[1999#03] tibor kalman
And the Heat Goes On…
Difficile dimenticarla, la grafica della copertina di Remain in Light dei Talking Heads e del “lyric sheet” (donde traggo la frase del titolo) che accompagnava il vinile. Era il 1980 e l’autore dell’artwork era destinato a divenire famoso: si chiamava Tibor Kalman. Ci ha lasciato questa primavera e la sua scomparsa è tanto più drammatica, perché era uno dei pochi della mia generazione ad avere qualcosa da dire nel proprio campo. Kalman non era né un “grafico” né un designer di formazione, il che invero non cambia nulla, anzi è assai istruttivo per un paese, come il nostro, ove i progettisti d’artefatti sono perlopiù degli autodidatti. Kalman era, piuttosto, un outsider sui generis: «sono privo di ogni talento manuale -era pronto a confessare, pochi anni fa-, tuttora non so disegnare e non so come far funzionare un computer». Il suo obiettivo dichiarato era la “comunicazione”, questa vasta confusa metafora che sigilla la nostra civilizzazione attuale; lo interessavano, palesemente, dichiaratamente, sfacciatamente i “contenuti” e non il “contenitore”, cioè (se e quando sia possibile districarli) il messaggio più del mezzo -alla faccia dell’idea che il medium è il messaggio. Il design era per lui solo una tappa, un processo, uno strumento di quanto voleva fare in questo mondo: cercare di cambiarlo, almeno un po’, almeno in parte: «il mio Sacro Graal non è il design, perché il design è un linguaggio, non un messaggio». Nato nel 1949 a Budapest, in Ungheria (paese, peraltro, di grande e assieme poco nota tradizione nel campo della “visualità”: bastino i nome di Huszar e Moholy Nagy, Farago e Biro, Lajos Kozma e Karoly Kos, last but not least di Ferenc -naturalizzato Franco- Pinter), Kalman affronta un destino classico da emigré, quando la famiglia si trasferisce negli Usa, dopo la tragedia del 1956. Frequenta nel 1963-67 la Our Lady of Lourdes High School di Poughkeepsie, luogo noto ai più come la culla e il quartier generale della Ibm; nel 1967-70, studia giornalismo e storia presso la New York University -e conosce Maira, sua compagna di vita. Inizia a lavorare in una libreria di New York, un po’ per caso, come ribadiva spesso d’ogni accadimento della sua esistenza: si tratta della Barnes & Noble, catena destinata a grande fortuna commerciale. Dal 1968 al 1979, Kalman segue la comunicazione tutta di Barnes & Noble (vetrine, segnaletica, allestimenti, pubblicità…), finché nel 1979 fonda M&Co., una vera officina progettuale, di voraci e mobili attitudini, che dalla metà degli anni ottanta mostra uno scatto notevole d’inventiva applicata. «M&Co non ha uno stile -spiegava Kalman, parlando del loro lavoro- ma un metodo, fondato sulle idee»: idee a tratti surreali, talora sarcastiche; e spesso divertite, nonché condite di pungenti provocazioni. Con questo spirito e molti bravissimi collaboratori, M&Co. attraversa gli anni ottanta e sbuca attivissimo nei novanta, operando per tre lustri in uno spettro sempre più ampio, esplorando e travalicando senza timori apparenti confini, mezzi e linguaggi diversi, liberandosi dal convenzionale, a favore di una sapida riappropriazione del vernacolare, con feconda discontinuità. Così, dal dominio tradizionale degli stampati, la M&Co. passa ai video musicali, ai titoli di film, agli spot televisivi, fino al design di oggetti. Si son visti perciò uscire da quella peculiare officina d’idee degli orologi con le cifre scompigliate o con il vetro smerigliato, in modo da sfocar le ore, o quintessenziali come il “dieci.una.quattro”; involucri magrittiani che affermano questo non è un cappello; cartoline raffiguranti stomaci sezionati per un restaurant; video come (Nothing but) Flowers ancora per i Talking Heads -tutto giocato sul rapporto tra parola visibile e immagine del gruppo-; e anche la collaborazione al progetto di recupero di 42nd Street & Times Square a New York (dall’orologio alla città, come vedete, realizzando il sogno di tanto design moderno), oltre a importanti lavori editoriali, quali l’art direction di riviste come «Artforum» (1987-88) o «Interview» (1989-91). «Per me -intuiva già allora Kalman, cogliendo uno dei nodi centrali delle trasformazioni in corso nella comunicazione attuale- il futuro della grafica non è tanto nella pagina stampata, quanto nello schermo». Nel 1990 è il progetto di una rivista a portarlo in Italia: si tratta di «Colors», uno straordinario esperimento, promosso dall’Oliviero (Toscani) nazionale e dalla liberalità benettoniana, che lo ha reso popolarmente famoso, in tutto il mondo e anche da noi. I primi cinque numeri Kalman li cura, dal 1991 al 1993, ancora a New York; dal 1993 al 1995, si trasferisce con la famiglia (che comprende, oltre alla fedele Maira, finissima illustratrice, anche i figli Lulu Bodoni e Alexander Tibor Dibi M.L. Onomatopeia) a Roma, ove realizza altri otto numeri. La serie di «Colors» curata da Kalman termina con la performance di Wordless, un fascicolo composto unicamente d’immagini, scelte tra 25000 scatti. Nell’autunno 1995, Kalman torna a New York, già sofferente. Torna a lavorare come consulente per un’ampia serie di progetti: ancora il recupero di Lower Manhattan; allestimenti per il Whitney Museum (la mostra New York: City of Ambition); invenzioni editoriali per Vitra International, dal magazine «Workspirit» all’apprezzatissima monografia Chairman Rolf Felbaum, già un classico nel suo genere. Ci ha lasciati, troppo presto; vorremmo ricordarne lo spirito, con una sua cruda testuale frase: «Tanta parte di quanto si comunica è merdaccia. Penso che i progettisti dovrebbero veramente impegnarsi dentro i messaggi, cominciare a esaminarli i messaggi, cominciare a commentarli, cominciare a influenzarli».
[And the heat goes on…, in “Casabella” (Milano), 670, settembre, p. 84]
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