[2000#01] wim crouwel
In una collana sperimentale, denominata Kwadraatblad (quaderno quadro) per via del formato fisico (25 x 25 cm) e, si presume, ideal–teorico, l’azienda tipo–litografica olandese De Jong & Co. di Hilversum pubblica nel 1967 un fascicolo dalla squillante copertina rossa, intitolato nella versione inglese (propriamente, a nuove lettere) new alphabet (nella versione indigena, suona nieuw alfabet); ove, scorrendo il colophon, si legge, tra l’altro: © Wim Crouwel (Total Design) Amsterdam. Non è il primo di tali quaderni, però: la serie dei Kwadraatbladen, ricca di altri significativi episodi, inizia nel 1954, per iniziativa di un grafico assai attivo nella promozione della cultura visuale non solo nel suo paese, quale Pieter Brattinga, figlio peraltro del proprietario della De Jong & Co.
Con sobria discrezione, si annuncia così uno degli esperimenti di disegno di lettere più interessanti della seconda metà del novecento, quale coagulo di lunghi e dipanati fili che si intrecciano sia nella vicenda del progettista che nella storia degli alfabeti moderni e della parola visibile. “Nel 1967, con l’introduzione delle prime attrezzature elettroniche per la composizione tipografica, – commenterà Crouwel nel 1988 – ho proposto un carattere monoalfabetico in risposta a nuovi bisogni funzionali. Era una proposta di natura sostanzialmente teorica, giacché alcune nelle lettere non avevano somiglianza alcuna con quelle usuali. La cosa richiamò molta attenzione ma il tentativo era piuttosto futile, in un periodo nel quale il funzionalismo, per come lo si intendeva nello spirito del Bauhaus, veniva attaccato e dichiarato anti–umano e antiquato”.
Originario di Groningen, capoluogo della autoctona Frisia nel nord del Paesi bassi, il trentanovenne Willem ‘Wim’ Hendrik Crouwel nel 1967 è già uno dei progettisti visuali olandesi di maggiore rilievo e notorietà internazionali. Terminata la formazione superiore nella sua città natale presso l’accademia Minerva (1946–49), una scuola di arti applicate di salda tradizione, dopo il servizio militare (1949–51) che lo porta per la prima volta lontano da casa, Crouwel segue il corso serale di tipografia dell’IvKNO (1951–52), Instituut voor Kunstnijverheids Onderwijs (istituto per l’educazione alle arti industriali, meglio noto, in seguito, come accademia Gerrit Rietveld) ad Amsterdam; in questa città inizia a lavorare, con l’apprendistato presso la Enderberg (1952–54), specializzata in standistica e realizzazioni espositive, che lo mette in contatto per la prima volta con dei grafici svizzeri. All’apertura di uno studio proprio ad Amsterdam (1954–57), segue un periodo di collaborazione con l’architetto d’interni e designer Kho Liang Ie (1956–60) e la riapertura del proprio studio (1960–63), prima della fondazione (con Friso Kramer, Benno Wissing e i fratelli Paul e Dick Schwarz) e co–direzione di TD Associatie voor Total Design NV (1963–80), sigla che – confrontabile forse solo, per analogia di struttura, afflati e cronache, con la partnership originariamente britannica dei Pentagram – lo rende celebre in tutto il mondo: un pool di designers, mirato alla progettazione integrata e razionale di artefatti comunicativi e strumentali, all’egida di una visione positiva di intervento nell’ambiente antropico.
Non è questa né l’occasione, né la sede per ripercorrere la vicenda straordinaria di Total Design, che profondamente impronta di sé la scena visual–internazionale degli anni sessanta e settanta sotto la leadership ideologica di Crouwel, con realizzazioni esemplari nei suoi vari campi di attività e in particolare in quelli della comunicazione istituzionale d’immagine, documentata in numerose mostre e pubblicazioni (a cui si può rimandare il lettore che desideri maggiore approfondimenti) e probabilmente ai più nota, se non per ricordare che Crouwel ne sarà in seguito anche il consulente e consigliere spirituale (1980–85), prima di dirigere il museo Boymans–van Beuningen di Rotterdam (1985–93) e di riprendere, con vena instancabile, un’attività in proprio (1994–sgg). Alla felice e fortunata figura professionale, inoltre, Crouwel ha sempre affiancato quella di un assai qualificato e ricercato docente, inizialmente presso l’accademia di Den Bosch (1954–57), poi presso l’IvKNO di Amsterdam (fino al 1963), infine al politecnico di Delft (1965–85) e al Royal College of Art di Londra (1981–85).
