[1998#03] grafica italiana
Nel corso dell’anno passato, in quell’ambito editoriale di nicchia (a dire il vero, almeno apparentemente assai stretta, a differenza d’altri paesi europei, Germania e Uk in testa, per non parlare d’Oltreoceano) che in Italia è la grafica si è verificato un fenomeno abbastanza straordinario. Diuturnamente, tradizionalmente, pervicacemente -verrebbe da scrivere- poco frequentato dagli editori, epperciò in materia di prodotti librarii assai magro (un vero stentarello) e quand’anche del tutto occasionali e per nulla organizzati in sistematiche collane o curate serie, quasi privo da tempo di contributi storico-critici generali ma neppur poi troppo grasso quanto ad antologie e monografie, il campo della grafica nel 1997 è stato significativamente segnato e animato ripetutamente al volgere delle stagioni. In primavera è comparso in libreria Questioni di carattere, in estate grafici italiani, in autunno Milano e la grafica in Italia. Forse non è casuale che, ormai prossimi al chiudersi del secolo ventesimo, in odore insomma di bimillenarietà incipienti e collegate giubilazioni, vengano pubblicati questi tre volumi, tutt’e tre sulla grafica italiana; comunque sia circa il caso o no che li ha voluti, l’effetto è utile ed istruttivo, alfine. Nel loro insieme, difatto complementare (a prescindere dalle singole complessioni, approcci e meriti, di cui tenteremo oltre, brevemente, di dir qualcosa criticamente), consentono per la prima volta -tanto al cultore della materia, quanto al lettore genericamente interessato alla questione- di scoprire l’ampio, non sempre limpido, talora inesplorato, troppo spesso obliato, panorama storico della grafica italiana del novecento, trascorrendo con sguardo analitico e possibilmente critico dalla fine ottocento ai giorni nostri ultimissimi. In altri termini, non si può più parlare di grafica italiana in modo ingenuo, generico e approssimativo, com’è dato non di rado rilevare nella (scarsa) pubblicistica (tuttavia) facilona che affligge il settore; e forse non si può trattare neanche di grafica, in termini così generali. Non si può infatti non convenire con gli operatori, gli addetti e gli osservatori in causa sul fatto che il termine grafica ha raggiunto ormai un’ampiezza di accezioni così vasta da renderlo profondamente ambiguo -il che non è, necessariamente, un disvalore. Certo è anche il fatto che lo statuto di autonomia ormai conseguito sul campo da questa disciplina (palese forse più in altri lidi che nel Bel Paese) si è accompagnato a una tale diversificazione delle sue prestazioni, da far sì che sia almeno problematico includervi indifferentemente l’intera gamma di artefatti comunicativi che gli si attribuiscono. Il problema non è nominalistico ma sostanziale, sia per la ridefinizione -assidua, quanto incerta- delle professioni progettuali contemporanee nel dominio bidimensional-comunicativo (non poi trascurabile, parrebbe, per le nostre società spettacolarmente ipervisualizzanti), sia per la mutazione incessante del profilo di un mestiere pratico-operativo, sottoposto a ibridazioni e germinazioni continue come pochi in tempi (iper)moderni. Ciò non toglie né riduce il grave fatto che nella ricezione comune, nell’interpretazione diffusa, nell’intendimento generale, la grafica sia ancora sottoposta nel nostro paese a feroci misintendimenti e a ferali equivoci. Breve elenco triste d’alcuni d’essi, relativi appunto alla grafica: sarebbe, anzitutto, pratica cosmetica (in ciò accomunata al design tutto), in sostanza cioè opera di addetti al trucco, al cerone, alla cipria e al belletto, prima dell’entrata finale in scena d’alcunché; anima portante ne sarebbe una supposta natura pubblicitaria, identificantela perciò con la promozione mercantile e l’azione di vendita; quand’anche così non fosse, si ridurrebbe a vilissima azione tecnico-meccanica, breve interludio preparatorio-ancillare della stampa, absit ergo ogni ragion progettuale e sola resti una prestazione, un operare che taluni complicherebbero d’inutilaggini pretestuose, se non presuntuose; per fortuna, la tecnologia consente ormai a tutti d’esser grafici, senza bisogno di (naturali) inclinazioni, (faticose) dedizioni, (lunghi) studi o ingombranti tradizioni (secolari), oggi che il computer ha liberato le frontiere dell’uso dei caratteri, della composizione dei testi, del trattamento delle immagini, dell’impaginazione; si potrebbe continuare la vexata lamentatio, ma è meglio non tediare vieppiù il lettore e tornare ai libri del 1997.
