[1999#04] tipologia
I caratteri della parola visibile
Si tratta di un caso di omonimia: quella del titolo non è la tipologia cara alla trattatistica sette-ottocentesca e al filone notevolissimo di studi architettonici, che ha svolto un ruolo tutt’altro che trascurabile nel panorama teorico anche del quasi concluso nostro secolo. Il nostro “discorso sui tipi” ha, comunque, a che fare con l’etimo greco typos, «che significa, in un senso generale e quindi applicabile a molte gradazioni o varietà della medesima idea -spiega il III tomo (1825) dell’Encyclopédie Méthodique. Architecture del buon Quatremère de Quincy-, modello, matrice, impronta, forma, figura in rilievo o a basso rilievo». Come riconosce l’autorevole autore, il termine «per altro è appropriato anche per alcune arti meccaniche, come prova la parola tipografia». È, in effetti, la tecnologia della «officina gutenberghiana», il materiale medium della plurisecolare produzione editoriale post-amanuense, quella a cui si fa riferimento nel titolo, attirando l’attenzione su una essenziale costituente di progetto e di processo: il disegno dei caratteri “mobili” della scrittura artificiale, il progetto dei “tipi” (seriali e componibili) della letteratura a stampa.
Lettere
È necessario ricordare a mo’ di premessa che i nostri “tipi” son segni che stanno per dei suoni: come tali, derivano dalle lettere delle scritture naturali, dalle chirografie alfabetiche. Si tratta, in altri termini, di sistemi di notazione manuale delle emissioni fonetiche, fondati sulla rappresentazione in particole discrete delle componenti del tessuto sonoro verbale. Sono forme di codificazione della comunicazione, della lingua e dunque del pensiero, radicalmente diversi, in quanto a economia mediale e potenza diffusiva del sapere, rispetto ai sistemi ideografici che li hanno preceduti storicamente, peraltro tuttora in uso in ampie aree geografiche. Le scritture infatti hanno avuto origine, circa ottomila anni fa, quando tratti grafici ripetibili e riconoscibili hanno per la prima volta reificato, isolato, spezzato, informato e reso distinto in pittogrammi (segni questi che raffigurano idee invece che suoni) il continuo auditivo della comunicazione, concettualizzandola in simboli, trasformando radicalmente i caratteri (potentemente conservatori, formulaici, paratattici) della cultura orale -alma mater di ogni forma di comunicazione umana. Solo assai più tardi, attraverso un lungo processo genealogico, il tessuto sonoro della lingua si è rappreso in lettere, in segni di suoni, distraendosi dall’originaria immagine figurale di cose/idee rappresentabili, per farsi codice più facilmente condivisibile. L’invenzione straordinaria -se così si può definire- delle vocali, la loro trascrizione in lettere è frutto del mondo ellenico, di pochi secoli anteriore all’era cristiana, esito di una atomistica percezione della struttura fonetica della comunicazione orale. La conseguente estrema riduzione dei segni alfabetici (inferiori ai trenta) operata dai greci meno di tremila anni fa, rispetto agli assai più complessi sistemi sillabici medio-orientali anteriori, ha resa finalmente appieno visibile -in modo straordinariamente efficace, preciso ed economico- la parola, per riversarsi nel sistema dell’alfabeto latino, tuttora egemone in occidente.
Alfabeti
La matura conquista classica dell’alfabeto risulta, dunque, in un codice notazionale di lettere, in un convenzionamento di segni tanto efficace dal punto di vista delle prestazioni quanto semplice da tracciare e apprendere, dotato di notevole stabilità tipologica nella propria configurazione ma non perciò sottratto a continue variazioni morfologiche lungo l’asse del tempo.
