[2003#03] coca-cola e design
la comunicazione di The World’s Greatest–Ever Brand
[appunti di neografia contemporanea]
Salto triplo, a mo’ di premessa
1 . da L’esprit et la lettre di Roland Barthes
“La scrittura è fatta di lettere, e sia. Ma di cosa sono fatte le lettere? Si può cercare una risposta storica – sconosciuta per quanto concerne il nostro alfabeto – ma ci si può anche servire di questa domanda per spostare il problema dell'origine, per portare una concettualizzazione progressiva dell’entre–deux, del rapporto fluttuante, di cui noi stabiliamo l’ancoraggio sempre in maniera abusiva. In Oriente, civiltà ideografica, è ciò che sta fra la pittura e la scrittura che è tracciato, senza che si possa trasferire l’uno all’altro; ciò permette di eludere questa nostra legge scellerata di filiazione, Legge paterna, civile, mentale, scientifica: legge discriminante in virtù della quale collochiamo da una parte i grafici, dall'altra i pittori; da una parte i romanzieri e dall'altra i poeti. Ma la scrittura è una e il ‘discontinuo’ che la instaura dovunque fa di tutto ciò che scriviamo, dipingiamo, tracciamo, un unico testo”.
2 . da Variations sur l’écriture di Roland Barthes
“In uno stesso campo culturale o storico, scritture si disgiungono o si generano da altre scritture. Si oppongono, sovente, in ragione della funzione […] Ma altrettanto spesso si incontrano, nella nostra storia, tipi di scritture fondate su semplici differenziazioni di forme – differenze in certo modo non necessitate ma dalle quali è sempre possibile trarre, per contrappunto, questo e quel risvolto etico […] Per concludere, la scrittura, come qualsiasi fenomeno storico, è sovradeterminata: sembra sottoposta, ad un tempo, a cause materiali (la scrittura si restringe se bisogna risparmiare spazio, allorché il supporto costi caro) e a motivazioni spirituali (la scrittura si rastrema per avvicinarsi allo stile di un’epoca e, se mi è concesso, per ‘provare’ che c’è una filosofia della Storia: cioè che la Storia è una e unica)”.
3 . da Les mots et les choses di Michel Foucault:
“Il rapporto da linguaggio a pittura è un rapporto infinito [in quanto] sono irriducibili l’uno all’altra: vanamente si cercherà di dire ciò che si vede: ciò che si vede non sta mai in ciò che si dice; altrettanto vanamente si cercherà di far vedere […] ciò che si sta dicendo”.
Storia e cultura d’impresa
Occuparsi di una “bibita gassata” quale la Coca–Cola, di una marca™ e dei suoi marchi®, cioè del “prodotto” eponimo e dell’omonima ormai ultra–centenaria impresa, The Coca–Cola Company, che le è cresciuta attorno sino a divenire un impero economico globale (con le conseguenze che ciò implica, su molti fronti, più o meno evidenti e/o interrelati), potrebbe apparire esercizio, se non ozioso, almeno laterale e fors’anche un po’ fuori centro, nelle pagine di una rivista universitaria come questa, che mi ospita assai pazientemente.
Invece (almeno imho), significa avvicinarsi ad un cluster industrial–produttivo di singolare complessità, a un formidabile caso–di–studio aziendale, irriducibile a formule facili e ad analisi sveltamente esaustive, che fan presto a trasformarsi in ciance da bar o brusìo da salotto. Volendo, certamente, si potrebbe scrivere anche in poche pagine, una Storia universale della Coca–Cola dalle origini a oggi. Anzi, sarebbe relativamente facile, raccontandola nelle forme in cui più frequentemente la si trova esposta, episodiche e aneddotiche, superficial–generiche e alla fine di costrutto poco; azzarderei, se mi si passa il termine un po’ desueto (per la mia generazione, a suo tempo, assai consueto, invero), anche un po’ mistificanti. A loro modo, infatti, queste narrazioni (più fiction che historia) son spesso partecipi, inconsapelvomente magari, di una strategia persuasoria che se non è occulta, almeno non è trascurabile, quella della disinformacija o, più banalmente, delle “voci”, ventilabili secondo versi di segno + o – e connotabili artatamente: ricordate la cabaletta di Don Basilio (atto I, scena 6) nel Barbiere di Siviglia? A tutto utile, quest’approccio alle vicende Coca–Cola stile all–in–one-column ovvero “in–poche–parole–il–succo” (tanto amato dalla tivù e da certo giornalismo scribacchino), tranne che alla comprensione critica e all’indagine storica, teorica, operativo–documentaria, nel campo del progetto e dell’impresa industriali: obiettivo comune e programmatico, in questa sede consortile di specifico confronto culturale tra sedi selette, luoghi diversi, centri geograficamente distanti quanto intellettualmente prossimi dell’elaborazione universitaria in Italia.
Nello spazio disponibile, anche per evitare d’esser troppo invasivi (la materia, del resto, dispone di corposissima bibliografia e di assai ricca documentazione, anche e probabilmente ancor più on–line, nell’inter–rete ecumenica del www), è d’uopo fermarsi al tentativo di descrivere, secondo visuali angolate ma coerenti – almeno a mio avviso, s’intenda – in/a questa sede, soltanto alcuni tratti salienti (per la prospettiva di chi scrive), alcuni frammenti significativi: orientati ritagli, obliqui scorci, mirate inquadrature di un ben più dilatato e plurivoco, screziato e sfumante panorama. Insomma, pochi ma buoni frames, solo in parte consecutivi, ritagliati da un continuum cronologico travalicante 110 anni, ove sarebbe util–opportuno districar le parentali genealogie: di un prodigio nel campo dei bibenda quale la Coca–Cola, nella storia pressocché unico, anche nei rispetti del disegno industriale, per la pluralità e la varietà di questioni ad esso pertinenti che, dalla fine dell’ottocento, ha sollevato, attraversato e investito; di un’impresa come The Coca–Cola Company, che nuota tuttora con lena nel gorgo marino del tempo, senz’esservi né affondata né affogata, pur dopo aver bevuto, in anni recenti, qualche amara sorsata d’acqua azzurra o più precisamente blu, e aver poi lasciato sul mercato, nella temibile Pepsi Challenge degli anni ottanta la contromossa – cioè la New Coke – per soli 77 giorni (di fronte a un corale, imperativo “Bring Back the Coca–Cola Classic” da parte del paese), vero record e flop colossale, dall’esito peraltro paradossalmente felice per la rossa. Aldilà dei “segreti” della bibita e delle leggende metropolitane che l’accompagnano, oltre le studiate banalità della sua saga (invero, raffinata come poche), la vicenda della Coca–Cola tocca questioni di tutto rilievo per l’Industrial Design. Solo per punti, e non esaustivi, basti far mente locale a: l’evoluzione sistemico–familiare, che ha portato da una rigorosa politica di monoprodotto alla diversificazione spinta (più di 20 soft drinks diversi, a principiare da Sprite – e poi TaB, Mello Yello, Mr Pibb, Fresca… – e oltre 5 tipi di Coke, a cominciare dalla Diet Coke, introdotta nei primi anni ottanta, con uno dei big deals di Roberto Goizueta, l’allora presidente novello di The Coca–Cola Company, scomparso prematuramente nel 1997), fino all’inedita se non eterodossa “filosofia” attuale, riassumibile nella mission “Think Locally, Act Locally”; le peculiari configurazioni sia delle forme sia dei modi (e, di speciale interesse per gli architetti, dei luoghi) della sua produzione, confezione e distribuzione; le caratteristiche di un’identità visuale e comunicativa per molti versi prototipica, sul piano del privato, forse quanto l’Aeg teutonica o le Ptt olandesi e il London Trasport britannico su quello del pubblico; la continua modulazione, adattativo-evolutiva (in termini sia temporali sia spaziali sia contestuali) di un sofisticato immaginario multisensoriale, per proiezione e introiezione di messaggi veicolati efficacemente; le modalità socio–culturali di consumo e le caratteristiche specifiche di ricezione planetaria; per tacere (da profano) di temi proprii ad ambiti economico–finanziari, organizzativio–pianificatorii e gestional–commerciali. Occuparsi a fondo della Coca–Cola significa riconoscere anche le responsabilità manageriali e i rischi d’impresa che, nella vicenda, hanno saputo assumere e gestire gli uomini messi ai vertici, sviluppando una specifica e durevole “cultura aziendale”; last but not least, implica rilevare il compito strategico ma non perciò esclusivo che la “comunicazione” ha svolto nei confronti del prodotto e della sua identità.
