[2000#02] paul (renner + rand)
Per chi della letteratura scientifica e dei libri specialistici faccia strumento di conoscenza, di riflessione e di lavoro, è perlomeno curioso, certamente significativo e un tantino sconcertante, se non paradossale, scoprire e rendersi conto che sulla vita e le opere di taluni conclamati maestri, di certi riconosciuti protagonisti, di alcune figure fondamentali, di vari attori insomma di primo piano della cultura, delle scienze e delle arti (forse per la forma mentis stessa del generalizzato consenso che accompagna la fama e i nomi di tali leaders, forse per una qualche sparsa dose di nequiziosa pigrizia degli studiosi a fronte di indiscusse eccellenze) non di rado siano rari e talora del tutto assenti attendibili testi critici di riferimento, puntuali monografie standard, ricerche specifiche da leggere, studiare e compulsare all’occorrenza. Nel campo della progettazione grafica del novecento, del Visual Design contemporaneo, tale è stato, fino a poco tempo, fa il destino, ad esempio, sia di Paul Renner, attento interprete teutonico del proprio Zeitgeist e autore di un tipo da stampa universalmente apprezzato quale il Futura (1924-28), sia di Paul Rand, straordinario talento americano di Graphic Designer ed esponente perfetto dell’equivoco “modernismo” indigeno, ai più noto almeno per il marchio della Ibm (1956).
Paul Renner
La fine, rada quanto domestica produzione della casa editrice londinese Hyphen Press, capitanata da Robin Kinross (di cui si deve segnalare l’acuto e fortunato Modern typography: an essay in critical history, 1992, 1994) ci ha abituati a preziosi e rari testi sulla storia della grafica e della tipografia del novecento -come avemmo modo di segnalare, a proposito di Designing books, dedicato all’opera dello svizzero Jost Hochuli, in «Casabella», 1997, 649, ottobre. Il volume di Christopher Burke intitolato Paul Renner: the art of typography, London 1998, costituisce in assoluto il primo studio (esito di una ricerca per la tesi dottorale dell’autore presso l’University of Reading, forse la più specializzata al mondo nel settore della tipografia) sulla figura esemplare di questo tipografo e disegnatori di caratteri tedesco. Assai filologico e parcamente ma puntualmente illustrato (spiace la pesante copertina, non all’altezza degli standard abituali della casa editrice), il lavoro di Burke esamina l’intero arco della carriera artistica e umana di Renner. Nato nel 1878 in Prussia (e “prussiano” si dichiarerà in un suo curriculum del 1925), da un padre teologo evangelico, segnato da una rigorosa educazione religiosa, Renner incarna, con il suo lavoro, temi centrali nella cultura germanica della prima metà del novecento. Formatosi come artista tra le accademie di belle arti di Berlino, Karlsruhe e Monaco di Baviera, attivo inizialmente come pittore nell’ambito del “rinascimento culturale monacense” del primo novecento, è attratto dalla progettazione del libro (per cui frequenta una scuola di arti applicate a Monaco, ove insegna anche Hermann Obrist) ed è tra i primi e duraturi membri del Deutscher Werkbund, partecipando attivamente all’intera vita dell’associazione e ai suoi controversi dibattiti. Dopo aver lavorato brevemente alla Kunstschule di Francoforte (città ove entra in contatto con Ferdinand Kramer, attivo nel dipartimento standardizzazione alle dipendenze di Ernst May) alla metà degli anni venti, nello stesso periodo in cui inizia a progettare il carattere Futura, già dal 1926 torna a Monaco, chiamatovi come direttore di quella che sarà nota come Graphische Berufschule, celebre scuola di arti grafiche, che vede tra i suoi docenti anche Jan Tschichold (il teorico della neue typografie), divenendo il fulcro della riforma grafica della Germania della repubblica di Weimar. Con l’avvento del nazismo, nel critico anno 1933, Renner viene allontanato e poi dimissionato dal suo posto; non prima (tra marzo e maggio) di aver organizzato, a nome del Werkbund