Vi è di più: ogni scrittura diviene visibile, si realizza, si effettua solo nel suo materiale farsi segno fisico; ogni impronta letterale, in specie, è risultante dell’interazione tra due vettori, applicati a un codice di configurazione: lo strumento che traccia e il supporto su cui si traccia. A seconda della loro natura, la storia -in estrema sintesi- ha visto evolversi e trasformarsi gli alfabeti, lungo poco lineari percorsi, in due filoni: le “archigrafie” e le “calligrafie”, per usare delle etichette di comodo. Nelle prime, risuona l’accezione più antica dell’etimo stesso di “grafia”, il greco «graféin»: scavare, raschiare, scalfire, incavare, incidere -«sémata grápsas en pináki», «incisi i segni nelle tavole», come recita l’Iliade. È il lavoro dello scalpello (di ogni strumento atto a togliere o incidere la materia del supporto, come per lo scultore) che ha disegnato pazientemente nelle tre dimensioni, per asporto e scavo, l’enorme parco testuale graffito in stele, lapidi, fregi e insigni monumenti classici, vero libro parlante dell’antichità, privilegiato ambito dell’epigrafia. Da una parte, dunque, uno strumento “duro” che scrive tramite rilievi (positivi o negativi) lettere definite da contrasti chiaroscurali: l’archigrafia come pratica incisoria monogrammatica, dal lento tracciamento, che non sopporta indecisioni né tampoco errori; scrittura di lunga durata in supporti durevoli e sostanzialmente immobili, dal segno strutturalmente lapideo, intimamente connesso con le qualità proprie del materiale per eccellenza dell’architettura. Il repertorio che chiamiamo comunemente “maiuscole” ne è il lascito evidente, nella polistratificata storia del complesso artefatto alfabetico. La capitale quadrata dei monumenti romani, che in epoca imperiale si arricchisce dei tratti terminali noti come “grazie”, è una delle due componenti sostanziali del nostro alfabeto, di eccezionale unitarietà formale e coerenza in un arco storico-geografico plurisecolare, obbediente a dettati percettivi rigorosi quanto rifuggenti geometrie elementari, in virtù di una plastica sensibilità alla luce. Dall’altra parte, invece, uno strumento “molle” che scrive lambendo e coprendo il supporto di uno strato, lasciando una saliva, un succo, una bava sulla scia del proprio passaggio. La “calligrafia” come tracciato bidimensionale, macchia, opacità: lo strumento tracciante (calamo, penna, pennello, pennino e simili, propri anche al pittore) è un deposito temporaneo di liquidi scuri e oscuranti, che non toglie ma aggiunge sulla superficie del supporto un visibile indizio del proprio passaggio. L’orma piatta del movimento continuo della mano e non l’urto di una abrasione vela un fondo neutro e assorbente, facendo della lettera figura su sfondo. Dunque, una scrittura in cui risuona l’altra polarità che convive nell’etimo “graféin”: dipingere, figurare, rappresentare; in essa, la piacevole venustà delle tracce, la tattile sensuosità delle grafie, la scioltezza del tratto trova individuale, personale, autoriale espressione. Tendenzialmente continua, fluida, la “calligrafia” esalta la velocità di stesura, il valore figurale dei segni, la loro possibilità di legatura nei poligrammi delle parole e delle abbreviazioni; scrittura di relativamente breve durata in supporti effimeri e sostanzialmente mobili, dal segno strutturalmente morbido, intimamente connesso con le qualità proprie della carta, materiale per eccellenza del disegno artistico. Alla vis sottrattiva della “archigrafia”, corrisponde dunque la natura additiva della “calligrafia”, il cui lascito più forte nella storia del repertorio alfabetico è non a caso la famiglia di lettere che chiamiamo “minuscole”, al termine di un millenario processo di elaborazione della lettera corsiva e rustica latina, cioè delle forme di scrittura classica non monumentali.