Nella collana Scritture, diretta per i tipi di Stampa alternativa / Graffiti da Giovanni Lussu (ove era comparsa nel 1996 la traduzione di un vero classico, internazionalmente assai fortunato, quale Segni&simboli di Adrian Frutiger, del 1978), Manuela Rattin e Matteo Ricci hanno rielaborato con Questioni di carattere. La tipografia in Italia dell’Unità nazionale agli anni settanta la loro tesi in architettura, conseguita presso il politecnico di Milano nel 1994. Il loro illustre relatore, Giovanni Anceschi, giustamente annuncia nella Prefazione che «questo libro riempie un vuoto bibliografico reale». Non si può non convenire infatti con Anceschi (tra i rari veri cultori in Italia -con Lussu e pochi altri- della materia, della disciplina cioè dei mezzi grafici, degli artefatti comunicativi, dei sistemi notazionali e delle scritture) sull’utilità evidente di una (prima) storia della tipografia nell’Italia post-unitaria. Per trovare qualcosa di analogamente utile circa il nostro paese, bisogna rivolgersi a La scrittura. Ideologia e rappresentazione del 1986, magistrale contributo --di tutt’altro respiro e taglio, sia ben chiaro- di uno studioso straordinario di paleografia (ed affini discipline) quale Armando Petrucci, esito della einaudiana Storia dell’arte italiana. Il volumetto di Rattin e Ricci si articola in tre sezioni: La tipografia dopo l’Unità nazionale si occupa della trattatistica (inter alia, si noti il Manuale pratico per il disegno dei caratteri di Adalberto Libera, del 1938) e della pubblicistica di settore (nella prima parte del secolo fondamentali, su opposte sponde quando si confronteranno, «Il Risorgimento Grafico» e «Campo grafico»; nella seconda, ma non all’altezza dei precedenti, «Graphicus» e «Linea grafica»); I protagonisti del mondo tipografico tratteggia i ritratti di progettisti e produttori maggiori; Il carattere come celebrazione di una cultura conclude un po’ bruscamente il testo, analizzando il Semplicità della Nebiolo (1930) e il Garamond di Simoncini (1958). Emergono dalle nebbie di una storia ingiustamente dimenticata delle arti (tecniche?) le personalità contrastanti di intellettuali, imprenditori e progettisti, artisti e attori di un dibattito peculiarmente italiano, nel bene e nel male, quali: Raffaello Bertieri, Alessandro Butti, Gianolio Dalmazzo, Giulio Da Milano, Carlo Frassinelli, Salvatore Landi, Giovanni Mardersteig, Aldo Novarese (primus inter pares), Francesco Pastonchi, Cesare Ratta, Aldo Tallone. Il merito pionieristico indubbio del lavoro di Rattin e Ricci fa dimenticare le ingenuità di una scrittura giovanilmente incerta, spesso aneddotica più che critica, e taluni pochi svarioni (come Torino capitale del Regno all’inizio del novecento); meno accettabili la scarsezza degli apparati, sia iconografico che bibliografico, la mancanza di confronti puntuali con l’estero e di analisi dell’evoluzione dei mezzi tecnico-produttivi; disturbano particolarmente le frequenti semplificazioni, una certa imprecisione terminologica, alcune assenze e/o dimenticanze, l’assoluta esclusione infine di prospettive (storiche) che conducano al presente, ai giorni della catastrofe digitale.