berlinese, e allestito -guardato a vista da una camicia bruna- la partecipazione tedesca alla V Triennale di Milano, dedicata alle arti e le industrie grafiche, ove ironicamente si merita un gran diploma d’onore e l’attenzione ufficiale delle autorità, a cominciare dal sovrano in visita. Gli anni del nazismo sono vissuti da Renner in una sorta di “immigrazione interna”, che lo vede comunque attivo sia come progettista, che come scrittore (da segnalare, in una ricca bibliografia, i suoi volumi Die Kunst der Typografie, del 1940, eco inversa del giovanile Typografie als Kunst, del 1922, oltre al “progressivo” Mechanisierte Grafik, del 1931). La sua presenza critica tornerà ad emergere nei dibattiti del dopoguerra, come voce amara dell’esperienza e della ragione, in un lento tramonto, fino alla sua scomparsa nel 1956. Un contributo fondamentale, dunque, questo di Burke su Renner, a cui si può rivolgere forse solo l’appunto critico di non aver rivolto abbastanza attenzione, in tanto sforzo di ricerca archivistica, alle vicende della Triennale, ignorando la documentazione disponibile e l’impatto profondo prodotto dalla mostra di Renner sulla cultura grafica italiana: non a caso, il 1933 è l’anno della riforma di «Casabella» (con la nuova testata composta proprio in Futura, com’è anche oggi), della nascita di «Campo grafico», dell’inizio delle attività dello studio Boggeri, per dirne alcune. È sfuggito a Burke anche l’eco non trascurabile prodotta nella pubblicistica da tale evento, di cui, ad esempio, Edoardo Persico (all’autore inglese sarebbe stato utile consultare almeno Guido Modiano, Tipografia di Edoardo Persico, in «Campo grafico», 1935, 11-12) scrive in «L’Italia letteraria», nel maggio 1933, concludendo profeticamente: «Alla Triennale di Milano, soltanto la mostra tedesca, che si limita a saggi di arte grafica, e la mostra svedese […] sono al corrente del gusto europeo. Basterebbe notare come la composizione tipografica si vada orientando, in Germania, verso equilibri e ritmi che esistono indipendentemente dal contenuto dello scritto, per capire come questo espressionismo grafico si accordi al gusto più vivo dell’arte moderna. […] Nel 1936, noi, forse, non rivedremo a Milano, né Paul Renner, che ha ordinato questa mostra della stampa tedesca, né nessuno dei suoi compagni che hanno fatto la rivoluzione dell’architettura moderna».
Paul Rand
Escludendo dal novero della bibliografia randiana una non poi ricchissima messe di articoli in riviste e periodici diversi (magri, comunque, gli interventi di rilievo), gli unici volumi sull’attività di Rand erano finora quelli da lui stesso pubblicati, certamente non trascurabili ma inevitabilmente autoreferenziali e parabiografici, da assumere piuttosto come documenti e “sintomi” di una poetica. A porre rimedio a questa situazione è un lussuoso, recente volume di grande formato, frutto dell’abile penna di Steven Heller, autore che si distingue nella bibliografia statunitense specializzata nel settore della grafica per una rigogliosa produzione ma che è anche Senior Art Director del «New York Times», Editor dell’«Aiga Journal of Graphic Design», nonché docente della School of Visual Arts Mfa/Design Program di New York -una vera quanto prolifica autorità, dunque, nel campo. Intitolato semplicemente e senz’altra sottotitolazione Paul Rand (e come poteva essere diversamente?), questo autentico coffee-table book, non trascurabile già solo per il suo peso fisico, edito per i tipi di Phaidon Press, London 1999, nelle oltre 250 pagine che lo compongono accoglie anche una breve premessa di Armin Hofmann, una (poco più lunga) introduzione di George Lois e un capitolo finale sulla didattica di Rand «professore moderno» a cura di Jessica Helfand, prima degli inevitabili, utili apparati cronologici e bibliografici. Accompagnato da una ricchissimo, stracurato e strepitoso repertorio iconografico, il testo di Heller costituisce il corpo centrale del volume, articolandosi in