Tipi
I tipi mobili di Gutenberg sono invece oggetti fisici, tangibili, manipolabili, discreti: lettere a rilievo in blocchetti di lega di piombo fuso, costitutivamente isolate e separate le une dalle altre, veri tridimensionali monogrammi (fondamentali le osservazioni di Giovanni Anceschi in Monogrammi e figure, al proposito) che vengono affiancati, a rovescio, a comporre le parole, le righe, le colonne, le pagine dei testi. Unita in una forma, la pagina di piombo viene inchiostrata e la sua impronta si trasferisce a pressione sulla carta, scavandola leggermente e depositandovi l’inchiostro. Questa, sommariamente, la stabilissima tecnologia che si trasmette inalterata dalla metà del quattrocento fino alla metà dell’ottocento, resistendo fin quasi i giorni nostri. Le singole fusioni metalliche dei tipi sono ricavate da matrici che ripetono la forma dei punzoni, gli originali incisi (in serie di diverse dimensioni, con opportune correzioni al variare dei “corpi”) dai progettisti delle lettere o da abilissimi interpreti di altrui disegni alfabetici. La storia dell’evoluzione del disegno dei tipi è stringentemente legata al gusto e alla sensibilità architettonica dei tempi, forse più d’ogni altra forma d’arte, per la stringente metrica di reciproci rapporti finissimi e l’inesorabile controllo proporzionale che reclama. Ai nostri fini, che qui non possono essere quelli di ripercorre tale storia ma soltanto di individuare un’epocale frattura ultima, basta rilevare alcuni fattori basilari. Il primo è la contraddittoria condizione iniziale in cui si trovarono i progettisti dei tipi: tentare di replicare al meglio il disegno, il modellato, la fattura di superbe qualità calligrafiche e poligrammatiche delle lettere scrittoriali, chirografiche, amanuensi, insomma la tradizione millenaria in cui vivevano, con un mezzo intrinsecamente monogrammatico. Sia la straordinaria ricchezza di glifi (impercettibili varianti della stessa lettera, in tipi da usarsi in specifici accoppiamenti) della editoria umanistica e rinascimentale, a cominciare dai tipi aldini (tra l’altro, con l’invenzione del carattere corsivo), sia le sottili correzioni ottiche al variare delle misure dei tipi della più schietta tradizione tipografica, ne sono prova e conseguenza diretta, che i secoli provvederanno a stemperare fino a quasi cancellare dal secolo scorso, attutendo progressivamente una sofisticata quanto diffusa sensibilità percettiva degli equilibri visivi nella composizione letterale della pagina. Il secondo è il trionfo dell’umanesimo italiano nei tipi: il rinascimento impone all’occidente l’alfabeto latino, la tonda chiarezza della littera antiqua (non dimentichiamo che la stampa era nata, da poco, con i neri angolosi tipi gotici di Gutenberg) o, meglio, quella originale reinterpretazione dell’antichità classica che è ai fondamenti della risorgenza delle arti nella penisola. Conseguenza ne è la strutturazione finale dei tipi in due “casse”, compresenti in ogni alfabeto completo: gli alti archigrafici, le maiuscole, le lettere capitali quadrate di eredità romana; i bassi calligrafici, le minuscole, lettere che avevano trovato forma ultima nella rinascita carolingia, quasi un millennio dopo -a cui deve aggiungersi una moltitudine di segni analfabetici (dagli accenti alle interpunzioni varie) e le cifre, d’origine indiana, ascendenza araba e diffusione solo due-trecentesca in Europa. Il terzo aspetto è l’intrinseco legame tra strumento tracciante e supporto anche nella tipografia, tra piombo inchiostro carta: una relazione ibrida, uno strumento “duro” che scava il supporto per depositare una traccia liquida, come gli strumenti “molli”, insomma una sottrazione assieme a una addizione.
Neografia
La estrema stabilità della tecnologia gutenberghiana fa sì che, per secoli, il progetto dei tipi evolva lentamente ma significativamente attraverso variazioni morfologiche in relazione diretta e reciproca con tali tre fattori. Gli ultimi decenni dell’ottocento mutano e sviano la grandiosa tradizione secolare di paziente ricerca e di lento perfezionamento tipografico. La comparsa di macchine compositrici, quali la Linotype e la Monotype, a sostituzione della lunga preparazione manuale del testo, accoppiata alla diffusione del pantografo, quale strumento per accelerare il disegno dei tipi a partire da un unico modello per ogni dimensione, segna l’inizio di un processo di forte semplificazione che il novecento ha completato con la messa a punto e il predominio attuale del processo di stampa offset. La stampa offset, in sostanza, trasferisce tramite un tampone cilindrico di gomma l’inchiostratura di una lastra, incisa dai grafismi della pagina, sulla carta: la stampa non è più uno scavo, la pressione è solo quella necessaria al passaggio dal cilindro al foglio; il foglio di carta è, quindi, dipinto o, meglio, spalmato di inchiostro -la condizione tecnica è nuovamente di uno strumento “molle”. Nella seconda metà del nostro secolo, con una accelerazione invasiva dalla seconda metà degli anni ottanta, è mutata radicalmente anche tutta la fase di preparazione, la “prestampa”: la fusione “a caldo” dei tipi è ormai archeologia (e nostalgia, talora) industriale, sostituita prima da procedimenti “a freddo” di fotocomposizione e oggi dal virtuale dei computers. Il tipo digitale, che si materializza al positivo in una pellicola plastica, ha eliminato il piombo secolare. I