Non a caso, in un ormai classico saggio di Wally Olins sui temi del design identitario d’impresa (nell’accezione di strumento comunicativo in grado di rendere visibili le strategie d’affari, sia operative che prospettiche), qual è il volume intitolato Corporate Identity (Thames and Hudson, London 1989, p. 33), nel capitolo dedicato a The Corporate Search for Identity, l’autore si esprime in questi termini: “There are a number of identities that are largely communication–led […] Coca–Cola is a maroon fizzy liquid of – some would say – no intrinsic interest or merit. It is little different in itself from thousand of other soft drinks made all over the world. The imagery of Coca–Cola, however, is simply stupefying. Its global success is a tribute to the ingenuity, fanatical dedication and immense sum of money devoted to communication. The traditional bottle, the logotype, the colours, and the lavish adverstising on a mega scale have combined with obsessive attention to detail and an unequalled global distribution system to create the world’s greatest–ever brand. Through the most sophisticated techniques supported by untold billions of dollars, Coca–Cola has become synonymous more or less throughout the world with all the good things in life […] Because communication, more particularly advertising and packaging, gives life and personality to consumer product […] almost inevitably, therefore, many people have come to associate advertising with identity, or with image. This is a misleading and potentially dangerous idea, because is has the effect of devaluing the real power of product, environment and behaviour in the identity mix, at the risk of overvaluing information techniques. Perhaps even more importantly though, the idea that identity is somehow inextricably associated with conventional communication techniques, and particularly with advertising, inevitably distorts the reality, which is that identity is usually a manifestation of what the organization is all about; and that in the end, identity is the responsability of the people who run the organization and not only of its designers, public relations people or advertising agencies”.
Raccolte le osservazioni di Olins per definire una chiave di lettura con cui è difficile non esser concordi, poiché corre obbligo di rinunciare – espace oblige – a dipanare i plurali ed intrecciati fili della fascinosa vicenda Coca–Cola (dai singoli singolari protagonisti della sua ventura industriale, alla natura composizione preparazione confezione della bibita, dall’articolata vera e propria storia d’impresa alle filosofie di Marketing e Advertising, Merchandising e Customer–Care, per dirne solo alcune, di “The Thing”), non resta che riportare almeno delle annotazioni storiche su taluni aspetti marcanti della comunicazione di “The World’s Greatest–Ever Brand”.
Scritture e figure
Aggettivata dal cognome del suo inventore e propugnatore, Platt Rogers Spencer (1800–64), lo Spencerian Script è una scrittura tracciata a penna d’oca, genuinamente e originalmente nordamericana, ultimativamente raccolta nel fortunato opus magnum postumo The New Spencerian Compendium of Penmanship, curato dai suoi cinque figli, in due distanti edizioni (1879, 1887). Lo stile scrittorio dello Spencerian differisce abbastanza sensibilmente da quello dell’English Roundhand, la scrittura formale usata, fino alla prima metà dell’ottocento, dai Founding Fathers delle colonie britanniche d’oltreoceano, trasformatisi poi in rivoluzionari ribelli alla madrepatria, in nome dell’indipendenza degli United States of America (1776). L’English Roundhand Script, noto anche come Copperplate Script, era stato definitivamente canonizzato in patria da un capolavoro calligrafico quale The Universal Penman (London 1733–43) di George Bickham. L’English Roundhand, per intendersi, lo conosciamo (più o meno tutti, anche se non ne sappiamo il nome) come corsiva “inglese”, la scrittura che, ia, ancora fregia e contraddistingue letteralmente molte alte istituzioni pubbliche del nostro paese (ministeri, dintorni e superni). Paradossale, tuttavia, l’aggettivazione riferita alla terra d’Albione, per una scrittura che è erede diretta della corsiva bastarda, ideata dal milanese Giovanni Francesco Cresci (ca 1534–1614 ca), “Scrittore della Libraria Apostolica” vaticana dal 1556 e autore – ma non solo – del fondamentale Essemplare di piu sorti lettere… (Roma 1560) e de Il perfetto cancelleresco corsivo (Roma 1579). La cancelleresca bastarda di Cresci è “scrittura formale”, pratica scrittoria alto–burocratica e d’apparato, che verrà diffusa e ripresa nel corso dei secoli, grazie e attraverso interpretazioni magistrali, quali quelle secentesche prima dell’olandese Jan van den Velde, poi del francese Louis Barbedor, forse il maggiore esegeta dell’italienne–bastarde, lungo un seducente percorso di incessanti trasformazioni. A tal proposito, è utile riportare ciò che Giovanni Anceschi spiega nel suo basilare Monogrammi e figure (La casa Usher, Firenze–Milano 1981, p. 81), discettando di “un’altra scelta fondamentale di efficienze nella trasmissione. E ci riferiamo a quella della riproduzione (come produzione rinnovata) tipica delle repliche elastiche della scrittura, dove cioè non è indispensabile una perfetta sovrapponibilità fra modello e ripetizione. Essa si contrappone alla riproduzione meccanica o tecnica, caratterizzata da repliche rigide, o meglio sostanzialmente identiche. Rapidità esecutiva (previa una lenta predisposizione) per la riproduzione meccanica ed elasticità di restituzione per la riproduzione manuale sono gli obbiettivi di efficienza contrapposti”. Sperimentando replicazioni elastiche, la cancelleresca bastarda viene elaborata, ad esempio, in eleganti sobrie forme da Charles Snell, nel suo The Pen–man’s Treasury Open’d (London 1694), finendo per trovare intelligente traduzione nell’universo replicante hard, ad opera di Matthew Carter, con il carattere da stampa Snell Roundhand (1966), disegnato per la Linofilm – cioè per uno tra i primi, se non il primo sistema affidabile di fotocomposizione (1957) al mondo. Così come si trovano molte altre versioni novecentesche in piombo dello stile scrittorio English Roundhand: dal Künstler Schreibschrift (anglicizzato oggi in Kuenstler Script) della D. Stempel AG di Frankfurt a/M (1902), ripreso per la stessa fonderia da Hans Bohn (1957), al Palace Script (1923) della britannica Stephenson, Blake & Co. di Sheffield. D’uso comune per buona parte dell’ottocento e degli inizi del novecento negli Usa, anche lo Spencerian Script verrà sostituito da un altro sistema di lettere, più semplici da tracciare, adottato dalle scuole di New York City fin dal 1905. Si tratta della scrittura di Austin N. Palmer (1860–1927), autore di un’originale Palmer’s Guide to Muscolar Movement Writing (1888), di fatto semplificando il ductus peculiare dello Spencer, in coincidenza con la generale sostituzione della penna d’oca colpennino d’acciaio .