cinque capitoli, che biograficamente corrispondono grossomodo ad altrettanti fasi della carriera di Rand. Subito veniamo a scoprire che il nostro, nato nel 1914 con il gemello Fishel (scomparso assai giovane) da una famiglia di stretta ortodossia ebraica e cresciuto nel distretto di Brownsville a Brooklyn, New York, in realtà si chiamava di nome Peretz e di cognome Rosenbaum e che assumerà lo pseudonimo di Paul Rand per via della minor connotazione “etnica”. Dopo aver studiato (1929-32), prima al Pratt Institute e poi alla Parsons School of Design, nel 1933 Rand segue anche un corso di disegno di Georg Grosz; dalla metà degli anni trenta i primi lavori di rilievo: Art Director (1936-41) delle riviste «Apparel Arts» ed «Esquire», tra l’altro disegna una memorabile serie di copertine per «Direction» (1938-45). Il lavoro di Rand viene ben presto notato da Laszlo Moholy-Nagy, che pubblica uno dei primissimi articoli su di lui nel 1941. Sempre nel 1941, a 27 anni, Rand diventa Art Director di una delle più importanti agenzie di advertising di New York, la William H. Weintraub, ove lavora fino al 1955, dando vita a memorabili campagne (una per tutte: quella per i sigari El Producto). È attivo anche in campo editoriale (copertine di riviste e volumi, in particolare per Knopf); nel 1946 pubblica il suo primo libro, Thoughts on Design -riedito nel 1970-, a cui seguiranno, tra il 1985 e il 1996: Paul Rand. A Designer’s Art; Design, Form, and Chaos; From Lascaux to Brooklyn. Giunto rapidissimamente nell’Olimpo della grafica statunitense, dalla metà degli anni cinquanta Rand inizia la serie di assai durevoli consulenze («good design is good business») per la corporate identity di alcuni colossi industriali, che lo hanno reso celebre, quali: Ibm (1959-91), Westinghouse (1959-81), Cummins (1961-96); per non parlare dei suoi altri logo, capolavori da manuale d’immagine, da Ups (1961) a Abc (1962) fino a NeXT (1986) o Ussb (1995). Sciovinisticamente, non dispiace scoprire che il modello ispiratore del primigenio impegno della Ibm sono le attività di comunicazione aziendale della nostra Olivetti, che peraltro commette a Rand alcuni poster per la mitica Lettera 22 di Marcello Nizzoli. Tralasciando i non pochi altri suoi impegni, in tutti questi anni Rand non mancherà di insegnare, prima saltuariamente, poi regolarmente, in scuole di gran prestigio, quale la Yale University a Harvard (1956-69, 1974-96) o a Brissago (1977-96), fino alla sua scomparsa nel 1996. Assai puntuale seppur tendenzialmente agiografico nella parte testuale, abilmente integrata da brani di interviste a vari collaboratori, il libro-testimonianza di Steven Heller su Paul Rand era un titolo che mancava nella letteratura specializzata; finalmente ha riempito, per molti versi, un vuoto nei nostri scaffali che non si giustificava, se non per l’impegno e la cura richiesti a condurre in porto una simile impresa.
[2 x PR, in “Casabella” (Milano), 676, marzo, pp. 85-86]
Paul Renner
La fine, rada quanto domestica produzione della casa editrice londinese Hyphen Press, capitanata da Robin Kinross (di cui si deve segnalare l’acuto e fortunato Modern typography: an essay in critical history, 1992, 1994) ci ha abituati a preziosi e rari testi sulla storia della grafica e della tipografia del novecento -come avemmo modo di segnalare, a proposito di Designing books, dedicato all’opera dello svizzero Jost Hochuli, in «Casabella», 1997, 649, ottobre. Il volume di Christopher Burke intitolato Paul Renner: the art of typography, London 1998, costituisce in assoluto il primo studio (esito di una ricerca per la tesi dottorale dell’autore presso l’University of Reading, forse la più specializzata al mondo nel settore della tipografia) sulla figura esemplare di questo tipografo e disegnatori di caratteri tedesco. Assai filologico e parcamente ma puntualmente illustrato (spiace la pesante copertina, non all’altezza degli standard abituali della casa editrice), il lavoro di