18.10.04

[2002#07] qualità della comunicazione


Qualità comunicazionale e identità istituzionale
Parafrasando un grande pensatore tedesco, si potrebbe dire che “qualità è perseveranza”: la qualità è figlia di passione e rigore, educazione e impegno.
“Vanamente si cercherà di dire ciò che si vede: ciò che si vede – ha scritto Foucault – non sta mai in ciò che si dice; altrettanto vanamente si cercherà di far vedere […] ciò che si sta dicendo”
Nell’ottobre 1925, le “Typographische Mitteilungen” di Lipsia pubblicano elementare typographie: un avvenimento centrale nella storia della grafica del novecento, che suscita in Germania un’eco subitanea di polemiche, consensi e conversioni, pronta a rimbalzare in fama universale. “1 La nuova tipografia – vi si legge, tra l’altro – ha un fine obiettivo. 2 Il fine della tipografia in generale è la comunicazione. La comunicazione si realizza nel modo più sintetico, semplice ed esatto possibile. 3 Per rispondere alle funzioni sociali della tipografia, bisogna organizzare le sue componenti, sia interne (contenuti), sia esterne (uso coerente di materiali e metodi di stampa). 4 Organizzazione interna significa limitarsi agli elementi di base della tipografia: lettere, cifre, segni, righe di caratteri […] Gli elementi di base della nuova tipografia includono […] anche l’immagine oggettiva: la fotografia. La forma di base del carattere da stampa è senza grazie”.

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È necessaria una breve premessa teorica, una rapida cornice di ragionamento, perché la questione della qualità della e nella comunicazione è intimamente legata al tema cruciale della identità (di un ateneo come d’ogni altra istituzione, ente, organizzazione o impresa) . La questione è infatti irriducibile a scelte affidate semplicisticamente al gusto (educato o meno, esperto o ingenuo) di chichessia, relative a una ipotesi di visualità, piuttosto che a un’altra, comunque ideata e - si auspica - progettata a regola d’arte; se così fosse, se ci ponessimo questioni in termini di stile, cosmesi e moda, di incarti, confezioni e imbellettamenti, di balocchi, bijoux e profumi, si potrebbe e si dovrebbe procedere assai più speditamente e forse avremmo tutti potuto più proficuamente dedicarci ad altro, oggi.
L’aspetto della comunicazione che interessa in questa sede (la qualità) è invece strutturato e governato da un complesso intreccio di aspetti materiali e immateriali. La forma coordinata, stabile e sistemicamente coerente da attribuire ai mezzi e agli strumenti (materiali) di comunicazione (attraverso un parco preferibilmente minimo di elementi di riconoscibilità) serve a definire una identità: è un processo, non un dato. Serve cioè a render sensibile e visibile, a veicolare e a rafforzare una ragionevolmente durevole scelta di quei valori e di quelle qualità (immateriali) che l’istituzione vuole mostrare e decide di esprimere di sé. Una volta cioè che, nel caso di un ateneo, siano stati programmaticamente individuati, strategicamente decisi, tatticamente organizzati quelli che si intendono come i tratti appropriati, marcanti e pertinenti, di una fisionomia culturale, di una complessione civile, di un volto istituzionale: il proprio, nel bene e nel male, riflesso in uno specchio sincero ma ottimista, onesto ma sognatore -– all’egida, insomma, dell’astuzia delle colombe e del candore delle volpi, per dirla con Fortini. In altri termini, l’ identità è entità dinamica cioè capacità/qualità che comunica l’essere e il permanere di una determinata “cosa”: “questa” cosa, oggetto di conoscenza, e niente affatto un’altra. La qualità della comunicazione, nella nostra specifica prospettiva istituzionale, si fonda sulla dialettica tra scoperta e autodeterminazione di un sè identitario, di quel peculiare moto temporale che, sostanziando un che di specifico e sostanziale, rende ragionevolmente identici e consente un’identificazione non rigida ma essenziale.