Nonostante il titolo apparentemente limitativo o forse soltanto occasionalmente suggerito da circostanze editoriali, Milano e la grafica in Italia traccia un ancor più panoramico affresco, tutt’altro che puramente meneghinocentrico, nonostante la rilevanza indubbia della capitale morale per l’industria e l’arte della stampa in Italia. Non la tipo-grafica ma la grafica italiana tutta è finalmente passata in visibile, storica rassegna, dal cartellonismo di fine ottocento agli agitati giorni nostri di tribali e ruspanti progettisti on the road di flyers. Una sfida non da poco per gli autori del volume, tomo di gran formato, testualmente corposo e assai ricco d’immagini, edito per i tipi di Leonardo Arte / Elemond, che ha i suoi più diretti precedenti nell’illustratissimo Visual Design. 50 anni di produzione in Italia, edito da Idealibri nel 1984, e nel bio-cronologico Alle radici della comunicazione visiva italiana di Heinz Waibl, pubblicato nel 1988. Da quanto si desume, Milano e la grafica in Italia fa parte di una nuova serie di grafica (rara avis: non possiamo dimenticare, al proposito, l’antesignana, preziosa Pagina diretta da Pierluigi Cerri per Electa), giacché il titolo dedicato all’Italia è affiancato da La grafica in Olanda di Kees Bros e Paul Hefting, versione assolutamente identica al volume edito originariamente in Olanda nel 1993, che ha dettato evidentemente l’impostazione grafica della collana. Analogamente a Questioni di carattere, anche per Milano e la grafica in Italia si tratta di opera a più mani, frutto di un collettivo autoriale formato da Giorgio Fioravanti (noto per lavori sistematico-divulgativi pubblicati da Zanichelli, come Grafica&Stampa del 1984, Il manuale del grafico del 1987 e Il dizionario del grafico del 1993) e dai più giovani Leonardo Passarelli (laureatosi con una tesi su Franco Grignani) e Silvia Sfligiotti (curatrice della seconda edizione di Grafica&Stampa di Fioravanti, nel 1997). «Tra le tante ipotesi -spiega l’Introduzione--- due sembravano essere le strade percorribili: quella di una narrazione cronologica (…); e quella di una storia delle tipologie»; gli estensori hanno preferito la prima, adottando dalla storia dell’arte un modello vasarianamente biografico, non molto aggiornato sul piano del metodo e non giustificabile semplicemente in base a intenti divulgativi, che si esaurisce sostanzialmente in una didascalica presentazione sequenziale (talora un po’ meccanica, sempre splendidamente illustrata) soprattutto di autori e di alcuni temi, organizzata in sette capitoli, con altrettante presentazioni. L’esplicita rinuncia a incrociare il piano del racconto storico con quello delle tipologie (ipotesi sentita come mutuamente esclusiva) ha comportato, in un’opera come questa di notevole pregio, non solo pionieristico, la perdita di alcune peculiari complessità della materia e di taluni (a nostro avviso) necessari approfondimenti critici. In tal senso, si è persa forse l’occasione di verificare, precisare e metter a fuoco con strumenti d’indagine puntuali la diversa valutazione e la più favorevole considerazione del ruolo della grafica italiana nel novecento, che sta lentamente emergendo nella pubblicistica straniera, in specie di lingua inglese; è il caso almeno di ricordare, al proposito, la notevole sintesi e la capacità di penetrazione della situazione italiana di un titolo destinato a divenire ormai un vero standard, quale Graphic Design. A Concise History, opera di Richard Hollis, edita da Thames and Hudson nel 1994. Tutta indirizzata agli artisti e ai loro testi (in una omogeneità di trattamento che non aiuta a comprendere le gerarchie relative di valore), Milano e la grafica in Italia rischia di far perdere il contesto o, meglio, i contesti, necessario contraltare nel campo della comunicazione: non offre spazio alla committenza (in specie, a varie committenze illuminate d’impresa); non esamina le epocali trasformazioni tecniche di produzione, distribuzione, consumo che si sono susseguite nell’arco di tempo della narrazione; ignora la grafica comune, diffusa, dei francobolli, delle banconote, dei sistemi di trasporto, di etichette e targhette et similia, beni di consumo inclusi; sfiora appena le segnaletiche pubbliche diffuse, urbane ed extraurbane; scapola la non oziosa questione del rapporto con l’illustrazione (terreno esplorato e dissodato con sapienza da Paola Pallottino); non si confronta con la grafica di periodici e quotidiani; evita la grafica della cosiddetta multimedialità, tutto il digital design e affronta perciò con palese disagio gli anni novanta (prova ne siano le molte assenze e una certa confusione sui ruoli); anche sul piano degli apparati, biografie e bibliografia le avremmo volute assai più consistenti, aggiornate e complete. Costruita sul sicuro, il necessario e spesso l’ovvio, in un equilibrio poco problematico, l’opera di Fioravanti, Passarelli e Sfligiotti si rivela indispensabile strumento per chi intenda ripercorrere le vicende della grafica italiana del nostro secolo ormai al tramonto, lungo itinerari certi e senza rischi. La copertina -si noti alfine- rende giusto e doveroso omaggio a un grande tra i maestri del visual design italiano, tuttora operante, l’architetto Franco Grignani, rigoroso costruttore ghestaltico e artista op ante litteram; curiosamente, questa copertina costituisce un quasi perfetto, speculare negativo (persino nel taglio) di quella dell’antologia grafici italiani, che l’ha preceduta in libreria di qualche mese.
