8.7.04

[1999#07] bruno monguzzi


I molti modesti ideologi salottieri del nostro ultimo piccolo novecento; i critici incapaci di metter in crisi i propri strumenti d’indagine e di forgiarne di nuovi, caparbiamente, rischiosamente, galileianamente, di fronte all’evidenza fattuale e al riverbero veridico delle “cose” in campo; gli storici che ripercorrono solo agevoli sentieri ben battuti (mostrandosi “as happy as a monkey can be”, direbbe un celebre ironista chansonnier), pervicacemente abbarbicati a compartimentazioni stagne d’indagine, spacciate per specialismi, che riducono la cultura (in sé, una e olistica) a segmenti e lacerti fra loro necessarimente muti; i progettisti adusi a un professionismo indigente di idee e didassi, biecamente arrabattantisi a star dietro ai ghiribizzi delle mode e alle lusinghe del successo, invece di chiedersi il senso del loro fare e la “ragion etica” dei loro prodotti; tutti questi e noi tutti, appropriatamente siamo avvertiti da Mario Tronti, nel suo più recente libro, sul senso del nostro tempo: «Diciamo con onestà ciò che è: è un’età di Restaurazione. Ma senza Romanticismo. Anzi, sostanzialmente, neoclassica. Un neoclassicismo impudicamente avveniristico». In simile squallore, ancor più che ieri bisogna - parrebbe - tentare quanto Spinoza suggeriva come condotta filosofica: “nec flere, nec indignari, sed intelligere”. La pubblicazione di cui siamo onorati di occuparci in questa sede, eloquente e problematica sin dalla copertina, ci mette di fronte a un interrogativo cogente, a una domanda pressante, a un problema irrisolto. Quale ne è il soggetto, il tema, il contenuto ultimo, la questione che, come ogni buon libro, pone alla nostra attenzione e intelligenza, visto che sostanzialmente ci sottopone un articolata rassegna di “oggetti grafici”? In altre e più dirette parole: cosa è, meglio: cosa significa “arte”, al crepuscolo stanco di un secolo sanguigno quanto sanguinario, instabile e fecondo quant’altri mai?
La storia dell’arte del novecento in buona parte si svolge, giusta un’interpretazione condivisa, all’insegna della crisi della rappresentazione classica, in un accidentato percorso di scabrosa riflessione sui propri mezzi e fini, che non di rado è divenuta autodafé. Stando a tale ipotesi, l’arte del novecento esprime surtout un “negativo”: l’annichilimento delle forme, la distruzione della raffigurazione, la deflagrazione inesausta dell’universo iconico tradizionale, alla ricerca della sussistenza, in un improbabile status di autonomia. Fotografia, cinema, riproducibilità meccanica delle imagerie paiono esser stati gli ingredienti tecnici collaboranti a tale processo di “elaborazione”: una “analisi del profondo” - impiantatasi (sia chiaro) in un terreno artistico-culturale già assai instabile -, che si dilata fino all’oggi, con esiti variabili e lungo strade non tutte confrontabili, fatto salvo che il rischio tragico delle avanguardie artistiche d’inizio secolo si è stemperato troppo spesso nella facile vena di molti sperimentalismi successivi. Inutile dire che uno dei versanti più rigorosi di questa ricerca, quello astrattista, ben presto giunse a conclusioni estreme: bianco su bianco, nero su nero, afasia ultima del rappresentabile e rarefazione iper-sublimata dei mezzi di rappresentazione. Per distrazione sintomatica (lapsus mentis?), gli storici dell’arte sembrano non voler riconoscere (se non impropriamente e di sbiego, cioè per i pochi sparsi “artisti accademici” sopravvissuti) che, nel novecento, si è svolta anche un’altra ricerca, parallela, potentemente “positiva”, soprattutto anzi sostanzialmente da parte di chi ha continuato a saggiare forme, limiti e convenzioni della rappresentazione (senza negarla né evaderne), della comunicazione visiva, dell’architettura dell’informazione figural-testuale. Epigone di ciò: le varie arti villanamente definite “minori”, che poco hanno di minore, anzi, segnate dall’asciutta sachlichkeit del misurarsi (del doversi misurare) con le esigenze/pretese dei committenti, le attese/abitudini dei destinatari e i requisiti/limiti del mercato, cioè con la forma di “civilizzazione” che pare essersi imposta (malgré tout, malgré tous) al mondo, guasi verdadera verdad - ierofanìa o transustanziazione dell’epochè affaristico-millennaristica attuale? Nel riscrivere - perché di ciò si tratterebbe, e sarebbe ora - una storia delle arti del novecento (se preferite: degli artefatti comunicativi o, forse, visuali, per non parlar qui degli artefatti cinetici o utilitari - comunque, tutti protetico/comunicativo-prestazionali), si riconoscerebbe finalmente il merito che compete a figure straordinarie quali, ad libitum: Bayer, Boggeri, Burchartz, Caniff, Cassandre, Dudovich, Dwiggins, Erté, Frutiger, Goudy, Hergé, Jacovitti, McCay, Novarese, Renner, Rockwell, Stankowsky, Steinberg, Steiner, Tschichold, Zapf…
Queste alcune, inter alia - va da sé -, delle riflessioni (al di là della piacevole ed istruttiva lettura degli utili testi, a prescindere dalla raffinatissima mise-en-page di un non comune repertorio di artefatti visuali, oltre l’esser autentica rara avis di “qualità editoriale globale”) che può suscitare, in lettori non distratti né superficiali, il bel volume intitolato Bruno Monguzzi A Designer’s Perspective di Franc Nunoo-Quarcoo, edito nella serie Issues in Cultural Theory - sia detto en passant, francamente imbarazzante, per un europeo, questa fame ultima di teoria, fortemente yankee, dopo secoli di feroce pragmatismo - dalla Fine Arts Gallery della University of Maryland della Baltimore County, quale catalogo di una mostra sul nostro designer. V’è dell’altro da dire, in estrema sintesi, tuttavia, senza con ciò pretendere d’essere esaustivi né conclusivi con questa pubblicazione. A mio avviso, Monguzzi rientra a pieno titolo nella parzialissima, partigiana elencatio di cui sopra di protagonisti inter pares delle arti del novecento. Non a caso, perché è un allievo, tra gli ultimi but not least, di un geniale protagonista della cultura italiana di metà secolo: Antonio Boggeri, di cui ancor poco s’è scritto e che, invece, ben altra trattazione reclamerebbe. Con acume, in un breve ma parlante testo di un paio d’anni fa, saporosamente intitolato La mosca e la ragnatela, ovverossia l’Italia e la Svizzera, Monguzzi ricordava serenamente e onestamente questo suo debito (d’esser stato discepolo di Boggeri) e assieme grande merito (d’averne assorbito e ripreso la lezione), lasciando irrisolto, ché altrimenti non sarebbe possibile, il problema della propria personale identità: “che da allora sono andato cercando nel mio lavoro [corsivi nostri]. Identità, forse connaturale e connaturata a questo piccolo triangolo di terra elvetica insinuata in terra lombarda, dove la gente è troppo italiana per essere svizzera, ma troppo svizzera per essere italiana”.

[Bruno Monguzzi, in “notes” (Mendrisio), 3, pp. 9-10 e 37-39, partim]
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