[2002#02] offumac 1&2
Domande, che sono il sale, l’olio e l’aceto della vita. Camuffo si nasconde si traveste si tramuta in Offumac? Come i supereroi dei fumetti, Offumac è una specie di “identità segreta” di Camuffo? Un caso di doppia personalità schizoide, come Dr Jekyll e Mr Hide, Dr Camuffo e Mr Offumac? Offumac si vergogna di esser riconosciuto come Camuffo e si firma Offumac per nascondersi a chi possa riconoscerlo? Una questione scaramantico-onomastica, l’uno l’inverso dell’altro, in perfetta simmetria bilaterale? Una pseudo sigla, forse un acronimo, del tipo: OFFicina UManistica ACrobatica?
Risposte, che son sempre provvisorie, interpretazioni, punti di vista, pregiudizi: condizioni preliminari per formulare dei giudizi. Niente di tutto quanto ci si è chiesto sopra e tutto ciò assieme. Ossia, una gran confusione, letteralmente. Con fondersi, fondersi assieme, in alchemiche sublimazioni empiriche.
Offumac si confonde e ci confonde. Capiamo almeno che siamo confusi. Ma non è forse lo spirito del nostro tempo, la stato dell’arte? Camuffoffumac rifiuta di farsi rinchiudere in un recinto, quello dell’ovvio, del dato, dell’opinione comune, del mestiere. Cerca di evadere, si sposta, va di lato e a zig-zag, ogni tanto salta e qualche volta inciampa. Confonde le tracce. Almeno ci prova, sapendo che non c’è una meta. Bisogna fare come se ci fosse, però. Lo stato dell’arte: quale arte, costringe a chiederci Offumac?
Arte è uno speciale fare, è una fabbricazione di artefatti, di cose fatte ad arte con arte: un linguaggio da parlare con parole sempre nuove perché sempre eguali. Impara l’arte e mettila da parte, se vuoi essere artista. Devi scordartela, insomma per esserne parte.
Offumac non è un artista, è un artefattore. Come non è un grafico, perché la grafica non si sa bene che cosa sia. S’è confusa, è alla rinfusa, è sospesa, è in rianimazione ma vive. Per fortuna, così può ripensarsi e dispensarci dal badarle troppo. Intanto, la si fa, c’è chi la fa. Contenti loro, contenti tutti. In questo senso, Offumac è scontento. Troppo facile, gli sembra; allora, oplà, fa una capriola e un doppio salto mortale, per tirarsi su il morale. C’è chi non capisce (e disapprova) ma chi ha detto che tutti debbano per forza capire. Peggio è che questi neanche si sforzan di vedere, si rifiutano di guardare, che è uno dei modi di pensare: beati loro, vita da surgelati nel freezer.
Offumac sa che, per permettere un sereno dialogo sulle cose importanti, non c’è altra strada che giocare. Non c’è nulla di più serio dei giochi, nella vita. Solo dal linguaggio nasce il linguaggio, i segni son figli di segni, l’invenzione ha molti parenti e una grandissima famiglia, le parole s’inseriscono in discorsi, per aver senso e farsi capire, suggerisce molto discretamente Offumac. Perciò, disegna. E subito dopo, sparisce, ridendo, in una piroetta colorata.
Questions, i.e. the dressing of life. Is Camuffo hiding or disguising or transmuting into Offumac? Like comic-book superheroes, is Offumac a sort of “secret identity” for Camuffo? A case of schizoid dual personality, like Dr Jekyll and Mr Hide – Dr Camuffo and Mr Offumac? Is Offumac ashamed of being recognised as Camuffo and using the name Offumac to hide from anyone who might recognise him? A propitiatory/onomastic question, where one is the opposite of the other, in perfect bilateral symmetry? A pseudo-abbreviation, perhaps an acronym, like: OFFice for ‘UManistic ACrobatics?
Answers, which are always provisional, interpretations, points of view, preconceptions: conditions preliminary to the formulation of judgement. None of the questions raised above and all of them at the same time. Or rather, incredible confusion, quite literally. Con founding, founding together, in empirical alchemical sublimations.
Offumac is self-confounding and confounds us. We should at least understand that we are confused. But isn’t this after all the spirit of our times, the state of the art? Camuffoffumac refuses to be delimited within a compound, the compound of the obvious, of the given, of common opinion, of the craft. Offumac tries to escape, moving, side-winding and zigzagging, every now and then jumping and sometimes stumbling. Offumac confounds those who would follow the tracks left behind. At least that’s what Offumac tries to do, knowing that there is no goal or objective. But you have to act as if there were, though. The state of the art: “which art?” is the question Offumac forces people to ponder.
Art is a special “making”, a fabrication of artefacts, of things artfully made with art: a language that has to be spoken with words that are always new because they are always the same. Learn art and put it to one side, if you want to be an artist. You’ve got to forget it, in other words, in order to be part of it.