L’esperimento del new alphabet si colloca, dunque, sul crinale della carriera di Crouwel, le cui attitudini progettuali si potrebbero descrivere, tentando un sintetico paragone con due dei maggiori esponenti nel secondo dopoguerra del design Usa (paese di continuo, storico confronto per l’Olanda), come una sorta di ibrido tra la sapienza del corporate design di Paul Rand (in una versione cordiale e con una visione collegiale del lavoro) e la effervescente vena espositivo–comunicativa degli Eames (temperata da un approccio razionale, poco incline alla emotività, e innervata da un gusto europeo).
Di fatto, pur avendo avuto continuamente a che fare con le lettere e gli alfabeti nel suo lavoro di progettista visuale, Crouwel non è (e non si reputa) progettista di lettere, disegnatore di tipi a stampa, bensì uno sperimentatore, non assiduo e occasionale, di forme appropriate per la parola visibile.
La presentazione del nuovo alfabeto nelle pagine del Kwadraatblad si precisa fin dalla copertina, ove vien spiegato, nei sottotitoli, che è una “possibilità di nuovo sviluppo”, cioè una “introduzione alla tipografia programmata”.
Cosa intende dire, con ciò, Crouwel? La dichiarazione che si legge più avanti è esplicita: il new alphabet è la proposta di “un nuovo tipo che, più di quelli tradizionali, è adatto ai sistemi di composizione con tubi a raggi catodici”. In altri termini, argomenta Crouwel: “la macchina deve essere accettata come un dato essenziale, se vogliamo far fronte alle necessità della nostra epoca. La quantità di informazioni che dev’essere stampata ogni giorno, necessariamente, è cresciuta a tal punto che la meccanizzazione è indispensabile […] Ma le lettere non si sono mai evolute con le macchine. L’alfabeto non convenzionale qui illustrato va inteso meramente come un passo iniziale in una direzione che può probabilmente essere sviluppata con altre ricerche. Il mezzo di riproduzione che si assume come punto di partenza è il raggio catodico, che corrisponde al medesimo principio della televisione”.
A una civilizzazione macchinista matura, a un’era medial–elettronica alla conquista di nuovi spazi, a micro– e macro–scala (a ciò alludono scopertamente le immagini che illustrano il fascicolo), deve – secondo l’intuizione di Crouwel – corrispondere, sia pur sperimentalmente, un disegno di lettere “catodico”, basato sul nuovo supporto fisico di tracciamento (il monitor tv) e sull’accrescimento necessario del flusso informazionale, reclamato dai tempi moderni. Si intrecciano significativamente, sullo sfondo di questa ipotesi, tre elementi di ragionamento: la pristina consapevolezza della radicale trasformazione in atto nei sistemi di allestimento testuali (il perfezionamento allora in corso della fotocomposizione sta per distruggere la plurisecolare, plumbea, immobile essenza della bottega di Gutenberg); le esigenze urgenti di accelerazione produttiva, fondate sull’unica variabile attiva (“solo la velocità del processo di manifattura è cambiato”, afferma Crouwel nella presentazione, infatti); l’aspirazione a un controllo o, meglio, a una nuova progettualità, in grado di tradursi in una esatta, razionale pianificazione del disegno delle lettere, a sfondo matematico–computazionale, echeggiando una tematica diffusa nella sperimentazione contemporanea, quella delle “arti programmate”, fondate su una teoria di costruzione e fruizione delle attività estetiche tanto impersonal–processuale quanto logico–astratta.
In questa cornice, Crouwel formula la struttura del suo alfabeto; si tratta di una matrice bidimensionale da 5 x 9 unità, in cui ogni lettera e le relative variazioni di peso e colore (dal “chiaro” al “nero”, dallo “stretto” al “largo”, nonché un “inclinato”, per ricorrere alla terminologia classica dei tipi a stampa) sono individuabili tramite un codice associato di 5 variabili, a/b/c/d/x: a è il numero di unità verticali (dispari), b le linee per unità verticale (200 per cm), c le unità orizzontali (dispari, minimo: occhio della lettera + 4), d le linee per unità orizzontale (200 per cm), x le unità dell’occhio della lettera (dispari). È ovvio che le variazioni possibili, in forma combinatoria dei singoli parametri, una volta definiti i tratti delle singole lettere, sono innumerevoli quanto agevolmente “programmabili”, per analogia di variabili, onde ottenere determinati effetti. Il tutto appare, in conclusione, come una procedura scientifico–matematica di operazioni univoche, a variabilità controllata, che permette di descrivere e configurare un nuovo alfabeto, esito conseguente di premesse chiare.
Fin qui, nell’esame del new alphabet non s’è fatto altro che seguire le dichiarazioni programmatiche del progettista; ma è il caso di fidarsi e affidarsi candidamente alle intenzioni dell’autore, alle auto–descrizioni progettuali, o ci sono altri elementi in gioco, celati sotto tanta esternata razionalità?
