[2002#08] visual design
Dai grafismi al disegno industriale degli artefatti visivi
La presenza, a partire da questo numero della rivista, di interventi e articoli variamente modulanti i temi del visual design, della grafica e delle comunicazioni visive – se vogliamo metter tutt’assieme – ha un obiettivo generale e un comune filo conduttore che, al contempo, è un’esplicita intenzione critica: tentare di esaminare, indagare e collocare l’attività (ideativa, progettuale, produttiva) che comunemente oggi vien chiamata e individuata come “grafica” nel contesto che si ritiene le competa e le sia proprio, tanto in termini storici che culturali: il disegno industriale.
È perciò opportuna una premessa, in forma di breve prologo critico, nell’avviare il dialogo con chi legge; a una dichiarazione d’intenti è indispensabile, infatti, far corrispondere una prima chiarificazione di alcuni aspetti fondamentali, per offrire al lettore il punto di vista di chi ha il piacere e la fortuna di potersene occupare in questa sede.
Nella storia dell’ominazione ossia nel lunghissimo periodo del farsi uomo – sapiens quanto faber – di una individua specie di primati a cui apparteniamo, il tracciamento di grafismi (prima astratti, ritmico-geometrici, poi raffigurativi, nelle ben note rappresentazioni cavernicole e in molti artefatti mobiliari preistorici) è attitudine altamente specifica, per taluni precedente la verbalizzazione, e databile almeno ad alcune decine di migliaia di anni ante Cristo. In altri termini, la scrittura di segni, da quelli preistorici (ove una malpresunta anteriorità rispetto alla storia sta tutta e soltanto nell’assenza di scritture testuali) di cui non sappiamo discriminare le funzioni, se non per – spesso contrastanti e irrisolte – ragioni ipotetiche, alle più composite e complesse declinazioni presenti nella contemporaneità, ha contraddistinto il diffondersi e marca la presenza dell’uomo sulla terra. È indubbio, d’altra parte, che all’antropizzazione corrisponda una sempre più ampia e pervasiva artificializzazione del mondo, tramite la costruzione e specializzazione progressiva di famiglie di artefatti, di fabbricazioni assieme in variabili gradi protetico-utilitarie quanto comunicativo-simboliche: abiti ornamenti edifici sculture pitture attrezzi arredi libri macchine (lunga sarebbe l’elencazione) che dir si voglia, per esemplificare e semplificare.
Nel nostro campo d’interesse, una prospettiva di indagine critica e storica (delle arti visive, in senso proprio) che non voglia esser miope nei propri fondamenti è esposta al confronto con un parco di artefatti grafici estremamente variegato e variabile per intenzioni autoriali e morfologie espressive, significati sociali e forme tecniche, modi di produzione e caratteri di ricezione. In quest’alveo amplissimo si può riconoscere un progressivo distanziarsi – senza mai completamente distaccarsi del tutto – nelle “immagini” (non a caso, l’etimo d’immagine rimanda al pregnante significato di “doppio”) di scrittura e pittura, attività che il graféin greco ancora racchiudeva in uno. Tutto ciò premesso, è evidente come ogni costruzione storica nell’ambito della “grafica” possa e debba scegliere i propri peculiari itinerari. È necessario perciò azzardarsi a individuare i nodi più significativi e le loro articolazioni puntuali, quali, ad esempio: l’accidentato percorso che si snoda dalle chiro-grafie alle tipo-grafie fino all’irruzione problematica del digitale, nel campo delle scritture testuali, in primis alfabetiche (almeno per noi occidentali); il dipanarsi affine nei secoli dei formati, dei proporzionamenti e dell’organizzazione dello sfondo/supporto materiale (papiro, pergamena, carta, monitor, per farla brevissima) in rapporto alle figure/grafismi (lettere e immagini) che vi sono campiti da strumenti, metodiche e tecniche di impressione altamente specifiche; la dialettica tra artefatti elitari e forme della cultura materiale, che implica un peculiare dialogo tra l’autonomia delle ricerche espressive artistiche e l’evoluzione del gusto comune; la storicizzazione dei modi della rappresentazione, in rapporto alla riproducibilità tecnica, che potrebbe meglio chiarire i confini e i fini delle arti; infine, tra le molte altre chiarificazioni che premerebbe fossero acquisite diffusamente, la pertinenza della “grafica” contemporanea all’ambito del disegno industriale e più precisamente della progettazione visuale, del Visual Design (per ricorrere a una terminologia accettata dai più): disciplina specifica, che reclama addestramento inclinazioni strumenti adeguati, frutto di applicazione conoscenze e studio tutt’altro che improvvisabili e genericamente disponibili, al contrario di quanto parrebbe supporre la confusa nozione comune che ne ha la nostra epoca.
Per quanto concerne il panorama a noi immediatamente più vicino, a quel che purtroppo appare come un assai diffuso fraintendimento circa le specificità della “grafica” – tra l’altro, la si confonde troppo facilmente con la “pubblicità” – non è certo estranea la scarsissima cultura visuale del nostro paese (un vero problema storico, a cui la distrazione delle istituzioni pubbliche ha notevolmente contribuito), che bellamente ne ignora i protagonisti e la storia, in specie contemporanea. Il rilevante contributo italiano alla progettazione visuale nel novecento, del resto, è tanto un tema ricco di sorprese, quanto un terreno di articolate esperienze (in buona parte ancora da esplorare), come dimostra in queste pagine il puntuale articolo di Carlo Vinti sull’estetica grafica della “nuova tipografia” in Italia negli anni trenta.
[Dai grafismi al disegno industriale degli artefatti visivi, in “diid” (Roma), 2, dossier snp]
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