Prima che ciò si verificasse, la mano di Frank Mason Robinson (vero personaggio–chiave, eppur scarsamente noto, della vicenda Coca–Cola) traccia nel 1886, in un fluido ed elegante Spencerian Script, customizzato da un sapiente tocco personale, lo svolazzante logotipo Coca–Cola, il cui pristino utilizzo è per un’etichetta. Nel marzo del 1886 (l’anno d’inaugurazione della statua della libertà a New York), il buon Robinson aveva tentato invano di vendere una macchina da stampa bicolore a un non troppo fortunato, sebben strenuamente operoso, farmacista–imprenditore, residente ad Atlanta, in Georgia: John Stith Pemberton, l’inventore della “ricetta” della Coca–Cola. Risultato invece fu che Pemberton riuscì a convincere Robinson a partecipare, in società con altri, allo sfruttamento commerciale di uno sciroppo, di cui il farmacista stava perfezionando la formula nel suo laboratorio casalingo in 107 Marietta Street, quale base per una dissetante e tonificante bibita da drugstore. Mentre Pemberton sta ancora mettendo a punto la formula dello sciroppo, ultimata un fatidico 8 maggio del 1886, Robinson affronta e risolve il problema di come chiamarlo, con un’invenzione destinata a fare storia: il nome scelto è infatti Coca–Cola, che trae spunto fonetico–verbale da due degli ingredienti di maggiore presa, anche fantastica (estratto non alcoolico di foglie di coca sudamericana – nella composizione ancor’oggi è presente, come aromatizzante, un derivato decocainizzato delle foglie di eritroxylum – e noci di cola africana), per essere registrato come trade mark il 31 gennaio 1893, dopo assai complicate vicissitudini societarie. Un marchio commerciale più che notevole, tanto per la pronunciabilità pressocché panlinguistica, quanto per una pronta memorabilità, in virtù sia della duplice allitterazione (co–co e ca–la), sia dell’iterazione di tre c dure (k–k–k). La crescente, anzi travolgente fortuna della bevanda, venduta in bottiglia fin dal 1894, stimola ben presto la nascita di altri marchi competitori, pronti a sfruttare più o meno surrettiziamente sia il peculiare naming del prodotto–leader, sia il nomignolo con cui veniva abbreviato, già prima della Grande Guerra, ossia Coke, come prova la (sia pur temporanea) concorrenza della Koke Company of America. Ad ogni modo, poiché Coca–Cola è un nome composto, la protezione come trade mark vale per l’insieme ma non copre la seconda parte, tant’è che non mancano diverse “cola” sul mercato. Tutto ciò ha portato The Coca–Cola Company ad affrontare molti importanti dibattimenti giudiziari, a difesa del proprio marchio; due di particolare rilievo, nella seconda metà degli anni dieci del novecento: nel 1916, la causa vinta contro la concorrenza sleale, con l’eliminazione di marchi quali Candy Cola, Cay–Ola, Cold Cola, Fig Cola, Koca–Nola; nel 1920, lo storico pronunciamento della corte suprema degli Usa sull’esclusiva di The Coca–Cola Company sul nomignolo Coke (“It means a single thing, coming from a single source – sentenziò esemplarmente il giudice Oliver Wendell Holmes – and well known to the community”), apparso sulle bottiglie per la prima volta nel 1941 e infine registrato nel 1945.
Oltre al conio del nome e al disegno del marchio (presto definito anche nella versione con il logotipo bucato in bianco su fondo rosso primario), Frank Mason Robinson si occupò egregiamente ed ecumenicamente per la Coca–Cola di amministrazione, produzione, distribuzione, promozione e pubblicità. Il 29 maggio 1886 faceva infatti pubblicare il primo annuncio promozionale della bibita sulla stampa quotidiana locale, nelle pagine di “Atlanta Daily Journal”, impostando un claim durevole e marcante: “Coca–Cola. Delicious! Refreshing! Exhilarating! Invigorating! The New and Popular Soda Fountain Drink, containing the properties of the wonderful Coca plant and the famous Cola nuts. For sale by Willis Venable and Nunnally & Rawson”. Dopo la morte di Pemberton nel 1888 e l’acquisizione della proprietà intera della Coca–Cola (nel 1889–91, dopo non lineari percorsi) da parte di Asa Griggs Candler, fondatore nel 1892 di The Coca–Cola Company, Robinson continuò a sviluppare il programma di comunicazione e l’identità d’impresa, con sagaci intuizioni, attraverso un’estesa gamma di mezzi e con ampie risorse: inserzioni e pubblicità su periodici e quotidiani, tagliandi di consumo gratuito e tecniche analoghe di promozione, insegne e calendari (il primo, nel 1891, mostra curiosamente un marchio difforme da quello oggi universalemente noto, se è attendibile l’indice di 94% di riconoscibilità planetaria che assicurano le inchieste, registrato solo due anni dopo come trade mark), e persino il testimonial di una donna – la celebre cantante lirica Hilda Clark – già nel 1894, inaugurando un costume che, pur senza eccessi, dagli anni trenta del novecento vedrà altri testimonial d’eccellenza della Coca–Cola in dive e divi del cinema come Greta Garbo, Joan Crawford, Johnny Weissmuller. Nel 1890, riportano le cronache, l’investimento in comunicazione era pari (o forse superiore – su questa voce l’impresa è sempre stata molto abbottonata) ai ricavi delle vendite ma nel 1908 ben 2,5 milioni di metri quadri di superfici esposte reclamizzavano la Coca–Cola e oltre 10.000 vetrine esponevano le insegne aziendali. Tutto ciò per merito precipuo di Robinson, che a questa missione di propaganda si dedica fino al pensionamento nel 1913, nonostante il fatto che, per contrasti sorti intorno al 1906 sulle politiche promozionali, Sam Dobbs (responsabile delle forze di vendita e nipote del proprietario) finisca per sostituirlo al vertice dell’ufficio Advertising, che inizia proprio nel 1906 una straordinaria collaborazione con l’agenzia di pubblicità D’Arcy di St. Louis, destinata a durare fino al 1956 (in massima parte affidata alle mani del creativo Arthur “Archie” Lee), seguita poi dalla McCann–Erickson (1956–69). Una delle altre mosse vincenti di Candler, prima del passaggio in altre mani della proprietà (alla fine degli anni dieci del novecento), fu di affidare in franchising l’imbottigliamento della Coca–Cola, inaugurando