrive anche che lei “decostruisce il mondo digitale”: che cosa significa?
R – Non sono d’accordo con l’opinione diffusa circa il “digitale”, con le frasi comuni “questo è design digitale” e simili topiche. Si tratta soltanto di una forma di disegno: niente di nuovo, né di intrinsecamente diverso, né un altro tipo di trama o struttura. Quando cerchiamo di decostruire questo mondo, tentiamo di smontarlo e poi di rimetterlo insieme ma scopriamo che non è mai lo stesso, alla fine.
D – Negroponte scrive ancora che lei “essendo ambidestro nei rispetti della cultura orientale e occidentale, può vedere cose che a molti di noi sfuggono”: quali sono queste cose che ci sfuggono?
R – Credo sia stata una vera fortuna per me trovarmi in contatto con la cultura giapponese postbellica quando ero piccolo. Mio padre aveva lasciato il Giappone da giovane e nella sua comunità di emigrati la patria era sentita fortemente nei ricordi, mentre nel corso degli anni era cambiata. Ho avuto una visione romantica del Gappone, che m’è rimasta, assieme allo spirito americano.
D – Muriel Cooper, responsabile del fondamentale Visible Language Workshop del Mit, le suggerì che forse non vi avrebbe trovato quell’educazione visuale che cercava. A quale educazione visuale era interessato?
R – Cercavo una specie di onestà e di rispetto per il territorio visuale. Il Visible Language Workshop del Mit dava quest’immagine ma non era proprio così; il Mit, in termini generali, è la t finale della sigla: tecnologia.
D – Nella presentazione del libro, lei afferma che il suo lavoro negli anni novanta riflette un unico obiettivo: ilsuo personale tentativo di smontare la comune comprensione del computer. Che cosa è riuscito a smontare in quel decennio?
R – Ho tentato di essere corretto con il materiale, che è composto di strati. Sto cercando lo strato materiale di base; i materiali non mentono mai, sono gli strumenti che ingannano.
D – Com’è stata la sua adolescenza?
R – L’ho passata lavorando; mio padre era un lavoratore accanito; perciò amavo la scuola ma odiavo le vacanze.
D – Com’è arrivatao al Mit?
R – Era il sogno di mio padre, che almeno uno dei suoi figli andasse al Mit o a Harward. Era una follia ma in qualche modo riuscii ad arrivarci… fortuna!
D – Nel libro, lei fa riferimento alle opere di artisti come Kenneth Noland, A. Michael Noll e altri. Alla luce di ciò, l’arte che cos’è per lei?
R – Penso sia parte di un ciclo più ampio, l’ecosistema della cultura; oggi la manipolazione dei materiali è quotidiana ma la gente si stanca del quotidiano, vuole perfezione nei colori, nello spazio, ovunque. Per far ciò, serve un espansione del linguaggio: questo ampliamento era l’arte, le cui responsabilità sono poi ricadute sul design. Si tratta di un fenomeno morto; l’arte digitale è come il design digitale, non ‘è nulla di nuovo. Per me, arte implica espansione.
D – Può spiegare il significato di una sua nota affermazione: “le nostre mani sono il principale ostacolo nello sviluppo dell’arte grafica digitale”?
R – Quella frase del 1993 si riferisce al fatto che lavorare al computer è come avere a che fare con una operatrice meccanica o come avere un bambino in braccio e dirgli: “ok, premi il bottone, abbassalo, muovilo verso destra, alt alt, portalo giù”. In tutto ciò, le mani sono di ostacolo; se potessimo collegare la mente a quello spazio, potremmo trovare un nuovo modo di pensare.
D – Ritiene possibile individuare un’arte digitale, separata dal contesto di quella umana?
R – Questo è un ambito di discussione fondamentale. Stiamo cercando di portare la dimensione umana nel regno digitale. Siamo anche testimoni di esperimenti d’ogni tipo, in specie corporei: applicare la tecnologia come una vernice, spennellarla in giro, è un’arma a doppio taglio. Bisogna andare molto più a fondo; questo spazio profondo è la mente, a mio giudizio, più significativa e sicura del corpo.
D – È noto che lei ama i bambini e il gioco. Si vede come un bambino che gioca con una sofisticata sfida grafica?
R – Non vorrei che i bambini usassero i computer: non credo sia molto stimolante. Alle elementari i bambini usano il computer, per mezz’ora, con programmini di disegno, ci giocano e pensano “che bello!”. Altro che bello: il livello è bassissimo e a usar troppo il computer si rovinano le mani.
D – In un capitolo del suo libro, si legge che un quadro espressionista di Jackson Pollock contiene un numero di informazioni estremamamente più alto rispetto a un quadro suprematista di Malevic. Può spiegare questa affermazione? E chi preferisce, tra Pollock e Malevic?
R – Si tratta di una citazione, in realtà, da un testo sulla teoria dell’informazione. Mi sembra divertente che da questo punto di vista, il contenuto informativo di Pollock sia maggiore di quello di Malevic, in termini di quantità e non di qualità. Se pensiamo a internet, tutto è bits; ma che cos’è un bit? Il bit può esser tutto, secondo me. Personalmente preferisco Malevic, lo sento molto più distintamente.
D – “Programmare è il processo –cito ancora– di astrarre una forma grafica nelle sue componenti geometriche fondamentali”: lei si considera un artista grafico digitale o un programmatore di algoritmi per visualiizzare funzioni matematiche?
R – Ho cambiato area di ricerca, direi. La ragione principale per cui ho scritto maeda@media è che volevo smettere di fare tutto ciò che avevo fatto fino ad allora: ne avevo intravisto la conclusione. Tutto è possibile e non mi pare più tanto stimolante. Vorrei andar oltre l’idea degli algoritmi nella grafica: questo è il mio nuovo interesse.

[La grafica di Maeda, in “Casabella” (Milano), 2004, 722, maggio, pp. 88-93]

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