[2000#07] aleksandr rodcenko
Nato nel 1891 a San Pietroburgo e scomparso a Mosca nel 1956, Aleksandr Michajlovic Rodcenko riveste una eminente posizione in quell’eletta schiera di poliedrici operatori artistici che nell’Urss hanno manifestato straordinarie capacità inventive nel corso degli anni venti e dei primi anni trenta del novecento, all’egida del costruttivismo e delle sue significative varianti, nel «sogno di una lunga prospettiva contestataria» -come suggeriva Alberto Asor Rosa tempo fa. Attivo senza soluzione di continuità nei campi della pittura, della fotografia, del cinema, del teatro, del disegno di oggetti utilitari, di abiti e di artefatti comunicativi (ragion specifica per cui ce ne occupiamo qui, in una sorta di seguito della puntata su El Lisickij), in quel periodo Rodcenko si misura con gli esiti immediati e le contraddizioni palesi della rivoluzione russa, in un clima esaltato di tensione verso la concreta traduzione nella società civile di portati “produttivisti” anti-borghesi, prima di un malinconico tramonto che si prolungherà fin nel dopoguerra. Alle soglie degli anni venti, le sue incursioni nel settore delle arti applicate sono occasionali ma, al contempo, già marcate da un preciso e riconoscibile gusto visivo. Nell’introduzione al catalogo della mostra 5x5=25, tenutasi a Mosca nel 1921, Rodcenko proclama con Aleksandr Vesnin, Aleksandra Ekster, Ljubov’ Popova e Varvara Stepanova, che: «L’arte è finita! Non ha posto nell’apparato umano del lavoro. Lavoro, tecnologia, organizzazione!». Nel 1921-22, si misura con le prime commissioni in campo teatrale, cinematografico e grafico; a partire dal 1923, l’attività di comunicazione visiva rappresenta per lui un ambito sostanziale di ricerca e di espressione, con la realizzazione di originali artefatti pubblicitari, ideati in organica collaborazione con Majakovskij per i testi, in un’aspra lotta contro le resistenze e le incomprensioni di una cultura comunque retriva, sorda e dura a morire. «Fui il solo che si dedicò alla pubblicità -scrive infatti Rodcenko nelle sue memorie, a proposito del periodo-. I testi dovevano crearmi un’infinità di problemi. Erano prolissi, noiosi, privi d’interesse. Correggevo io stesso le scritte ma non era facile convincere i clienti ad accettare tagli ed abbreviazioni. Una volta, per esempio, mi toccò lavorare su questo testo: “chi non possiede azioni Dobrolët [associazione volontaria per l’aiuto allo sviluppo dell’aviazione] non è cittadino dell’Unione sovietica”. Non si trattava né di poesia né di uno slogan. Il testo cadde sotto gli occhi di Volodja, che scoppiò a ridere e si mise a fare del sarcasmo. Mi arrabbiai e lo rimproverai, dicendogli che, se i buoni poeti non sapevano che ridere della cattiva pubblicità, non vi sarebbe stata mai una buona pubblicità. Ci pensò su e finì per darmi ragione. Cominciò così la nostra collaborazione». «Nell’anno e più che ho lavorato per il Dobrolët -racconta ancora Rodcenko, nel Taccuino del numero 6 del 1927 del “nuovo Lef”, rivista di cui cura tutta la grafica, a cominciare dalle copertine, sin dal 1923- ho fatto manifesti e altre cosette. Lì sì che si lavora sodo, non c’è tempo per l’arte: il loro è un lavoro nuovo, interessante. I miei manifesti li apprezzano. Si sono abituati ad avermi intorno, magari non ricordano come mi chiamo ma di vista mi conoscono tutti. Con loro non parlo d’arte, non faccio propaganda, lavoro e basta. Tutto procede per il meglio. Si inaugura l’Esposizione panrussa. Il Dobrolët ha organizzato dei voli propagandistico-pubblicitari di una ventina di minuti. L’ing. Lazarevic mi ha fatto chiamare. Un intellettualoide con il pince-nez e una giacca con i bottoni d’oro, che mi fa: “Compagno pittore, mi faccia un manifesto futurista sui voli”. Io sono rimasto sinceramente stupito. E lui ha continuato: “Come dirle, qualcosa di stravagante ma non troppo, però”. Io non riuscivo a capire e gli domandai cosa pensasse dei miei manifesti. E gli indicai quelli appesi al muro. E lui: “Sono realistici, i suoi”. Allora ho capito e gli ho detto: “No compagno, i manifesti futuristi non so proprio farli”. E l’ordine à la futuriste venne passato a un pittore di destra. Più tardi il compagno Lazarevic scoprì l’arcano o, meglio, glielo spiegò una segretaria. Mi son fatto un nemico…». E, a proposito del suo diretto collaboratore, Rodcenko continua nelle sue memorie: «Divenimmo insomma “Majakovskij-Rodcenko costruttori pubblicitari”. Lavoravamo con entusiasmo. Era la prima vera pubblicità sovietica, una pubblicità che si ribellava alla banalità dei testi, ai fiorellini e alle altre manifestazioni di gusto piccolo-borghese tanto in voga nel periodo della Nep». I “costruttori pubblicitari” realizzano nell’arco di pochi anni, con contrasti aggressivi di colori piatti e una tipografia cubitale, una cinquantina di memorabili manifesti e un centinaio di insegne, incarti e pubblicità sulla stampa, ciclostilati e da proiettare, lavorando -tra l’altro- per il Gum (grandi magazzini statali di Mosca) e il Mospoligraf (poligrafico moscovita), il Mossel’prom (associazione moscovita per la lavorazione della produzione agricola) e il Rezinotrest (trust statale per l’industria della gomma), le case editrici Molodaja Gvardija, Gosizdat, Transpecat’, Krasnaja Nov’ e i sindacati. «In seguito, il lavoro venne interrotto -concludono mestamente le memorie di Rodcenko- […] I membri del Rapp [associazione russa degli scrittori proletari] e del Mapp [associazione degli scrittori proletari di Mosca] fecero naturalmente quanto era in loro potere per danneggiarci, ricorsero ad ogni mezzo possibile e immaginabile per screditare e far cessare la nostra attività. E finirono per aver partita vinta. Naturalmente, avevano ottimi motivi per essere preoccupati: tutta Mosca, tutti i punti di vendita del Mossel’prom, tutti i giornali e le riviste erano inondati dalle nostre réclames […] La pubblicità ripiombò a poco a poco nel solco battuto delle testoline e dei fiorellini».
[Costruttori pubblicitari, in “Casabella” (Milano), 682, ottobre, p. 92]
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