Parrebbe opportuna una verifica, che saggi la corrispondenza tra tali affermazioni e il concreto artefatto comunicativo che il Kwadraatblad presenta. Per dare delle risposte conseguenti, dobbiamo tornare a scorrere il fascicolo, guardando con attenzione le figure; e a ben vedere, troviamo subito, sin dalla copertina, non uno ma due alfabeti: uno (positivo, nero impresso su bianco) composto da tratti pieni ortogonali, sottili rettangoli i cui giunti sono formati da snodi a 45° o, più precisamente, dalla semicampitura di un’unità quadrata del modulo lungo la diagonale, così che il giunto risulta essere un triangolo isoscele di cateti pari a 1 e ipotenusa pari a radice di 2; l’altro alfabeto (negativo, bianco bucato su nero) è composto, invece, da una serie di pallini (uno per unità del modulo), ove le giunzioni non sono altro che i pallini che si trovano nel punto di snodo.
Che cosa accomuna allora i due alfabeti, a prescindere dal palese ma sviante richiamo alle forme–base di componenti elettronici di segnalazione dell’epoca piuttosto che ai pixel dei tubi catodici o alle matrici di aghi dei sistemi di stampa a impatto? Fissata la logica della griglia 5 x 9, ad apparentare gli alfabeti è, in effetti, una scelta sensibile quanto arbitraria di ur–formen, di configurazioni originarie dell’intero set alfabetico (lettere, cifre, segni d’interpunzione), elementarizzate fino al limite della potenziale riconoscibilità, secondo un processo non nuovo, anzi insistentemente ricorrente, nella storia del disegno delle lettere moderne – ma su questo aspetto dovremo tornare presto. In ogni caso, non possiamo non notare come, nella letteratura specialistica, il nome di new alphabet sia attribuito ed identifichi solo la prima, positiva, serie dei due alfabeti, suggerendo una scarsa attenzione della critica alla lettura dei documenti.
Altra verifica che appare utile, è quella di ripercorre la produzione di Crouwel, in cerca di tracce, precedenti ma anche successive, per meglio collocare la novità del new alphabet e il suo utilizzo evolutivo da parte dell’autore. Le immagini pubblicate di schizzi e studi per il new alphabet (datati, non a torto, prudenzialmente “circa 1967”) rivelano, innanzitutto, una grande variabilità di soluzioni in itinere, talora con gradi inferiori di riduzione dei tratti pertinenti e varie incertezze, pur tuttavia sempre ancorate alla medesima ipotesi di minima forma materiale, problema – è ben noto – comune a tutto il design razional–ulmiano dell’epoca. A ritroso, si scopre ben presto che nell’aprile 1967, per la relazione e l’invito al congresso Mechanisering en automatisering in het grafisch bedrijf, promosso dalla vjgo, associazione di giovani operatori grafici, e nel settembre del 1966, per la copertina di un fascicolo introduttivo alla Commission on the use of computers, per il quarto congresso della European federation of financial analyst societies, Crouwel aveva già utilizzato esattamente le lettere del primo dei due alfabeti illustrati nel Kwadraatblad; il che ci impone di retrodatare di forse un paio di anni il disegno del new alphabet. Andando ancor più lontano, ci si imbatte in due assai simili e significative (ai nostri fini) copertine, rispettivamente del 1960 e del 1962, per il catalogo della partecipazione olandese a la Biennale di Venezia, ove la parola Olanda è analogamente composta con lettere disegnate a tratti pieni ortogonali, dai giunti a 45°: invenzione che è progenitrice diretta del new alphabet e che, in una variante ancor più sensibile al problema dei giunti, appare anche nella copertina del catalogo dello Stedelijk Museum di Amsterdam dedicato a Brusselmans nel 1960 (riutilizzato poi nella copertina del catalogo Ewald Mataré, sempre dello Stedelijk Museum di Amsterdam) ma la cui primissima formulazione si riconosce nel logo della carta intestata per il centro copie Rijnja di Amsterdam (1958 circa). Tutto ciò conferma l’idea di un lavorio di lunga data (e di un reiterato affiorare nel tempo) sul tema della forma delle lettere in Crouwel, che già al principio degli anni sessanta individua una soluzione in grado di eliminare le curve, cioè la geometria d’ordine superiore alle rette – forse perché le curve sono espressione della scrittura manuale, naturale, sin quasi dai primordi, e invece l’obiettivo è quello di una lettera meccanico–macchinista?