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Se si accetta quello che, secondo diffuse teorie contemporanee (originariamente elaborate dalla scuola di Palo Alto), è considerato il primo degli assiomi generali della comunicazione umana e cioè che “non si può non comunicare”, è anche necessario sottolineare con forza la conseguenza che l’identità comunicativa di una istituzione riguarda tutte le occasioni/situazioni e tutti i mezzi/strumenti di comunicazione sensibili d’essa, in particolare – ma non esclusivamente – quelli visivi.
Nell’introduzione a un vero standard sul tema, quale Corporate Identity, per rispondere alla domanda: “che cos’è l’identità per le istituzioni?”, Wally Olins sostiene che “per essere efficace, qualsiasi organizzazione ha bisogno sia di un chiaro senso delle proprie finalità, comprensibili per chi ne fa parte, sia anche di un forte senso di appartenenza. Obbiettivi e partecipazione sono i due risvolti dell’identità. Ogni organizzazione è unica: l’identità non può che derivare dalle proprie radici, dalla propria personalità, dai propri elementi di forza e dalle proprie debolezze. Ciò è vero per la moderna impresa globale, così come è sempre accaduto per ogni altra istituzione nella storia, dalla chiesa cristiana agli stati nazionali”.
In buona parte, tali identità sono indirizzate e guidate dagli strumenti della comunicazione; per molte delle imprese contemporanee, la progettazione della propria immagine e la comunicazione della propria identità sono tra le più appropriate e potenti risorse disponibili per lo sviluppo e la competizione, come dimostrano gli investimenti che ad esse vengono riservati. Il coordinamento d’immagine delle istituzioni e delle organizzazioni umane non è però un fenomeno né recente né esclusivamente vincolato al mondo delle imprese, dell’industria e del mercato.

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A cosa servono i ragionamenti finora esposti, ai nostri fini?
Stando a Olins, sappiamo che la comunicazione identitaria si fonda su
1. obiettivi: cioè un chiaro senso delle proprie finalità
2. partecipazione: cioè un forte senso di appartenenza.
3. unicità: dato che ogni organizzazione è a suo modo unica
4. storia: poiché l’identità non può che derivare dalle proprie radici, dalla propria personalità, dai propri elementi di forza e dalle proprie debolezze.
Cercando di trarre una lezione pratica dagli esempi migliori (nella storia) della comunicazione pubblica, a proposito della “qualità” si può sostenere, in estrema sintesi, che:
1. i risultati più elevati si sono ottenuti attraverso il più ampio ed ecumenico coinvolgimento dei migliori progettisti disponibili e accessibili, rinunciando a improduttive forme concorsuali ecumeniche, assumendosi piuttosto il rischio di concorsi a selettivi inviti o anche a diretti incarichi.
2. la complessità intrinseca della situazione contemporanea (ossia la catastrofe digitale, altresì e al contempo foriera di “progressive sorti”) suggerisce (a esser sinceri, da almeno 3 lustri) una “sistematica non schematica” di progetto, da configurarsi con semplicità ed elasticità, prevedendone una realizzazione collaborativa, condivisa e fatta propria da tutti coloro che ne sono partecipi, come gestori e utilizzatori attivi, ad ogni livello
3. l’arretratezza della cultura d’identità (e, in generale, visuale) del nostro paese in qualche modo motiva e fa obbligo a luoghi di ricerca e educazione come l’università di proporsi quali luoghi di messa a punto metodologica, di sperimentazione elevata del tema, di configurazione e produzione di artefatti comunicativi d’eccellenza.
L’identità visiva è parte di un sistema più ampio, con cui si identifica e vogliamo si identifichi un’istituzione: la sua capacità di comunicare. La progettazione e gestione dell’identità visuale e, più in generale, della comunicazione sono perciò funzioni di ateneo e non delle singole strutture. Per usare un’immagine musicale: il problema non è di costringersi a ripetere sempre la stessa solfa, perché le esecuzioni possono essere le più varie nelle più diverse condizioni e formazioni, ma di saper accordare gli strumenti e di rispettare la tonalità in chiave della partitura, mantenendo così l’armonia generale, la scansione del ritmo, il senso della melodia, tanto che si tratti di un’orchestra quanto di un solo strumento a suonare.
È (non solo) mia profonda convinzione che la forza dell’identità visiva di una istituzione quale quella universitaria debba fondarsi, una volta impostata e decisa, su una continuità morigeratamente innovativa: sul ricorso seriale, sull’iterazione ben temperata, sul rispetto intelligente di pochi elementi, a tutto vantaggio dell’intellegibilità esterna e della progressiva coesione interna delle strutture, attorno a una distintà configurazione dell’istituzione: si tratta di un’inesauribile work-in-progress, che impegna anni e per anni impegnerà a mantenersi coerenti con una fisionomia in perenne lento mutare.

[comunicazione al convegno La qualità della comunicazione, in occasione dell’inaugurazione del CsdA, università degli studi di Reggio Calabia, 27 novembre]
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