un sistema distributivo grossomodo tutt’ora in uso, a cui è legata un’altra vicenda di non secondario tratto e cioè il packaging del prodotto: dalle prime bottiglie in vetro (nel 1899 la Hutchinson, nome di un sistema d tappatura, sostituite poi fino al 1916 dalle cilindro-coniche con tappo corona) alla classica hobble–skirt (la forma rigonfia che tutti conosciamo, prototipata in vesti ancor più turgide nel 1915 da The Root Glass Company di Terre Haute, nell’Indiana, ivi sviluppata definitivamente per mano dell’ingegnere svedese Alexander Samuelson e brevettata presso l’ufficio registri Usa nel 1916: secondo Raymond Loewy, progettista per la Coca–Cola anche di un celebre streamlined dispenser, che curerà un sobrio redesign della hobble–skirt, “the most perfectly designed package in the world”), dalle lattine metalliche (la prima nel 1942, ad uso dei militari, con tappo corona – degli anni novanta l’adozione della versione risparmio in alluminio) al Classic & Diet Coca–Cola Space Dispenser per lo Shuttle Discovery (1995) fino ai polimeri d’universale adozione oggi, in una gamma sempre più ampia di formati e confezioni… ma questa è un’altra storia. È una storia che, lungo l’arco centrale del novecento, vede lo straordinario sviluppo planetario di The Coca–Cola Company nelle salde redini di Robert Woodruff, fino alla sua scomparsa nel 1980 (nonostante lasci la carica presidenziale nel 1955), attraverso politiche di valorizzazione del marchio e di marketing innovative: dalla prescrizione severa di standard unificanti e identificanti ogni aspetto del prodotto e della sua distribuzione all’adozione delle stazioni di servizio stradali come originali punti–vendita, dall’attacco a radio e cinema al ricorso al talento di illustratori straordinari quali lo svedese Haddon Sundblom (inventore dell’immagine moderna di Santa Claus, alias Babbo Natale, nella campagna del 1931, e, nella campagna del 1941, dell’allegro Sprite, destinato poi a battezzare l’omonima bevanda) e l’americanissimo Norman Rockwell, dalla diffusione di dispenser e cooler ovunque alla fornitura assicurata della bevanda su tutti i fronti americani durante la seconda guerra mondiale: al cui termine, The Coca–Cola Company si sarà guadagnata 64 stabilimenti in tutti i continenti. Da questa solida base, la Coca–Cola (fino ad allora, sostanzialmente affermata solo negli Usa, a Cuba e in Germania) ripartirà per la conquista del pianeta nel dopoguerra, attraverso il rinnovarsi continuo della sfida comunicazionale nella nebulosa dei new media fino ai nostri giorni, con l’adozione, negli anni settanta, di un ondulante svolazzo (ad affiancare pittogrammaticamente il logotipo, tradotto in tutte le lingue) e celeberriml spot televisivi (particolarmente felici le immagini di fratellanza universale, girate in Italia, degli anni settanta e quelle spaziali alla fine degli ottanta), nonché l’affacciarsi nei bits (è del 2002 l’annuncio dell’archivio digitale, curato da Ibm, disponibile in intranet aziendale e forte di 24.000 files storici, immagini campagne filmati spot e via dicendo) e nel web.
Nel porre un necessario, a questo punto, termine alla nostra indagine, si potrebbe porre a suggello della vicenda identitaria della Coca–Cola, senza trovar in ciò conclusioni ultime, quanto ha sostenuto Marshall MacLuhan (non senza condivisibili obiezioni) circa i caratteri delle società umane e cioè che queste “sono sempre state plasmate più dalla natura dei media attraverso i quali gli uomini comunicano che non dal contenuto della comunicazione”.
headlines
la lista non è esaustiva e le datazioni hanno qualche, ovvia, approssimazione
(tra parentesi le versioni italiane)
1886
Delicious, Refreshing, Exhilarating
1895
Delightiful Summer and Winter Beverage
1900
Deliciously Refreshing
1905
Coca–Cola Revives and Sustains
1906
Great National Temperence Beverage
1908
Good To The Last Drop
1917
Three Million a Day
1920
Drink Coca–Cola With Soda
The hit That Saves The Day
1922
Thirst Knows No Season
1923
Refresh Yourself
There’s Nothing Like It When You’re Thirsty
1924
Pause and Refresh Yourself
1925
Pause and Refresh Yourself
1926
Stop At The Red Sign
1927
Around The Corner From Anywhere
At The Little Red Sign
1928
A Pure Drink Of Natural Flavors
1929
The Pause That Refreshes
1930
Meet Me At The Soda Fountain
1932
Ice Cold Sunshine
The Drink That Makes Pause Refreshing
1933
Don’t Wear A Tired, Thirsty Face
1934
When It’s Hard To Get Started, Start With A Coca–Cola
1935
All Trails Lead To Ice–Cold Coca–Cola
1936
Get The Feel Of Wholesome Refreshment
1937
Stop For A Pause... Go Refreshed
1938
The Best Friend Thirst Ever Had
Anytime Is The Right Time To Pause and Refresh
Pure As Sunlight
1939
Thirst Stops Here. Makes Travel More Pleasant
1940
The Package That Gets A Welcome At Home
1941
A Stop That Belongs On Your Daily Timetable
1942
The Only Thing Like Coca–Cola Is Coca–Cola Itself
1943
A Taste All It’s Own
1944
High Sign Of Friendship
1945
Coke Means Coca–Cola
1947
Relax With The Pause That Refreshes
(La pausa che ristora)
1948
Where There’s A Coke, There’s Hospitality
1949
Along The Highway To Anywhere
1950
Help Yourself To Refreshment
1951
Good Food And Coca–Cola Just Naturally Go Together
1952
Coke Follows Thirst Everythere
1953
Dependable As Sunshine
1954
For People On The Go
1955
Americans Prefer Taste
1956
Feel The Difference, Makes Good Things Taste Better
1957
Sign of Good Taste
1958
Refreshment The Whole World Prefers
1959
Make It The Real Meal
1959
Relax Refreshed With Ice–Cold Coca–Cola
(Per la pausa che ristora – la frizzante Coca–Cola)
1960
Relax With A Coke, Revive With A Coke
(Durante una pausa... gustate Coca–Cola)
1961
Coke And Food
(Coca–Cola... il miglior ristoro)
1962
Enjoy That Refreshing New Feeling
1963
Things Go Better With Coke
(Tutto è meglio con Coca–Cola)
1964
You’ll Go Better Refreshed
1965
Something More Than A Soft Drink
1966
Coke... After Coke... After Coke
(Ha sempre il gusto che ci vuole)
1970
It’s The Real Thing
(Tempo di Coca–Cola)
1971
I’d Like To Buy The World A Coke
1975
Look up America
1976
Coke Adds Life
(Coca–cola dà più vita a...)