Successivamente, non sono molte le occasioni in cui Crouwel ricorre al new alphabet, anche se ciò può apparire curioso; è da sottolineare, anzi, il fatto che lo utilizzi soltanto per la copertina del numero di luglio–agosto 1968 del nostro “linea grafica”, su invito del lungimirante Franco Grignani, eccelso ede appartato maestro della progettazione visuale italiana. Di lì a poco fanno la loro comparsa altre lettere modulari ed elementari di Crouwel, come quelle disegnate nel 1968 per la mostra Vormgevers allo Stedelijk Museum di Amsterdam e per il calendario della tipografia Erven E. van de Geer di Amsterdam, nel 1969 per la mostra Visuele communicatie Nederland sempre allo Stedelijk Museum di Amsterdam, nel 1970 per la mostra Claes Oldenburg ancora allo Stedelijk Museum di Amsterdam, nel 1971 nell’alfabeto per il Fodor Museum (un ben noto set, che è una variante del principio di Vormgevers), nel 1972 per il quaderno Visuele communicatie. Typo Vision International (altra variante di Vormgevers), nel 1975 ancora per il calendario 1975 della tipografia Erven E. van de Geer di Amsterdam, nel 1976 nell’alfabeto per macchina da scrivere Politene per la Olivetti e nei parentali notissimi francobolli delle poste olandesi (precorsi dal commemorativo per Osaka del 1970).
E se si percorre nel verso cronologico opposto la carriera di Crouwel, si trovano altrettanti esperimenti significativi di disegno di lettere, a comprovare un interesse di ricerca durevole e coerente negli indirizzi: le lettere albersiane del poster e della copertina del catalogo Edgar Fernhout per lo Stedelijk van Abbe Museum di Eindhoven nel 1963 (la cui resecazione orizzontale ricorda la soluzione del poster per la partecipazione olandese alla XII Triennale di Milano nel 1960), le lettere silografiche e compresse del poster Hiroshima per lo Stedelijk van Abbe Museum di Eindhoven nel 1963 (sintomo di un problema ricorrente, riappaiono, ad esempio, nella copertina del catalogo Robert Muller lo Stedelijk Museum di Amsterdam, nel 1964, e in versione ortogonalmente irrigidita, nelle carte intestate per Alice Edeling, nel 1969), le cifre spezzate verticalmente degli auguri personali per il 1957 (riprese negli auguri per il 1958 dello Stedelijk van Abbe Museum di Eindhoven, ma anche nelle lettere per la copertina del catalogo Wessel Couzijn nel 1958). Nonostante questi elenchi, non si sono certo esaurite tutte le circostanze in cui Crouwel s’è cimentato con forme di lettere sperimentali ma ciò che importa è tanto mostrare la continuità di un atteggiamento sperimentale, che nel new alphabet trova il luogo di stazione più elevato e meditato, quanto le ristretta gamma di occasioni in cui questo è stato utilizzato effettivamente.
Solo la diffusa rinascita di vasti interessi nei confronti del disegno dei caratteri, spinta dall’avvento recente della tecnologia del desktop publishing, ha fatto sì che l’attenzione critica tornasse a rimeditare sul ruolo del new alphabet (e di molti altri alfabeti moderni) – fino alla riedizione digitale di quattro tipi di Crouwel nel 1997, nella collana Architype della britannica The Foundry diretta da Freda Sack e David Quay: new alphabet (in 3 pesi), Stedelijk (Vormgevers 1968), Fodor (1971), Gridnik (Politene 1976).
Non ci siamo ancora interrogati, tuttavia, né sulla effettiva parentela o contiguità del new alphabet con altri coevi tipi “catodici” né, soprattutto, abbiamo risposto alla domanda: donde derivano quelle forme scabre e quali garanzie offre l’autore circa le loro condizioni di lettura e riconoscibilità, operando con uno scoperto approccio di riduzione all’essenziale?