Burke esamina l’intero arco della carriera artistica e umana di Renner. Nato nel 1878 in Prussia (e “prussiano” si dichiarerà in un suo curriculum del 1925), da un padre teologo evangelico, segnato da una rigorosa educazione religiosa, Renner incarna, con il suo lavoro, temi centrali nella cultura germanica della prima metà del novecento. Formatosi come artista tra le accademie di belle arti di Berlino, Karlsruhe e Monaco di Baviera, attivo inizialmente come pittore nell’ambito del “rinascimento culturale monacense” del primo novecento, è attratto dalla progettazione del libro (per cui frequenta una scuola di arti applicate a Monaco, ove insegna anche Hermann Obrist) ed è tra i primi e duraturi membri del Deutscher Werkbund, partecipando attivamente all’intera vita dell’associazione e ai suoi controversi dibattiti. Dopo aver lavorato brevemente alla Kunstschule di Francoforte (città ove entra in contatto con Ferdinand Kramer, attivo nel dipartimento standardizzazione alle dipendenze di Ernst May) alla metà degli anni venti, nello stesso periodo in cui inizia a progettare il carattere Futura, già dal 1926 torna a Monaco, chiamatovi come direttore di quella che sarà nota come Graphische Berufschule, celebre scuola di arti grafiche, che vede tra i suoi docenti anche Jan Tschichold (il teorico della neue typografie), divenendo il fulcro della riforma grafica della Germania della repubblica di Weimar. Con l’avvento del nazismo, nel critico anno 1933, Renner viene allontanato e poi dimissionato dal suo posto; non prima (tra marzo e maggio) di aver organizzato, a nome del Werkbund berlinese, e allestito -guardato a vista da una camicia bruna- la partecipazione tedesca alla V Triennale di Milano, dedicata alle arti e le industrie grafiche, ove ironicamente si merita un gran diploma d’onore e l’attenzione ufficiale delle autorità, a cominciare dal sovrano in visita. Gli anni del nazismo sono vissuti da Renner in una sorta di “immigrazione interna”, che lo vede comunque attivo sia come progettista, che come scrittore (da segnalare, in una ricca bibliografia, i suoi volumi Die Kunst der Typografie, del 1940, eco inversa del giovanile Typografie als Kunst, del 1922, oltre al “progressivo” Mechanisierte Grafik, del 1931). La sua presenza critica tornerà ad emergere nei dibattiti del dopoguerra, come voce amara dell’esperienza e della ragione, in un lento tramonto, fino alla sua scomparsa nel 1956. Un contributo fondamentale, dunque, questo di Burke su Renner, a cui si può rivolgere forse solo l’appunto critico di non aver rivolto abbastanza attenzione, in tanto sforzo di ricerca archivistica, alle vicende della Triennale, ignorando la documentazione disponibile e l’impatto profondo prodotto dalla mostra di Renner sulla cultura grafica italiana: non a caso, il 1933 è l’anno della riforma di «Casabella» (con la nuova testata composta proprio in Futura, com’è anche oggi), della nascita di «Campo grafico», dell’inizio delle attività dello studio Boggeri, per dirne alcune. È sfuggito a Burke anche l’eco non trascurabile prodotta nella pubblicistica da tale evento, di cui, ad esempio, Edoardo Persico (all’autore inglese sarebbe stato utile consultare almeno Guido Modiano, Tipografia di Edoardo Persico, in «Campo grafico», 1935, 11-12) scrive in «L’Italia letteraria», nel maggio 1933, concludendo profeticamente: «Alla Triennale di Milano, soltanto la mostra tedesca, che si limita a saggi di arte grafica, e la mostra svedese […] sono al corrente del gusto europeo. Basterebbe notare come la composizione tipografica si vada orientando, in Germania, verso equilibri e ritmi che esistono indipendentemente dal contenuto dello scritto, per capire come questo espressionismo grafico si accordi al gusto più vivo dell’arte moderna. […] Nel 1936, noi, forse, non rivedremo a Milano, né Paul Renner, che ha ordinato questa mostra della stampa tedesca, né nessuno dei suoi compagni che hanno fatto la rivoluzione dell’architettura moderna».