1979
Have a Coke and a Smile
(...dà più vita a ciò che piace a te)
1982
Coke Is It
(Coca–Cola di più)
1986
Catch the Wave – Red, White and You
1987
Can’t Beat the Feeling
(Sensazione unica)
1988
Can’t Beat the Real Thing
(Sensazione unica)
1993–5
Always Coca–Cola
(Sempre Coca–Cola)
2000
Coca–Cola enjoy
2001
Life tastes good
[Strategie di comunicazione del più grande brand, in “diid” (Roma), 3/4, pp. 66-95, poi abbr. Coca-Cola storie di un marchio, in “Casabella” (Milano), 711, maggio, pp. 45-49]
cfr voce Coca—Cola in Wikipedia
[appunti di neografia contemporanea]
Salto triplo, a mo’ di premessa
1 . da L’esprit et la lettre di Roland Barthes
“La scrittura è fatta di lettere, e sia. Ma di cosa sono fatte le lettere? Si può cercare una risposta storica – sconosciuta per quanto concerne il nostro alfabeto – ma ci si può anche servire di questa domanda per spostare il problema dell'origine, per portare una concettualizzazione progressiva dell’entre–deux, del rapporto fluttuante, di cui noi stabiliamo l’ancoraggio sempre in maniera abusiva. In Oriente, civiltà ideografica, è ciò che sta fra la pittura e la scrittura che è tracciato, senza che si possa trasferire l’uno all’altro; ciò permette di eludere questa nostra legge scellerata di filiazione, Legge paterna, civile, mentale, scientifica: legge discriminante in virtù della quale collochiamo da una parte i grafici, dall'altra i pittori; da una parte i romanzieri e dall'altra i poeti. Ma la scrittura è una e il ‘discontinuo’ che la instaura dovunque fa di tutto ciò che scriviamo, dipingiamo, tracciamo, un unico testo”.
2 . da Variations sur l’écriture di Roland Barthes
“In uno stesso campo culturale o storico, scritture si disgiungono o si generano da altre scritture. Si oppongono, sovente, in ragione della funzione […] Ma altrettanto spesso si incontrano, nella nostra storia, tipi di scritture fondate su semplici differenziazioni di forme – differenze in certo modo non necessitate ma dalle quali è sempre possibile trarre, per contrappunto, questo e quel risvolto etico […] Per concludere, la scrittura, come qualsiasi fenomeno storico, è sovradeterminata: sembra sottoposta, ad un tempo, a cause materiali (la scrittura si restringe se bisogna risparmiare spazio, allorché il supporto costi caro) e a motivazioni spirituali (la scrittura si rastrema per avvicinarsi allo stile di un’epoca e, se mi è concesso, per ‘provare’ che c’è una filosofia della Storia: cioè che la Storia è una e unica)”.
3 . da Les mots et les choses di Michel Foucault:
“Il rapporto da linguaggio a pittura è un rapporto infinito [in quanto] sono irriducibili l’uno all’altra: vanamente si cercherà di dire ciò che si vede: ciò che si vede non sta mai in ciò che si dice; altrettanto vanamente si cercherà di far vedere […] ciò che si sta dicendo”.
Storia e cultura d’impresa
Occuparsi di una “bibita gassata” quale la Coca–Cola, di una marca™ e dei suoi marchi®, cioè del “prodotto” eponimo e dell’omonima ormai ultra–centenaria impresa, The Coca–Cola Company, che le è cresciuta attorno sino a divenire un impero economico globale (con le conseguenze che ciò implica, su molti fronti, più o meno evidenti e/o interrelati), potrebbe apparire esercizio, se non ozioso, almeno laterale e fors’anche un po’ fuori centro, nelle pagine di una rivista universitaria come questa, che mi ospita assai pazientemente.
Invece (almeno imho), significa avvicinarsi ad un cluster industrial–produttivo di singolare complessità, a un formidabile caso–di–studio aziendale, irriducibile a formule facili e ad analisi sveltamente esaustive, che fan presto a trasformarsi in ciance da bar o brusìo da salotto. Volendo, certamente, si potrebbe scrivere anche in poche pagine, una Storia universale della Coca–Cola dalle origini a oggi. Anzi, sarebbe relativamente facile, raccontandola nelle forme in cui più frequentemente la si trova esposta, episodiche e aneddotiche, superficial–generiche e alla fine di costrutto poco; azzarderei, se mi si passa il termine un po’ desueto (per la mia generazione, a suo tempo, assai consueto, invero), anche un po’ mistificanti. A loro modo, infatti, queste narrazioni (più fiction che historia) son spesso partecipi, inconsapelvomente magari, di una strategia persuasoria che se non è occulta, almeno non è trascurabile, quella della disinformacija o, più banalmente, delle “voci”, ventilabili secondo versi di segno + o – e connotabili artatamente: ricordate la cabaletta di Don Basilio (atto I, scena 6) nel Barbiere di Siviglia? A tutto utile, quest’approccio alle vicende Coca–Cola stile all–in–one-column ovvero “in–poche–parole–il–succo” (tanto amato dalla tivù e da certo giornalismo scribacchino), tranne che alla comprensione critica e all’indagine storica, teorica, operativo–documentaria, nel campo del progetto e dell’impresa industriali: obiettivo comune e programmatico, in questa sede consortile di specifico confronto culturale tra sedi selette, luoghi diversi, centri geograficamente distanti quanto intellettualmente prossimi dell’elaborazione universitaria in Italia.
Nello spazio disponibile, anche per evitare d’esser troppo invasivi (la materia, del resto, dispone di corposissima bibliografia e di assai ricca documentazione, anche e probabilmente ancor più on–line, nell’inter–rete ecumenica del www), è d’uopo fermarsi al tentativo di descrivere, secondo visuali angolate ma coerenti – almeno a mio avviso, s’intenda – in/a questa sede, soltanto alcuni tratti salienti (per la prospettiva di chi scrive), alcuni frammenti significativi: orientati ritagli, obliqui scorci, mirate inquadrature di un ben più dilatato e plurivoco, screziato e sfumante panorama. Insomma, pochi ma buoni frames, solo in parte consecutivi, ritagliati da un continuum cronologico travalicante 110 anni, ove sarebbe util–opportuno districar le parentali genealogie: di un prodigio nel campo dei bibenda quale la Coca–Cola, nella storia pressocché unico, anche nei rispetti del disegno industriale, per la pluralità e la varietà di questioni ad esso pertinenti che, dalla fine dell’ottocento, ha sollevato, attraversato e investito; di un’impresa come The Coca–Cola Company, che nuota tuttora con lena nel gorgo marino del tempo, senz’esservi né affondata né affogata, pur dopo aver bevuto, in anni recenti, qualche amara sorsata d’acqua azzurra o più precisamente blu, e aver poi lasciato sul mercato, nella temibile Pepsi Challenge degli anni ottanta la contromossa – cioè la New Coke – per soli 77 giorni (di fronte a un corale, imperativo “Bring Back the Coca–Cola Classic” da parte del paese), vero record e flop colossale, dall’esito peraltro paradossalmente felice per la rossa. Aldilà dei “segreti” della bibita e delle leggende metropolitane che l’accompagnano, oltre le studiate banalità della sua saga (invero, raffinata come poche), la vicenda della Coca–Cola tocca questioni di tutto rilievo per l’Industrial Design. Solo per punti, e non esaustivi, basti far mente locale a: l’evoluzione sistemico–familiare, che ha portato da una rigorosa politica di monoprodotto alla diversificazione spinta (più di 20 soft drinks diversi, a principiare da Sprite – e poi TaB, Mello Yello, Mr Pibb, Fresca… – e oltre 5 tipi di Coke, a cominciare dalla Diet Coke, introdotta nei primi anni ottanta, con uno dei big deals di Roberto Goizueta, l’allora presidente novello di The Coca–Cola Company, scomparso prematuramente nel 1997), fino all’inedita se non eterodossa “filosofia” attuale, riassumibile nella mission “Think Locally, Act Locally”; le peculiari configurazioni sia delle forme sia dei modi (e, di speciale interesse per gli architetti, dei luoghi) della sua produzione, confezione e distribuzione; le caratteristiche di un’identità visuale e comunicativa per molti versi prototipica, sul piano del privato, forse quanto l’Aeg teutonica o le Ptt olandesi e il London Trasport britannico su quello del pubblico; la continua modulazione, adattativo-evolutiva (in termini sia temporali sia spaziali sia contestuali) di un sofisticato immaginario multisensoriale, per proiezione e introiezione di messaggi veicolati efficacemente; le modalità socio–culturali di consumo e le caratteristiche specifiche di ricezione planetaria; per tacere (da profano) di temi proprii ad ambiti economico–finanziari, organizzativio–pianificatorii e gestional–commerciali. Occuparsi a fondo della Coca–Cola significa riconoscere anche le responsabilità manageriali e i rischi d’impresa che, nella vicenda, hanno saputo assumere e gestire gli uomini messi ai vertici, sviluppando una specifica e durevole “cultura aziendale”; last but not least, implica rilevare il compito strategico ma non perciò esclusivo che la “comunicazione” ha svolto nei confronti del prodotto e della sua identità.