Alla prima domanda, non si può che dare una articolata risposta negativa. Il disegno degli alfabeti a matrici di punti delle stampanti ad impatto, oggi rese obsolete dalla tecnologia laser e ink–jet, ormai antidiluviane sul piano della forma delle lettere e pressocché abbandonate ovunque ci sia un problema di qualità, si è evoluto rapidissimamente, incrementando assai presto il numero degli aghi nelle testine, per emulare la resa di tradizionali caratteri a stampa; solo in una fase precoce, le matrici in questione erano formate da un set così ridotto da poter essere paragonate alle 5 x 9 unità del new alphabet – sia pur solo in teoria, in quanto l’incerto segno risultante dalla parziale sovrapposizione di punti non è certo confrontabile con la perfezione geometrica di rette e diagonali richiesta dal new alphabet (illuminante una illustrazione del Kwadraatblad, ove si confrontano le a di un Garamond e del new alphabet, rivelando l’altissima risoluzione necessaria a rappresentarle, in una logica di riproduzione ancora non vettoriale). D’altra parte, i tipi dettati dalla necessità dell’ocr, il riconoscimento ottico dei caratteri a quel tempo in piena elaborazione, presentano tutt’altre caratteristiche: questa semplificazione dell’alfabeto, per adattarlo alle tecniche di ocr, risulta in un disegno comunque elaborato nei raccordi, fitto di curve, pienamente memore della forma comune delle lettere sia maiuscole che minuscole, tutt’altro che radicale insomma rispetto al new alphabet, pur fondandosi su matrici minimali, come nel caso della griglia di 4 x 7 dell’Ocr–a (1966), disegnato per rispondere ai requisiti dell’Us Bureau of Standards, che già per l’Ocr–b (1968), sviluppato con la supervisione di Adrian Frutiger sulla base delle richieste avanzate dall’European Computer Manufacturer Association fin dal 1961, si trasforma in una matrice di 18 x 25; né si possono riscontrare affinità con i caratteri per analoghe codifiche bancario–numeriche, quali il diffusissimo E13b o il Cmc7, che trovano consonanza puramente stilistica con i toni da era spazial–robotica di una pletora di tipi rapidamente passati di moda, quale il Countdown di Colin Brignall e le infinite analoghe variazioni nella gamma dei trasferibili, allora in uso. Semmai, la mancanza o meglio la sostituzione delle curve con giunti a 45° potrebbe ricordare il disegno di lettere in situazioni e luoghi ove ciò rappresenta una semplificazione esecutiva, come in certo lettering aereo–navale militare, ripreso da caratteri come il Machine (1970) di Tom Carnase e Renne Bonder, se non fosse che si tratta palesemente di tutt’altro repertorio.
Alla seconda domanda, relativa alle radicali scelte di minima forma utile, bisogna rispondere osservando (cosa non fatta finora) che il new alphabet è un monoalfabeto, cioè appartiene a quelle particolari famiglie di tipi che prendono a proprio modello una sola delle due serie che (storicamente giustificate, logicamente rigettabili) compongono il nostro alfabeto: maiuscole e minuscole, le cui origini vanno rintracciate rispettivamente nella capitale lapidaria romana (I secolo) e nella minuscola carolingia (IX secolo). L’alfabeto di Crouwel è palesemente riferito alle sole forme del minuscolo; inoltre, se volessimo apparentarlo storicamente con maggior precisione, potremmo ravvisarvi una impostazione affine al semionciale (VI secolo), per l’assetto tetracorde e l’apparire di ascendenti e discendenti, sia pur contenute, nonché nel disegno a forca della e. Tuttavia, il processo di tracciamento dei segni pertinenti è talmente sottrattivo in Crouwel, almeno per alcune lettere (come a, g, j, s, x e z), da suggerire l’obbedienza a un principio di astrazione assai forte, più della possibile mediazione a favore di criteri comuni di riconoscibilità. Se è risaputo che leggiamo le parole (gruppi di lettere), grazie al loro relativo isolamento (spazi bianchi minori tra le lettere che tra le parole), per il loro profilo complessivo – giacché il nostro occhio sfiora lo skyline delle righe di testo, nello scansirle durante l’atto della lettura – e non certo compitando ad una ad una le lettere che le compongono, è altrettanto noto che la riconoscibilità delle singole lettere (anche nei gruppi che formano le parole) è data dalla loro emiporzione superiore, fatto facilmente verificabile confrontando le due metà (superiore ed inferiore) di qualsiasi lettera o gruppo di lettere: la metà superiore contiene un maggior numero di tratti individuali, di elementi caratterizzanti, di segni pertinenti, che sono quelli che consentono appunto il rapido riconoscimento mentale delle singole lettere. Il new alphabet nega questo basilare principio percettivo: le emiporzioni di alcune lettere sono tutt’altro che riconoscibili e, in molti casi (a, f, g, l, p, q, s, x, y, z, a parte la barretta inferiore di raddoppio che individua artificialmente la m e la w), è indispensabile l’apprendimento del loro disegno, per poterle distinguere. Alcune lettere sono, infatti, prive di porzioni significative dei loro tratti pertinenti abituali: l’occhio nella a, il fusto nella f, il cappio inferiore nella g, il gancio inferiore nella j, il gancio superiore nella s, il gancio inferiore nella z, mentre l’irrigidimento geometrico porta a un disegno della k e della x abnorme; inoltre, risultano ambigue coppie di lettere come la d e la g, la k e la t, la s e la z, la u e la v – in conclusione, è di difficile individuazione, per il disegno eterodosso, buona parte dell’alfabeto e, in particolare, le lettere a, g, j, k, s, x, z. Né la situazione migliora se teniamo conto del fatto che, per indicare le maiuscole, Crouwel adotta l’artificio di una barretta orizzontale superiore.