progettisti di lettere, già dagli anni sessanta, si sono trovati di fronte a incertezze e problemi analoghi ai punzonisti dell’umanesimo: prima tentando di tradurre in “numerico” il repertorio storico di decine di migliaia di tipi nati per il piombo, poi ponendosi la questione critica della coerenza tra sistema strumental-produttivo e disegno delle lettere. Le prime lettere digitali erano formate da una sempre più fine matrice di punti; la tecnologia si è rapidamente evoluta (alla fine degli anni ottanta, con il linguaggio PostScript di descrizione di pagina, fondamento della prestampa odierna), offrendone una descrizione geometrica scalabile delle lettere, che le riduce a pantografi digitali -una serie di accorgimenti (come i MultiMaster) ha tentato senza grandi esiti di porre rimedio a questa condizione di povertà, ereditata dall’ottocento. Il desktop publishing, l’editoria elettronica da scrivania, ponendo potenzialmente nelle mani di tutti formidabili strumenti di disegno digitale dei caratteri (possiamo ancora chiamarli tipi?), ha avviato al contempo una impetuosa rinascita dell’arte del disegno delle lettere in tutto il pianeta, che nel corso degli anni novanta è andata esplodendo, non solo in termini quantitativi. Una nuova consapevolezza della natura ambigua del tipo digitale si va diffondendo, con una diversa maturità problematica, dopo l’orgia spesso indigesta di tanta produzione contemporanea, sospesa sull’onda di entusiasmi neofiti, intemperanze trasgressive e appetiti di mercato. Il tipo digitale deve rispondere, del resto, a esigenze più ampie e diversificate del tipo disegnato per la stampa. Da una parte, l’affermazione evidente del monitor come nuovo supporto della comunicazione, radicalmente diverso dalla carta (la sua risoluzione attuale, cioè la sua finezza di dettaglio delle lettere, è di 1:40 rispetto al libro, la cui carta peraltro assorbe la luce, invece di emetterla) pone una pressante urgenza di disegno di alfabeti per lo schermo, in cui si sono impegnati alcuni tra i più sensibili progettisti attuali -sullo schermo, le lettere possono anche mutare continuamente colore, contorno, disposizione nonché muoversi o emettere suoni. Dall’altra, la trasformazione dei metodi di stampa su carta impone di tener conto di uno sdoppiamento ormai universale dei sistemi: a bassa risoluzione (dal getto d’inchiostro alle laser), in ambiti domestici e d’ufficio; ad alta risoluzione, con l’offset. E in questi casi pure, le esigenze poste al disegno delle lettere sono sensibilmente diverse, per il variare del rapporto tra strumento e supporto. Anche restando nel campo degli alfabeti per la stampa d’alta qualità, la pesante eredità della più conservatrice delle arti, la tipografia, implica a suo modo dei pregiudizi, formali e concettuali, difficili da rimuovere, in assenza di una più diffusa frequentazione critica dei problemi e delle vicende storiche -tra gli operatori tutti del settore-, che non può prescindere dalla conoscenza delle tecniche. In altri termini: nello scegliere, ad esempio, un carattere a stampa come il Bembo è utile sapere che questo è stato prodotto nel 1929 dalla Monotype per il suo sistema di composizione a caldo, sulla base di un tondo disegnato a Venezia da Francesco Griffo per Aldo Manuzio nel 1495, accoppiato a un corsivo ispirato da un alfabeto disegnato ancora a Venezia da Giovanni Tagliente negli anni venti del cinquecento, e che la serena qualità rinascimentale reinventata nel piombo novecentesco non si è persa fortunosamente del tutto nella versione digitale e nella stampa offset? È significativo sapere che l’ubiquo Helvetica di Max Miedinger, della metà degli anni cinquanta, non è altro che un fortunatissimo banale remake del robusto, giusto centenario Akzidenz Grotesk? Dice qualcosa il fatto che un altro carattere eccellente del novecento, il Times New Roman dell’inizio degli anni trenta è un vero pastiche: costruito su assi umanistici, con proporzioni manieriste, pesi barocchi e finitura neoclassica, come ha notato Robert Bringhurst? Fino a che punto è legittimo il riversamento digitale di tipi disegnati per la composizione a mano, al fusione in piombo e la stampa a pressione, che a tante serie di caratteri lascia il sapore dei «traduttori dei traduttor d’Omero»? Che cosa significa, dopo il trionfo degli strumenti di progetto sulle idee dei primi alfabeti digitali, aprés le déluge di una decostruzione sui generis, il ripiegamento in un apparente ritorno all’ordine a cui assistiamo, con il redesign di Baskerville e Bodoni vari? La forte tendenza al recupero delle legature, dei glifi, della figuralità “calligrafica” e i tentativi di correzione ottica di molte delle più interessanti serie alfabetiche digitali contemporanee è l’unica chance che il digitale offre, all’egida di un “recupero” intelligente del passato, della “conservazione” del patrimonio storico? Le radicali ricerche del moderno (con i suoi rigori geometrici, il sogno dei monoalfabeti e analoghe sperimentazioni) non meritano anch’esse una attenta riflessione che vada oltre le semplici fattezze? Oggi, il problema non è forse ancora lo stesso che attraversa la storia intera delle grafie, e pur tuttavia ancor più complesso per la pluralità dei mezzi attuali, cioè quello della forma appropriata e non della “bella forma”, di una adeguata coerenza di relazione tra disegno (digitale) della lettera, strumento tracciante e supporto?