Non a caso, in un ormai classico saggio di Wally Olins sui temi del design identitario d’impresa (nell’accezione di strumento comunicativo in grado di rendere visibili le strategie d’affari, sia operative che prospettiche), qual è il volume intitolato Corporate Identity (Thames and Hudson, London 1989, p. 33), nel capitolo dedicato a The Corporate Search for Identity, l’autore si esprime in questi termini: “There are a number of identities that are largely communication–led […] Coca–Cola is a maroon fizzy liquid of – some would say – no intrinsic interest or merit. It is little different in itself from thousand of other soft drinks made all over the world. The imagery of Coca–Cola, however, is simply stupefying. Its global success is a tribute to the ingenuity, fanatical dedication and immense sum of money devoted to communication. The traditional bottle, the logotype, the colours, and the lavish adverstising on a mega scale have combined with obsessive attention to detail and an unequalled global distribution system to create the world’s greatest–ever brand. Through the most sophisticated techniques supported by untold billions of dollars, Coca–Cola has become synonymous more or less throughout the world with all the good things in life […] Because communication, more particularly advertising and packaging, gives life and personality to consumer product […] almost inevitably, therefore, many people have come to associate advertising with identity, or with image. This is a misleading and potentially dangerous idea, because is has the effect of devaluing the real power of product, environment and behaviour in the identity mix, at the risk of overvaluing information techniques. Perhaps even more importantly though, the idea that identity is somehow inextricably associated with conventional communication techniques, and particularly with advertising, inevitably distorts the reality, which is that identity is usually a manifestation of what the organization is all about; and that in the end, identity is the responsability of the people who run the organization and not only of its designers, public relations people or advertising agencies”.
Raccolte le osservazioni di Olins per definire una chiave di lettura con cui è difficile non esser concordi, poiché corre obbligo di rinunciare – espace oblige – a dipanare i plurali ed intrecciati fili della fascinosa vicenda Coca–Cola (dai singoli singolari protagonisti della sua ventura industriale, alla natura composizione preparazione confezione della bibita, dall’articolata vera e propria storia d’impresa alle filosofie di Marketing e Advertising, Merchandising e Customer–Care, per dirne solo alcune, di “The Thing”), non resta che riportare almeno delle annotazioni storiche su taluni aspetti marcanti della comunicazione di “The World’s Greatest–Ever Brand”.
Scritture e figure
Aggettivata dal cognome del suo inventore e propugnatore, Platt Rogers Spencer (1800–64), lo Spencerian Script è una scrittura tracciata a penna d’oca, genuinamente e originalmente nordamericana, ultimativamente raccolta nel fortunato opus magnum postumo The New Spencerian Compendium of Penmanship, curato dai suoi cinque figli, in due distanti edizioni (1879, 1887). Lo stile scrittorio dello Spencerian differisce abbastanza sensibilmente da quello dell’English Roundhand, la scrittura formale usata, fino alla prima metà dell’ottocento, dai Founding Fathers delle colonie britanniche d’oltreoceano, trasformatisi poi in rivoluzionari ribelli alla madrepatria, in nome dell’indipendenza degli United States of America (1776). L’English Roundhand Script, noto anche come Copperplate Script, era stato definitivamente canonizzato in patria da un capolavoro calligrafico quale The Universal Penman (London 1733–43) di George Bickham. L’English Roundhand, per intendersi, lo conosciamo (più o meno tutti, anche se non ne sappiamo il nome) come corsiva “inglese”, la scrittura che, ia, ancora fregia e contraddistingue letteralmente molte alte istituzioni pubbliche del nostro paese (ministeri, dintorni e superni). Paradossale, tuttavia, l’aggettivazione riferita alla terra d’Albione, per una scrittura che è erede diretta della corsiva bastarda, ideata dal milanese Giovanni Francesco Cresci (ca 1534–1614 ca), “Scrittore della Libraria Apostolica” vaticana dal 1556 e autore – ma non solo – del fondamentale Essemplare di piu sorti lettere… (Roma 1560) e de Il perfetto cancelleresco corsivo (Roma 1579). La cancelleresca bastarda di Cresci è “scrittura formale”, pratica scrittoria alto–burocratica e d’apparato, che verrà diffusa e ripresa nel corso dei secoli, grazie e attraverso interpretazioni magistrali, quali quelle secentesche prima dell’olandese Jan van den Velde, poi del francese Louis Barbedor, forse il maggiore esegeta dell’italienne–bastarde, lungo un seducente percorso di incessanti trasformazioni. A tal proposito, è utile riportare ciò che Giovanni Anceschi spiega nel suo basilare Monogrammi e figure (La casa Usher, Firenze–Milano 1981, p. 81), discettando di “un’altra scelta fondamentale di efficienze nella trasmissione. E ci riferiamo a quella della riproduzione (come produzione rinnovata) tipica delle repliche elastiche della scrittura, dove cioè non è indispensabile una perfetta sovrapponibilità fra modello e ripetizione. Essa si contrappone alla riproduzione meccanica o tecnica, caratterizzata da repliche rigide, o meglio sostanzialmente identiche. Rapidità esecutiva (previa una lenta predisposizione) per la riproduzione meccanica ed elasticità di restituzione per la riproduzione manuale sono gli obbiettivi di efficienza contrapposti”. Sperimentando replicazioni elastiche, la cancelleresca bastarda viene elaborata, ad esempio, in eleganti sobrie forme da Charles Snell, nel suo The Pen–man’s Treasury Open’d (London 1694), finendo per trovare intelligente traduzione nell’universo replicante hard, ad opera di Matthew Carter, con il carattere da stampa Snell Roundhand (1966), disegnato per la Linofilm – cioè per uno tra i primi, se non il primo sistema affidabile di fotocomposizione (1957) al mondo. Così come si trovano molte altre versioni novecentesche in piombo dello stile scrittorio English Roundhand: dal Künstler Schreibschrift (anglicizzato oggi in Kuenstler Script) della D. Stempel AG di Frankfurt a/M (1902), ripreso per la stessa fonderia da Hans Bohn (1957), al Palace Script (1923) della britannica Stephenson, Blake & Co. di Sheffield. D’uso comune per buona parte dell’ottocento e degli inizi del novecento negli Usa, anche lo Spencerian Script verrà sostituito da un altro sistema di lettere, più semplici da tracciare, adottato dalle scuole di New York City fin dal 1905. Si tratta della scrittura di Austin N. Palmer (1860–1927), autore di un’originale Palmer’s Guide to Muscolar Movement Writing (1888), di fatto semplificando il ductus peculiare dello Spencer, in coincidenza con la generale sostituzione della penna d’oca colpennino d’acciaio .