Minima materia, dunque, non implica né massima né abituale leggibilità; semmai, nel caso di Crouwel, si tratta del rispetto di una norma strutturale a priori, a cui conformare la meccanica delle forme, in una logica di congruenza, indifferente ai criteri usuali della leggibilità, che non caso reclamano l’uso di alti e bassi, di maiuscole e minuscole. L’universalità “catodica” del new alphabet è, dunque, palesemente contraddetta dal suo scarso rispetto delle forme storiche delle lettere. A quale obiettivo mira Crouwel o, meglio, a quali altri principi si ispira?
È necessario, a questo punto, rivolgersi alla storia delle lettere moderne, per poter rispondere alla domanda, riconoscendo come, in una serie di esperimenti novecenteschi, i temi sia della verifica del limite di riconoscibilità delle lettere, che della tensione verso un monoalfabeto non siano affatto nuovi – e perciò collocare il new alphabet di Crouwel lungo questa linea di continuità, a costituire una sorta di tappa pressocché finale, pel successivo infrangersi e assieme radicale innovarsi del disegno dei tipi nella procella digitale in cui siamo oggi immersi.
Esempi di tentativi di riduzione alla minima forma utile attraversano tutta la storia dei tipi del novecento, come dimostrano i casi esemplari tanto del semiomissivo Bifur (1929) di A.M. Cassandre, quanto (a distanza di quarant’anni, a dimostrazione del perdurare del problema) del logografico Stop (1970) di Aldo Novarese, ambedue fondati sullo scheletro delle maiuscole, con l’ambizione di individuarne una ultimativa essenza formale.
Ancor più forte, soprattutto in Germania (per la frequenza stessa delle maiuscole nella lingua tedesca), l’ambigua fascinazione a sfondo ideologico verso un monoalfabeto di minuscole, come si legge in un testo di Laszlo Moholy–Nagy su Il Bauhaus e la tipografia del 1925: “Già Jakob Grimm aveva scritto tutti i sostantivi con l’iniziale minuscola […] Il celebre architetto Loos argomenta nella raccolta dei suoi saggi: ‘Per i tedeschi, c’è una grande frattura fra lingua scritta e parlata. Parlando, non si possono usare le iniziali maiuscole. Ognuno parla, senza pensare alle iniziali maiuscole. Ma se un tedesco prende la penna in mano, non può più scrivere come pensa e come parla’. Anche il poeta Stefan George e il suo circolo hanno posto alla base delle loro pubblicazioni il monoalfabeto. Se a questo fatto si può obiettare che si tratta di una licenza poetica, possiamo aggiungere che a favore della monoalfabeto prese posizione nel 1920, in uno col libro Sprache und Schrift del dottor Porstmann, anche la sobria associazione degli ingegneri tedeschi, la quale motivò il suo atteggiamento sostenendo che l’uso delle iniziali minuscole non toglierebbe nulla alla nostra scrittura, ma la renderebbe più leggibile, più facile da apprendersi e sostanzialmente più economica: è inutile usare per uno stesso suono una quantità doppia di segni, quando basta la metà. Queste semplificazioni hanno conseguenze pratiche nella costruzione delle macchine per scrivere e per comporre, e implicano un risparmio di caratteri e di passaggi […] Il Bauhaus ha approfondito tutti i problemi concernenti la tipografia e ha riconosciuto giuste le argomentazioni addotte a favore del monoalfabeto”.
Queste tesi attraversano, aldilà del Bauhaus, la cultura tedesca di tutto il novecento (a lungo, la cultura visuale egemone in Europa), come dimostreranno gli assunti di Otl Aicher nel suo celebre volume typographie ancora nel 1988, ad esempio. Nel frattempo, si assiste a un fiorire internazionale di esperimenti di disegno di lettere che dai tipi di Herbert Bayer – dall’universal (1925) al bayer (1931) – e dal monoalfabeto (1926–29) di Jan Tschichold, passano attraverso le richieste di Laszlo Moholy–Nagy e le prove di Joost Schmidt e di Josef Albers al Bauhaus, le minuscole sperimentali di Paul Renner per la versione preliminare dell’epocale sans serif Futura (1927–30), elaborazioni miste come quelle del systemschrift (1927) di Kurt Schwitters o del peculiare Peignot (1937) di A.M. Cassandre, per giungere a saggi ancora acerbi (1944) in Max Bill, al mixage del primo monoalphabet (1945, basato sul Futura) e del successivo alphabet26 (1950, basato sul Baskerville) di Bradbury Thompson, fino al tentativo emblematico nei primi anni sessanta, ancora di Max Bill, di un “carattere di parole–immagini”, che sia “leggibile con l’aiuto di macchine, per l’enfasi sulle vocali, e più leggibile per la gente: un carattere del nostro tempo”.