Tra le molte domande che non hanno ancora trovato adeguata risposta nell’occhio del “ciclone” digitale, una emerge, in conclusione, come assolutamente preliminare: non è giunto forse il tempo di dotarsi di strumenti, teorici e progettuali, e di repertori metodici, atti ad affrontare e dar corpo disciplinare a ciò che vorremmo chiamare la scienza della “neografia”, rispettivamente moderna e contemporanea, a disciplinare cioè quanto sarebbe il naturale seguito della paleografia, nel conformarsi delle lettere in forme tipografiche e oggi digitali?
exempla
PostScripti
Sumner Stone
L’acronimo pdl individua il software che nell’editoria digitale serve a descrivere la pagina e i suoi elementi, tipi inclusi. I pdl, a differenza delle “mappe di punti” (bitmaps), sono resolution-indipendent: attualizzano la pagina alla massima risoluzione della periferica di output. Il più noto pdl è il PostScript (peraltro, un versatile general-purpose, simile al Forth), scritto da John Warnock e sodali, alle origini della fortuna planetaria di Adobe Systems, Inc., già dal 1985. Sumner Stone ha ottimizzato il disegno della famiglia di tipi PostScript Stone Sans, Serif e Informal (1987) per la stampa nel limite dei 300 dpi delle prime laser. Erik van Blokland e Just van Rossum hanno utilizzato una subroutine PostScript per provocare graduabili distorsioni casuali nel loro Beowolf (1990).
Addio alle bitmaps
Zuzana Licko
Prima del PostScript, i caratteri digitali erano descritti da matrici più o meno fini di punti o, meglio, di pixel (picture elements): una sorta di graticcio, come nei lavori di cucito della scolastica educazione domestica delle nonne. Ingrandendoli, se ne evidenziava la trama, con una tipica seghettatura o dentellatura che dir si voglia: insomma, si pixellavano! «Il Modula è stato il primo carattere PostScript che ho progettato -spiega Zuzana Licko, magistra litterarum di emigre- con il Macintosh. Nel 1985, il computer era ancora assai rozzo nel disegnare curve ma straordinario per tipi perfettamente geometrici. Come guida, ho usato le proporzioni del mio Emperor 15, un bitmap». «La diagonale a 45°, usata per il Matrix -del 1986, sempre di Licko- è la migliore che una laser può stampare».
Sulle orme del moderno
Meta
La fama vastissima acquisita negli anni ottanta dal britannico Neville Brody è legata anche al disegno di tipi di palese ispirazione “modernista” (con tutte le ambiguità del termine): esemplare il Typeface Two di rigida elementare geometria, concepito per «The Face» nel 1984 (poi distribuito col nome di Industria), con il quale Brody intendeva restituire empaticamente un “clima” razionalista europeo da anni trenta. Altro il caso del Meta, il carattere più fortunato degli anni novanta, utilizzato per qualche tempo anche da «Casabella»; disegnato da Erik Spiekermann, originariamente per le poste tedesche (1984), è figlio spirituale -come suggerisce acutamente Robert Bringhurst- del Goudy Sans (1929-30) dell’americanissimo Frederic Goudy: un assai peculiare “bastoncino modulato”.