Paul Rand
Escludendo dal novero della bibliografia randiana una non poi ricchissima messe di articoli in riviste e periodici diversi (magri, comunque, gli interventi di rilievo), gli unici volumi sull’attività di Rand erano finora quelli da lui stesso pubblicati, certamente non trascurabili ma inevitabilmente autoreferenziali e parabiografici, da assumere piuttosto come documenti e “sintomi” di una poetica. A porre rimedio a questa situazione è un lussuoso, recente volume di grande formato, frutto dell’abile penna di Steven Heller, autore che si distingue nella bibliografia statunitense specializzata nel settore della grafica per una rigogliosa produzione ma che è anche Senior Art Director del «New York Times», Editor dell’«Aiga Journal of Graphic Design», nonché docente della School of Visual Arts Mfa/Design Program di New York -una vera quanto prolifica autorità, dunque, nel campo. Intitolato semplicemente e senz’altra sottotitolazione Paul Rand (e come poteva essere diversamente?), questo autentico coffee-table book, non trascurabile già solo per il suo peso fisico, edito per i tipi di Phaidon Press, London 1999, nelle oltre 250 pagine che lo compongono accoglie anche una breve premessa di Armin Hofmann, una (poco più lunga) introduzione di George Lois e un capitolo finale sulla didattica di Rand «professore moderno» a cura di Jessica Helfand, prima degli inevitabili, utili apparati cronologici e bibliografici. Accompagnato da una ricchissimo, stracurato e strepitoso repertorio iconografico, il testo di Heller costituisce il corpo centrale del volume, articolandosi in cinque capitoli, che biograficamente corrispondono grossomodo ad altrettanti fasi della carriera di Rand. Subito veniamo a scoprire che il nostro, nato nel 1914 con il gemello Fishel (scomparso assai giovane) da una famiglia di stretta ortodossia ebraica e cresciuto nel distretto di Brownsville a Brooklyn, New York, in realtà si chiamava di nome Peretz e di cognome Rosenbaum e che assumerà lo pseudonimo di Paul Rand per via della minor connotazione “etnica”. Dopo aver studiato (1929-32), prima al Pratt Institute e poi alla Parsons School of Design, nel 1933 Rand segue anche un corso di disegno di Georg Grosz; dalla metà degli anni trenta i primi lavori di rilievo: Art Director (1936-41) delle riviste «Apparel Arts» ed «Esquire», tra l’altro disegna una memorabile serie di copertine per «Direction» (1938-45). Il lavoro di Rand viene ben presto notato da Laszlo Moholy-Nagy, che pubblica uno dei primissimi articoli su di lui nel 1941. Sempre nel 1941, a 27 anni, Rand diventa Art Director di una delle più importanti agenzie di advertising di New York, la William H. Weintraub, ove lavora fino al 1955, dando vita a memorabili campagne (una per tutte: quella per i sigari El Producto). È attivo anche in campo editoriale (copertine di riviste e volumi, in particolare per Knopf); nel 1946 pubblica il suo primo libro, Thoughts on Design -riedito nel 1970-, a cui seguiranno, tra il 1985 e il 1996: Paul Rand. A Designer’s Art; Design, Form, and Chaos; From Lascaux to Brooklyn. Giunto rapidissimamente nell’Olimpo della grafica statunitense, dalla metà degli anni cinquanta Rand inizia la serie di assai durevoli consulenze («good design is good business») per la corporate identity di alcuni colossi industriali, che lo hanno reso celebre, quali: Ibm (1959-91), Westinghouse (1959-81), Cummins (1961-96); per non parlare dei suoi altri logo, capolavori da manuale d’immagine, da Ups (1961) a Abc (1962) fino a NeXT (1986) o Ussb (1995). Sciovinisticamente, non dispiace scoprire che il modello ispiratore del primigenio impegno della Ibm sono le attività di comunicazione aziendale della nostra Olivetti, che peraltro commette a Rand alcuni poster per la mitica Lettera 22 di Marcello Nizzoli. Tralasciando i non pochi altri suoi impegni, in tutti questi anni Rand non mancherà di insegnare, prima saltuariamente, poi regolarmente, in scuole di gran prestigio, quale la Yale University a Harvard (1956-69, 1974-96) o a Brissago (1977-96), fino alla sua scomparsa nel 1996. Assai puntuale seppur tendenzialmente agiografico nella parte testuale, abilmente integrata da brani di interviste a vari collaboratori, il libro-testimonianza di Steven Heller su Paul Rand era un titolo che mancava nella letteratura specializzata; finalmente ha riempito, per molti versi, un vuoto nei nostri scaffali che non si giustificava, se non per l’impegno e la cura richiesti a condurre in porto una simile impresa.
[2 x PR, in “Casabella” (Milano), 676, marzo, pp. 85-86]
<< Home