Nello spazio di questa nota introduttiva, non è possibile confrontare e documentare analiticamente la vasta congerie di queste ed altre sperimentazioni dello stesso filone, per cui si è forzatamente obbligati a limitarsi a una elencazione esemplare, sulla strada di una filologia necessaria ad ogni operazione di lettura storica che non voglia ridursi ad acritica descrizione del proprio soggetto – e su questa strada, lungo è il percorso ancora da tracciare, se non altro nella poverissima letteratura specialistica del nostro paese, tutt’altro che privo di prove di rilievo nel campo del disegno di alfabeti nel novecento ma pressocché immemore di ciò, per la assoluta carenza di studi quanto, tuttora, di interessi scientifici e non dilettantesco–estemporanei per la materia.
Tornando al nostro soggetto, il caso del new alphabet è da confrontarsi e collegare con un’altra tradizione, che per certo era presente a Crouwel nel momento in cui si accingeva a riflettere sulle forme del suo alfabeto: quella indigena, autoctona, olandese, del disegno di lettere, che innerva profondamente le ricerche più radicali del novecento, fino a fare del paese la terra promessa della tipografia contemporanea, se non altro per la straordinaria quanto poco rilevata concentrazione di type designers che oggi vi lavorano.
L’Olanda ha una grande tradizione storica nell’arte della stampa e del disegno dei caratteri, notamente nel cinque–seicento: a partire, cioè, tanto dall’oriundo francese Christopher Plantin (1514–89), che si avvale dei tipi di Guillaume Le Bé, Claude Garamond e Robert Granjon, e dalla stirpe apparentata dei Moretus (attivi fino al 1876) nella cattolica Anversa, quanto dall’altra eminente dinastia degli Elzevir nella riformata Leiden, che nel “secolo d’oro” olandese ha in Christoffel van Dijck (1601–69) il proprio principale disegnatore di caratteri e punzoni (in uso ininterrottamente fino al 1810), a cui si affianca l’opera di altri punzonisti quali Bartholomeus Voskens († 1669) e Nicholas Kis (1650–1702) ad Amsterdam.
La tradizione classica delle “lettere olandesi” si rinnova nella prima parte del novecento, con figure di rilievo, per quanto poco note internazionalmente, quali De Roos e Van Krimpen. Sjoerd Hendrik de Roos (1877–1962), direttore artistico della fonderia Lettergieterij Amsterdam per trent’anni, è l’autore di tipi dal riconoscibile segno come lo Hollandse Mediäval (1912), l’Erasmus Mediäval (1923), l’Egmont (1933), il De Roos (1947) ma anche di due monoalfabeti unciali, quali il Libra (1938) e il bastoncino Simplex (1939); il suo allievo principale, Dick Doojes, disegna, tra l’altro, un carattere ispirato ai sans serif ottocenteschi, quale il Mercator (1957–61), presentato al pubblico specializzato da uno specimen curato graficamente proprio da Crouwel. Jan van Krimpen (1892–1958), dai primi anni venti fino alla sua scomparsa lavora per la fonderia Enschedé en Zonen di Haarlem come designer–capo, ideando, tra l’altro, tipi austeri e severi quali il Lutetia (1925), il Romanée (1928), il Romulus (1931), il Van Dijck (1934) e lo Spectrum (1952). Tra i suoi allievi si contano figure quali Sem Hartz (successore di Van Krimpen alla Enschedé en Zonen e autore, tra l’altro, del carattere Juliana nel 1958), Chris Brand e Bram de Does (autore, tra l’altro, del triplice Trinité negli anni settanta).
Nella seconda metà del novecento, non si può dimenticare la figura di Gerrit Noordzij, docente di rilievo alla Kabk, l’accademia reale di belle arti di Den Haag, teorico della tipografia (si veda, ad esempio, il suo The Stroke of the Pen, Kabk, Den Haag 1982), nonché disegnatore di tipi come il Remer; alla sua influenza si deve il formarsi di una squadra di designers attivi a Den Haag, quali Just van Rossum e Erik van Blokland, autori del notissimo Beowolf (1990), Petr van Blokland, Peter Verheul o Peter Matthias Nordzij, figlio di Gerrit. Altra figura d’eccellenza della seconda metà del novecento è Gerard Unger, collaboratore prima di Crouwel, poi della Enschedé en Zonen e infine designer free–lance di caratteri quali la famiglia Demos (1976), Praxis (1977) e Flora (1980) o lo Swift (1985) ma anche del lettering segnaletico per l’Amsterdam Metro e per il Giubileo 2000 di Roma. All’accademia di belle arti di Arnhem – città d’origine di Unger –, ove hanno insegnato grafici editoriale del calibro di Jan Vermeulen e Karel Martens, si è formato un altro gruppo notevole di progettisti olandesi di tipi, quali Evert Bloemsma, Martin Majoor e Fred Smeeijers.