Tipi mixeriosi
Beowolf
Esemplari di una tendenza portata dalla natura stessa, dalla complessione intima del digitale (le chances rischiose ma forse necessarie da sperimentare colore, suono, movimento, mutabilità e instabilità, già intuite nel Beowolf di Van Blokland e Van Rossum), i tipi idiosincrasici, mutanti e iperattivi di Elliott Peter Earls -piaciuti a Hollywood e visti perciò nei titoli di film come Spawn, ad esempio- esprimono la particolare verve fusiva e, assieme, la crudele vis destruendi di uno dei più originali allievi di Cranbrook, segnalato ripetutamente da «Casabella» per i suoi cd-rom Throwing Apples at The Sun (645) e Eye Sling Shot Lions (659), che li offrono come bonus.
Il ritorno dei glifi
Mantinia
Il glifo non è un animale mitico: il termine (da glyphé, intaglio) significa ogni incisione in un materiale duro, riferendosi abitualmente a pittogrammi e geroglifici. Per molti secoli, da Gutenberg fino all’ottocento, disegnare i tipi è stato materialmente farli, cioè inciderli nel metallo: l’arte del punzonista. Era anche assai comune che per una stessa lettera o altro segno si realizzassero i punzoni di molte varianti, ovvero glifi diversi -così fecero Francesco Griffo e Simon de Colines, tra i primi. Il magistrale punzonista digitale Matthew Carter è tornato a saggiare la questione dei glifi (e delle legature) con due suoi recenti tipi: Mantinia (1992), complesso alto umanistico («[Mantegna] is the best letterer of any painter»); Sophia (1993), bizantinamente ibrido e densamente cupo.
Calligrafia digitale
Lithos
Per la sua elastica, penetrabile natura (affatto opposta alla fisica solidità del piombo), il tipo digitale pare permettere ogni specie di sperimentazione e di recupero nel disegno alfabetico: avanguardisticamente decostruttive, filologicamente conservativo-ricostruttive del moderno (sono infatti apparse accurate versioni storiche degli ur-tipi di Bayer, Bill, Renner, Tschichold, Van Doesburg et similia), arcaicamente ante-tipografiche (come il fortunato Lithos di Carol Twombly o il più gustoso Herculanum del venerabile Adrian Frutiger), nostalgicamente calligrafiche, sapientemente epigrafiche. Quest’ultimo è il caso dei molti tipi di Paul Shaw e Garret Boge: il set fiorentino (1997) Beata (Bernardo Rossellino), Donatello, Ghiberti; il trio barocco romano (1996) Pontif, Pietra, Cresci.
Decostruzioni
Template Gothic
Il versante più sperimentalista dei nuovi disegnatori di tipi digitali si è accanito negli ultimi anni, con ottimi risultati peraltro, in esercizi sadici di smontaggio, abrasione, corrosione, decoupage, frottage e collage, accoppiati a frankensteiniani trapianti, a mutazioni perverse e a rischiose ibridazioni genetiche, all’egida della morte della storia e della fine della stampa, nel segno di una voluta “illegibilità” accoppiata a una impura “visibilità” delle lettere. Exempla significativi di tutto ciò: il Template Gothic (1990) di Barry Deck, criticamente ispirato dall’insegnamento di Ed Fella (vedi «Casabella» 658), in una sorta di omaggio al vernacolare; il Dead History (1990) di P Scott Makela -altro prodotto di Cranbrook, come peraltro Fella stesso- che, sin dal nome, è tutto un programma…
Ricostruzioni
Mrs Eaves
«Un ritorno di ottocento ha sconfitto alla fine il nostro secolo […] Diciamo con onestà ciò che è: è un’età di Restaurazione. Ma senza Romanticismo. Anzi, sostanzialmente neoclassica. Un neoclassicismo impudicamente avveniristico» ha scritto acutamente Mario Tronti, nel suo più recente libro. Qualcosa di analogo sembra attraversare ultimamente anche il mondo dei tipi: non a caso, Zuzana Licko, una tra le più intelligenti e sensibili protagoniste della scena, autrice di buona parte dei ben noti tipi digital-novissimi di emigré, ha -forse non troppo sorprendentemente- (ri)disegnato il suo ideal-tipo bodoniano con il Filosofia (1996) («before the age of personal computers […] my favourite typeface was Bodoni») e il femminile Mrs Eaves (1996): «my first revival, based on the design of Baskerville».
[Tipologia, in “Casabella” (Milano), 668, giugno, pp. 68-75 e 88-89]
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