Offumac is not an artist, but rather an “artefactor”. Just as Offumac is not a graphic artist, because it’s not really clear what graphic art is. It’s confused, pell-mell and helter-skelter, it’s in intensive care but still alive. Luckily, so now it can rethink itself and exempt us from tending to it too much. In the meantime, it’s being done, there are people who do it. If they’re happy, then we’re all happy. In that sense, Offumac is unhappy. It’s all too glib, it seems to Offumac; so, hey presto!, Offumac does a cartwheel and a double somersault, just for a quick morale boost. Some don’t understand (and disapprove), but who says that everyone has to understand? What’s worse is that these people don’t even make an effort to see, they refuse to look, which is one of the modes of thought: well, bless them and their deep-frozen lives in the freezer.
Offumac knows that, in order to provide the conditions for a serene dialogue on important things, the only path is playing. There is nothing more serious than playing, in life. Only language leads to language, signs are the children of signs, invention has loads of relatives and an enormous family, words are inserted into discourses, in order to make sense and be understood – this is what Offumac very discretely suggests. Hence, Offumac draws and designs. And as soon as Offumac has finished, Offumac disappears, laughing, a colourful kaleidoscoping pirouette.
REPUS OFFUMAC?
Offumac disegna? Così parrebbe, a sùbito guardare; ma a ben vedere, Offumac gioca. Gioca con la paura, irride le angosce, sberleffa l’ansia del profondo, con tocco lieve, di traverso, senza farsene accorgere: in punta di mani. È un gioco infantile, una specie di regressione tattile prima che visiva: un tuffo nelle regioni nascoste che vibrano dentro ciascuno di noi, occhieggiando sommessamente impercettibili panorami emozionali, desideri probiti e timori silenziosi, arcani ricordi sospesi ancor prima della memoria, inconsapevoli sogni ad occhi aperti. La mano scorre sul foglio e sul monitor, gira e rigira, tira righe e tratti, curve e circonvoluzioni, picchietta sguazza e sghiribizza, duplica e replica, storce e strizza. Tenta di afferrare qualcosa che sfugge, per fissarlo e guardarlo, per vederlo e farlo vedere. Palpa e sfiora le cose, titilla e sfrugola il mondo, con una carezza vorace e ingorda. Le mani – attrezzate a lasciar tracce visibili – diventano estensione della mente, un prolungamento e un’estroflessione che fruga la superficie dell’invisibile, per tradurlo in un incerto geroglifico indecifrabile. Sappiamo bene che spetta all’arte (in ogni sua forma) rendere visibile un alcunché di invisibile, e dunque serve a farci conoscere il mondo, a suo modo, per mezzo di artefatti, e a nient’altro: l’estetica lasciamola pure ai filosofi delle emozioni e dei frissons da salotto. Ma sappiamo anche che l’arte è ludica, è parente stretta del gioco, di un gioco ossessivo: il piacere infantile del gioco sta infatti nella ripetizione, nell’iterazione senza fine di un medesimo. Sempre lo stesso, sempre diverso, non stanca mai: senza fine, sfinisce come una possessione da cui si è attraversati, senza volerlo. E infatti è la matita, la penna, il mouse, lo strumento insomma che traccia i segni, ad afferrare repentinamente Offumac, a trascinarlo in un gorgo, ove si immerge a perdifiato e si perde come in un sonno ipnotico. Da questa apnea su generis vengono a galla detriti puntuti, schegge taglienti, frammenti sgangherati, bolle spumeggianti, materiali filamentosi, collage stereotipi, avanzi e rigurgiti non sempre digeriti. Insomma, Offumac scarabocchia e pastrocchia: i suoi disegnini son dei veri doodles, son quei segni – involontari ma tutt’altro che insignificanti e trascurabili – che tracciamo su un foglio mentre parliamo al telefono, ad esempio, o ascoltiamo qualcuno in una riunione. Gli scarabocchi son artefatti visivi molto particolari – spiegano gli esperti: le tensioni muscolari che ne guidano il segno rispondono a sottili impulsi cerebrali, che esprimono stati d’animo, dialogando con noi stessi e con l’ambiente, interpretando le situazioni, rivelando atteggiamenti, motivazioni e tensioni inconsapevoli. Offumac disegna cercando di scarabocchiare, di avvicinarsi a questo stato sorgivo e recondito del nostro essere; si fa bambino e ripete senza cessa questo gioco. È un itinerario à rebours, un viaggio alla rovescia, un percorso nella mente che si travasa tramite la mano in un accumulo di tracce, in una specie di automatismo della grafia segnica, della scrittura disegnativa, un flusso visivo: grafemi son propriamente chiamati infatti gli scarabocchi, segni inintenzionali che Offumac disegna consapevolmente intento a ritrovare un mondo interno, che trabocca e straripa. Grafemi, non a caso, sono i primi segni visivi conosciuti della specie umana: tacche, punti, incroci, cerchi, spirali, segni ritmici e astratti, più o meno geometrici che i nostri antenati, umanità ancora infante, hanno lasciato su pietre e ossa animali, tra i 50mila e i 35mila anni fa, prima di qualsiasi altra rappresentazione naturalistica o realistica. Offumac uomo delle caverne dell’anima bambina, ecco come ci spieghiamo i suoi graffiti grafemi che finalmente si fan trasparenti, parlanti favole per spaventarsi ridendo: paurosi mostri da esorcizzare, arruffati convolvoli di spirali mutevoli, sovrapposizioni di maschere umane ridotte a profili e strati, strappi e sgraffi di lembi di corpi, pupazzi irridenti la sorte oscura che li ha costretti a uscire alla luce, esili farfuglii di immagini disperse su mura implacabili, sghembi di righette acide e occhiuzzi malevoli, pallide nostalgiche lune di pianeti lontani, ventricoli e sfinteri rigonfi, esseri pelosi e sgorbi, permutazioni di mondi dalle geometrie non euclidee abitate da gnomi globosi, clown muti allo specchio, denti affilati pronti a morderti ringhiosi, cerchi che han perso il centro, cave occhiaie scheletriche, deflagrazioni e scoppi di figure mistilinee. Offumac li guarda soddisfatto, con ironia e distacco: sorride, non si ricorda perché li fa ma sa che li fa, quel che conta è il come, prima del che cosa – dice a se stesso; con noi, tace. E ci lascia, con un punto interrogativo. Tanto sa che la storia non finisce qui.