A fianco di questa densa corrente di disegnatori di tipi d’ispirazione classica (nel senso di una professionalità specifica, maturata ed esperita sul campo), in Olanda, però, si è sviluppata anche una ricerca d’avanguardia nel campo dei caratteri, violentemente moderna e riduttiva, che (tra anni dieci e anni venti) ha avuto i suoi protagonisti principali in due membri del movimento neoplastico, ambedue alieni da una formazione specifica nel campo delle lettere: Bart van der Leck, che ricorre per tutta la carriera a un tipo di sua invenzione (1917 circa) completamente disarticolato nei giunti; Theo van Doesburg, vero leader di “De Stijl”, che elabora un carattere rigidamente geometrico (1919 circa), un monoalfabeto maiuscolo di “matematici accenti esatti” e di duratura influenza nei circoli del moderno, a cominciare dal Bauhaus, ove Van Doesburg tenterà di insegnare, limitandosi a svolgere un corso esterno (1921–22) di profonda impronta nella scuola tedesca, e dall’opera del grafico svizzero Theo Ballmer, nei secondi anni venti.
In realtà, bisogna riconoscere che l’influenza olandese sul pensiero progettuale tedesco non è una novità: dal 1904, infatti, il lavoro di un protagonista assoluto delle arti del novecento in Germania quale Peter Behrens (disegnatore egli stesso di importanti tipi nel primo decennio del secolo), che dall’anno precedente dirige la scuola d’arti e mestieri di Düsseldorf, è segnato fortemente dalle ricerche compositive dell’architetto–teosofo olandese J.L.M. Lauweriks, da lui chiamato a insegnare nella scuola di Düsseldorf (dopo aver sperato di poter avere H.P. Berlage). Vera figura–chiave per le ricerche geometriche fondate sul concetto di griglia modulare e di iterazione elementare, di una metodica delle proporzioni nello “spirito del tempo” e di una estetica sistematica, da applicarsi nell’architettura, nelle arti applicate e nella decorazione, fin dai primi anni dieci del novecento Lauweriks disegna, tra l’altro, un alfabeto geometrico da cui discendono, direttamente o indirettamente, tutti gli esperimenti di radicale elementarizzazione delle lettere del novecento. La sua didattica si basa, del resto, su manuali di disegno elaborati dall’amico e sodale Jan Hesselt de Groot fin dal 1896, in uso nelle scuole olandesi per decenni, ripresi successivamente da altri didatti, quale XXX: su quest’ultimo, non a caso, studierà la sua grammatica delle forme proprio il nostro Crouwel (che ancora lo conserva gelosamente nella sua biblioteca personale), negli anni di formazione a Groningen.
Si potrebbe credere di chiudere così un cerchio dipanantesi lungo tutto l’arco del novecento, che costituisce il contesto storico proprio del new alphabet di cui ci siamo occupati in questa nota introduttiva. Nuove direzioni di indagine potrebbero essere suggerite, tuttavia, dalla lettura del testo di Crouwel relativo alla tradizione delle minuscole in Olanda (Lower–case in the Dutch Lowlands, in “Octavo”, 1988, 5, pp. 6–13) o della conferenza tenuta a Den Haag nel 1996, in larga parte centrata sulla storia del new alphabet (Regarder, apprendre, savoir… douter, in “Étapes graphiques”, 1996, dicembre, pp. 33–38, tradotta qui in appendice); non senza che, in conclusione, si imponga di tornare a meditare sulle interrotte riflessioni di Roland Barthes circa la natura intima della lettera in Variations sur l’écriture: “La lettera è precisamente ciò che non rassomiglia a nulla: la sua natura stessa è quella di sfuggire inesorabilmente ad ogni rassomiglianza: l’assoluto intento della lettera è contro–analogico. Certo si tratta di un’affermazione al limite, poiché tutto finisce per avere similitudine con qualche cosa (e ciò che non assomiglia a niente finisce per avere somiglianza con una lettera); occorre dunque pensare che la lettera non si è ‘svincolata’ dal pittogramma, ma che piuttosto ad esso si è opposta”.
[Elementare, Crouwel… in abecedario la grafica del novecento, Electa, Milano 2002, apparato iconografico a cura di Pierpaolo Vetta]
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