Prima che ciò si verificasse, la mano di Frank Mason Robinson (vero personaggio–chiave, eppur scarsamente noto, della vicenda Coca–Cola) traccia nel 1886, in un fluido ed elegante Spencerian Script, customizzato da un sapiente tocco personale, lo svolazzante logotipo Coca–Cola, il cui pristino utilizzo è per un’etichetta. Nel marzo del 1886 (l’anno d’inaugurazione della statua della libertà a New York), il buon Robinson aveva tentato invano di vendere una macchina da stampa bicolore a un non troppo fortunato, sebben strenuamente operoso, farmacista–imprenditore, residente ad Atlanta, in Georgia: John Stith Pemberton, l’inventore della “ricetta” della Coca–Cola. Risultato invece fu che Pemberton riuscì a convincere Robinson a partecipare, in società con altri, allo sfruttamento commerciale di uno sciroppo, di cui il farmacista stava perfezionando la formula nel suo laboratorio casalingo in 107 Marietta Street, quale base per una dissetante e tonificante bibita da drugstore. Mentre Pemberton sta ancora mettendo a punto la formula dello sciroppo, ultimata un fatidico 8 maggio del 1886, Robinson affronta e risolve il problema di come chiamarlo, con un’invenzione destinata a fare storia: il nome scelto è infatti Coca–Cola, che trae spunto fonetico–verbale da due degli ingredienti di maggiore presa, anche fantastica (estratto non alcoolico di foglie di coca sudamericana – nella composizione ancor’oggi è presente, come aromatizzante, un derivato decocainizzato delle foglie di eritroxylum – e noci di cola africana), per essere registrato come trade mark il 31 gennaio 1893, dopo assai complicate vicissitudini societarie. Un marchio commerciale più che notevole, tanto per la pronunciabilità pressocché panlinguistica, quanto per una pronta memorabilità, in virtù sia della duplice allitterazione (co–co e ca–la), sia dell’iterazione di tre c dure (k–k–k). La crescente, anzi travolgente fortuna della bevanda, venduta in bottiglia fin dal 1894, stimola ben presto la nascita di altri marchi competitori, pronti a sfruttare più o meno surrettiziamente sia il peculiare naming del prodotto–leader, sia il nomignolo con cui veniva abbreviato, già prima della Grande Guerra, ossia Coke, come prova la (sia pur temporanea) concorrenza della Koke Company of America. Ad ogni modo, poiché Coca–Cola è un nome composto, la protezione come trade mark vale per l’insieme ma non copre la seconda parte, tant’è che non mancano diverse “cola” sul mercato. Tutto ciò ha portato The Coca–Cola Company ad affrontare molti importanti dibattimenti giudiziari, a difesa del proprio marchio; due di particolare rilievo, nella seconda metà degli anni dieci del novecento: nel 1916, la causa vinta contro la concorrenza sleale, con l’eliminazione di marchi quali Candy Cola, Cay–Ola, Cold Cola, Fig Cola, Koca–Nola; nel 1920, lo storico pronunciamento della corte suprema degli Usa sull’esclusiva di The Coca–Cola Company sul nomignolo Coke (“It means a single thing, coming from a single source – sentenziò esemplarmente il giudice Oliver Wendell Holmes – and well known to the community”), apparso sulle bottiglie per la prima volta nel 1941 e infine registrato nel 1945.
Oltre al conio del nome e al disegno del marchio (presto definito anche nella versione con il logotipo bucato in bianco su fondo rosso primario), Frank Mason Robinson si occupò egregiamente ed ecumenicamente per la Coca–Cola di amministrazione, produzione, distribuzione, promozione e pubblicità. Il 29 maggio 1886 faceva infatti pubblicare il primo annuncio promozionale della bibita sulla stampa quotidiana locale, nelle pagine di “Atlanta Daily Journal”, impostando un claim durevole e marcante: “Coca–Cola. Delicious! Refreshing! Exhilarating! Invigorating! The New and Popular Soda Fountain Drink, containing the properties of the wonderful Coca plant and the famous Cola nuts. For sale by Willis Venable and Nunnally & Rawson”. Dopo la morte di Pemberton nel 1888 e l’acquisizione della proprietà intera della Coca–Cola (nel 1889–91, dopo non lineari percorsi) da parte di Asa Griggs Candler, fondatore nel 1892 di The Coca–Cola Company, Robinson continuò a sviluppare il programma di comunicazione e l’identità d’impresa, con sagaci intuizioni, attraverso un’estesa gamma di mezzi e con ampie risorse: inserzioni e pubblicità su periodici e quotidiani, tagliandi di consumo gratuito e tecniche analoghe di promozione, insegne e calendari (il primo, nel 1891, mostra curiosamente un marchio difforme da quello oggi universalemente noto, se è attendibile l’indice di 94% di riconoscibilità planetaria che assicurano le inchieste, registrato solo due anni dopo come trade mark), e persino il testimonial di una donna – la celebre cantante lirica Hilda Clark – già nel 1894, inaugurando un costume che, pur senza eccessi, dagli anni trenta del novecento vedrà altri testimonial d’eccellenza della Coca–Cola in dive e divi del cinema come Greta Garbo, Joan Crawford, Johnny Weissmuller. Nel 1890, riportano le cronache, l’investimento in comunicazione era pari (o forse superiore – su questa voce l’impresa è sempre stata molto abbottonata) ai ricavi delle vendite ma nel 1908 ben 2,5 milioni di metri quadri di superfici esposte reclamizzavano la Coca–Cola e oltre 10.000 vetrine esponevano le insegne aziendali. Tutto ciò per merito precipuo di Robinson, che a questa missione di propaganda si dedica fino al pensionamento nel 1913, nonostante il fatto che, per contrasti sorti intorno al 1906 sulle politiche promozionali, Sam Dobbs (responsabile delle forze di vendita e nipote del proprietario) finisca per sostituirlo al vertice dell’ufficio Advertising, che inizia proprio nel 1906 una straordinaria collaborazione con l’agenzia di pubblicità D’Arcy di St. Louis, destinata a durare fino al 1956 (in massima parte affidata alle mani del creativo Arthur “Archie” Lee), seguita poi dalla McCann–Erickson (1956–69). Una delle altre mosse vincenti di Candler, prima del passaggio in altre mani della proprietà (alla fine degli anni dieci del novecento), fu di affidare in franchising l’imbottigliamento della Coca–Cola, inaugurando un sistema distributivo grossomodo tutt’ora in uso, a cui è legata un’altra vicenda di non secondario tratto e cioè il packaging del prodotto: dalle prime bottiglie in vetro (nel 1899 la Hutchinson, nome di un sistema d tappatura, sostituite poi fino al 1916 dalle cilindro-coniche