Does Offumac draw? So it would seem, at first sight; yet on closer inspection, Offumac plays. He plays with fear, scoffs at anxieties and jeers at profundity with the lightest of touches, obliquely, without drawing attention to himself – on his fingertips, as it were. His is a childish game, a sort of tactile rather than visual regression. He dives into the hidden regions that vibrate within each and everyone of us, meekly eyeing imperceptible emotional panoramas, forbidden desires and silent fears, arcane memories suspended in a region that is prior to memory itself. His hand slips along sheets and monitors, turns and turns once more, draws lines and outlines, taps, contours and circumvolutions, duplicates and replicates, twists and wrings. Attempting to grab something that eludes him in order to fix it and look at it, to see it and put it on display. Touching and brushing over things, stimulating and rummaging through the world, its voracious and insatiable caress. Hands, equipped to leave visible traces, become an extension of the mind, uncertain, indecipherable, hieroglyphic. We well know that it is up to art (in all its forms) to make visible whatever is invisible to make us familiar only with the world through artefacts. But we also know that art is ludic, closely related to games, and especially obsessive games. In fact the childlike pleasure of playing lies in the endless iteration of the same element. And we never tire of that element which is always different: endless, it wears us out like a possession within us, without us wanting it. From Offumac’s singular form of apnoea what comes to the surface is sharp, spikey detritus, jagged shards, dilapidated fragments, frothy bubbles, stringy material, stereotyped collages, left-overs and half digested regurgitations. In other words, Offumac scribbles and mucks about. His little drawings are doodles, like the signs that we trace over a sheet of paper while we’re on the phone. Doodles, according to experts, are very strange visual artefacts: the muscular tension that guides the sign and is fed by cerebral impulses; they express a mood, performing a dialogue between us and the environment, interpreting situations, revealing attitudes, reasons and unconscious tensions. It is a back-to-front journey, à rebours, a path through the mind that is poured out via the hand in an accumulation of traces, an automatic production of graphic signs, of drawing-writing, a visual flux: “grapheme” is in fact the term used to describe the doodles and unintentional signs that Offumac intentionally draws while he is intent on relocating an internal world that is full to overflowing. “Graphemes” were the first visual signs produced by the human race - notches, points, crosses, circles, spirals, rhythmic signs that our forebears, mere children, left on stones and animal bones some 50 to 35,000 years ago, before any other form of representation. Offumac is a man of the caves of the child-soul, and this is how we explain his grapheme-graffiti that finally become transparent, relating fables to frighten us while making us laugh: fearsome monsters that have to be exorcised, dishevelled convolvuli of changing spirals, superimpositions of human masks reduced to profiles and layers, tears and scratches of bits of bodies, puppets jeering at the dark fate that has forced them into the light, enfeebled babblings of images spread over implacable walls, skewed acid lines and malevolent eyes, pale nostalgic moons of distant planets, swollen ventricles and sphincters, ugly hairy beings, permutations of non-Euclidean worlds inhabited by globular gnomes, mutated clowns reflected in mirrors, pointed teeth, grinning, ready to bite, circles that have lost their centre, skeletal, heavy, dark rings under the eyes, explosions and bursts of mixed-line figures. Offumac observes all of this, satisfied, ironic and detached: he smiles, not remembering why he makes them, although he knows that he does. What counts is the “how”, much more so than the “what”. This is what he says to himself. With us, he is silent. And then he leaves us. Question mark. Break of the story, but not the end of it.
[Repus Offumac, in AA.VV., Super.Welcome to Graphic Wonderland, Die Gestalten Verlag, Berlin 2003, pp. 34-35]
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