con tappo corona) alla classica hobble–skirt (la forma rigonfia che tutti conosciamo, prototipata in vesti ancor più turgide nel 1915 da The Root Glass Company di Terre Haute, nell’Indiana, ivi sviluppata definitivamente per mano dell’ingegnere svedese Alexander Samuelson e brevettata presso l’ufficio registri Usa nel 1916: secondo Raymond Loewy, progettista per la Coca–Cola anche di un celebre streamlined dispenser, che curerà un sobrio redesign della hobble–skirt, “the most perfectly designed package in the world”), dalle lattine metalliche (la prima nel 1942, ad uso dei militari, con tappo corona – degli anni novanta l’adozione della versione risparmio in alluminio) al Classic & Diet Coca–Cola Space Dispenser per lo Shuttle Discovery (1995) fino ai polimeri d’universale adozione oggi, in una gamma sempre più ampia di formati e confezioni… ma questa è un’altra storia. È una storia che, lungo l’arco centrale del novecento, vede lo straordinario sviluppo planetario di The Coca–Cola Company nelle salde redini di Robert Woodruff, fino alla sua scomparsa nel 1980 (nonostante lasci la carica presidenziale nel 1955), attraverso politiche di valorizzazione del marchio e di marketing innovative: dalla prescrizione severa di standard unificanti e identificanti ogni aspetto del prodotto e della sua distribuzione all’adozione delle stazioni di servizio stradali come originali punti–vendita, dall’attacco a radio e cinema al ricorso al talento di illustratori straordinari quali lo svedese Haddon Sundblom (inventore dell’immagine moderna di Santa Claus, alias Babbo Natale, nella campagna del 1931, e, nella campagna del 1941, dell’allegro Sprite, destinato poi a battezzare l’omonima bevanda) e l’americanissimo Norman Rockwell, dalla diffusione di dispenser e cooler ovunque alla fornitura assicurata della bevanda su tutti i fronti americani durante la seconda guerra mondiale: al cui termine, The Coca–Cola Company si sarà guadagnata 64 stabilimenti in tutti i continenti. Da questa solida base, la Coca–Cola (fino ad allora, sostanzialmente affermata solo negli Usa, a Cuba e in Germania) ripartirà per la conquista del pianeta nel dopoguerra, attraverso il rinnovarsi continuo della sfida comunicazionale nella nebulosa dei new media fino ai nostri giorni, con l’adozione, negli anni settanta, di un ondulante svolazzo (ad affiancare pittogrammaticamente il logotipo, tradotto in tutte le lingue) e celeberriml spot televisivi (particolarmente felici le immagini di fratellanza universale, girate in Italia, degli anni settanta e quelle spaziali alla fine degli ottanta), nonché l’affacciarsi nei bits (è del 2002 l’annuncio dell’archivio digitale, curato da Ibm, disponibile in intranet aziendale e forte di 24.000 files storici, immagini campagne filmati spot e via dicendo) e nel web.
Nel porre un necessario, a questo punto, termine alla nostra indagine, si potrebbe porre a suggello della vicenda identitaria della Coca–Cola, senza trovar in ciò conclusioni ultime, quanto ha sostenuto Marshall MacLuhan (non senza condivisibili obiezioni) circa i caratteri delle società umane e cioè che queste “sono sempre state plasmate più dalla natura dei media attraverso i quali gli uomini comunicano che non dal contenuto della comunicazione”.
headlines
la lista non è esaustiva e le datazioni hanno qualche, ovvia, approssimazione
(tra parentesi le versioni italiane)
1886
Delicious, Refreshing, Exhilarating
1895
Delightiful Summer and Winter Beverage
1900
Deliciously Refreshing
1905
Coca–Cola Revives and Sustains
1906
Great National Temperence Beverage
1908
Good To The Last Drop
1917
Three Million a Day
1920
Drink Coca–Cola With Soda
The hit That Saves The Day
1922
Thirst Knows No Season
1923
Refresh Yourself
There’s Nothing Like It When You’re Thirsty
1924
Pause and Refresh Yourself
1925
Pause and Refresh Yourself
1926
Stop At The Red Sign
1927
Around The Corner From Anywhere
At The Little Red Sign
1928
A Pure Drink Of Natural Flavors
1929
The Pause That Refreshes
1930
Meet Me At The Soda Fountain
1932
Ice Cold Sunshine
The Drink That Makes Pause Refreshing
1933
Don’t Wear A Tired, Thirsty Face
1934
When It’s Hard To Get Started, Start With A Coca–Cola
1935
All Trails Lead To Ice–Cold Coca–Cola
1936
Get The Feel Of Wholesome Refreshment
1937
Stop For A Pause... Go Refreshed
1938
The Best Friend Thirst Ever Had
Anytime Is The Right Time To Pause and Refresh
Pure As Sunlight
1939
Thirst Stops Here. Makes Travel More Pleasant
1940
The Package That Gets A Welcome At Home
1941
A Stop That Belongs On Your Daily Timetable
1942
The Only Thing Like Coca–Cola Is Coca–Cola Itself
1943
A Taste All It’s Own
1944
High Sign Of Friendship
1945
Coke Means Coca–Cola
1947
Relax With The Pause That Refreshes
(La pausa che ristora)
1948
Where There’s A Coke, There’s Hospitality
1949
Along The Highway To Anywhere
1950
Help Yourself To Refreshment
1951
Good Food And Coca–Cola Just Naturally Go Together
1952
Coke Follows Thirst Everythere
1953
Dependable As Sunshine
1954
For People On The Go
1955
Americans Prefer Taste
1956
Feel The Difference, Makes Good Things Taste Better
1957
Sign of Good Taste
1958
Refreshment The Whole World Prefers
1959
Make It The Real Meal
1959
Relax Refreshed With Ice–Cold Coca–Cola
(Per la pausa che ristora – la frizzante Coca–Cola)
1960
Relax With A Coke, Revive With A Coke
(Durante una pausa... gustate Coca–Cola)
1961
Coke And Food
(Coca–Cola... il miglior ristoro)
1962
Enjoy That Refreshing New Feeling
1963
Things Go Better With Coke
(Tutto è meglio con Coca–Cola)
1964
You’ll Go Better Refreshed
1965
Something More Than A Soft Drink
1966
Coke... After Coke... After Coke
(Ha sempre il gusto che ci vuole)
1970
It’s The Real Thing
(Tempo di Coca–Cola)
1971
I’d Like To Buy The World A Coke
1975
Look up America
1976
Coke Adds Life
(Coca–cola dà più vita a...)
1979
Have a Coke and a Smile
(...dà più vita a ciò che piace a te)
1982
Coke Is It
(Coca–Cola di più)
1986
Catch the Wave – Red, White and You
1987
Can’t Beat the Feeling
(Sensazione unica)
1988
Can’t Beat the Real Thing
(Sensazione unica)
1993–5
Always Coca–Cola
(Sempre Coca–Cola)
2000
Coca–Cola enjoy
2001
Life tastes good
[Strategie di comunicazione del più grande brand, in “diid” (Roma), 3/4, pp. 66-95, poi abbr. Coca-Cola storie di un marchio, in “Casabella” (Milano), 711, maggio, pp. 45-49]
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