grafici italiani è una crestomazia della più piena contemporaneità italica, edita per i tipi veneziani di Canal & Stamperia (anche in distinte versioni inglese e francese). L’umorale, episodica, discontinua antologia di autoritratti di 28 studi di progettazione visuale, imbastita e allestita da Giorgio Camuffo (con brevi contributi del sottoscritto, Steven Heller, Franco Grignani, Alan Fletcher, Gillo Dorfles, Bruno Monguzzi, Leo Lionni e AG Fronzoni) ci interroga, prima di tutto, sul senso della compresenza di artefatti comunicativi difformi, distanti, disomogenei -senza nulla togliere al valore delle pluralità espressive e delle ricerche dei singoli, felicemente e necessariamente divergenti- piuttosto che su omogeneità fortuite. Parrebbe però che (riferendosi alla questione di un spazio italiano nella grafica) sia venuta anche a mancare una netta, immediata delimitazione geo-culturale e un’area programmatica di ricerca linguistica, insomma quel riconoscibile confinamento nazionale o stilistico, quel contorno che consentiva di parlare non a sproposito, ad esempio e a piacere, di grafica svizzera o costruttivista, con tutti i limiti di questa e di qualsiasi etichetta. Dalla fine del secolo scorso, attraverso le esperienze storiche di varie generazioni di grafici (ove non sono mancati certo maestri di valore internazionale), fino alle soglie degli anni settanta, lungo l’arco di un secolo almeno, la grafica italiana ha saputo costruire e mantenere delle proprie identità, talora molto forti e sapientemente localizzate. L’impressione attuale di sradicamento non è che un effetto superficiale: al fondo, dissimulati, permangono tratti comuni, si scorge un’identità soffusa ma autoctona. È innegabile infatti riconoscere in queste pagine, al di là delle costruzioni più o meno narcisistiche di ognuno, almeno due moventi italiani. In primo luogo, il policentrismo proprio del Bel Paese, in ogni sua manifestazione culturale (con la feconda dialettica di scambi, e ritorni, tra centro e periferia che ne è sempre conseguita); in secondo luogo, l’attrazione fatale per una forma idiosincratica di progettualità, per una spesso fumosa ma sintomatica «cultura del progetto» che rivela la forte, permanente influenza (se si vuol riflessa, indiretta, mediata oppur solo implicita) delle facoltà di architettura, che va di pari passo con l’assenza pressocché totale di scuole pubbliche specifiche (se si eccettuano gli Isia), nella formazione di buona parte dei nostri grafici. Autodidatti perlopiù, dunque, tesi a reinterpretare le esigenze più disparate che vengono loro proposte dai committenti tramite strumenti, teorici e pratici, acquisiti sul campo, con la duttile capacità di adattamento, ripresa, appropriazione, e con la flessibile intuitività che qualifica le migliori imprese del nostro paese. Il disinteresse pubblico (salvo lodevoli rarissime eccezioni), la feroce distanza delle istituzioni e la conseguente, grave mancanza di diffusione di una cultura visuale definiscono oggi un assetto peculiare del lavoro del grafico italiano, che lo relega spesso a compiti marginali, a un ruolo decorativo se non esornativo. La sempre più critica funzione della progettazione grafica in ogni comparto sia della produzione sia dei servizi sia della vita associata nel mondo contemporaneo sembrano sfuggire alla percezione collettiva, annullando il riconoscimento di virtualità straordinarie per la società e i singoli, per il miglioramento dell’ambiente comunicativo, la gestione delle risorse specifiche, il controllo di una ormai devastante polluzione segnico-visiva nel sistema globale dei media. Al contempo, tale ritardo e simili difficoltà generali si mostrano, a ben considerare le cose, come uno spiraglio profondo per guardare con ottimismo al futuro, come una possibilità da giocare ben ancora aperta, come un percorso difficile da transitare ma non impossibile da indirizzare, come una eccezionale chance, in breve, per la grafica italiana.
[Itinerari della grafica italiana del novecento, in “Casabella” (Milano), 656, maggio, pp. 89-92]
Nella collana Scritture, diretta per i tipi di Stampa alternativa / Graffiti da Giovanni Lussu (ove era comparsa nel 1996 la traduzione di un vero classico, internazionalmente assai fortunato, quale Segni&simboli di Adrian Frutiger, del 1978), Manuela Rattin e Matteo Ricci hanno rielaborato con Questioni di carattere. La tipografia in Italia dell’Unità nazionale agli anni settanta la loro tesi in architettura, conseguita presso il politecnico di Milano nel 1994. Il loro illustre relatore, Giovanni Anceschi, giustamente annuncia nella Prefazione che «questo libro riempie un vuoto bibliografico reale». Non si può non convenire infatti con Anceschi (tra i rari veri cultori in Italia -con Lussu e pochi altri- della materia, della disciplina cioè dei mezzi grafici, degli artefatti comunicativi, dei sistemi notazionali e delle scritture) sull’utilità evidente di una (prima) storia della tipografia nell’Italia post-unitaria. Per trovare qualcosa di analogamente utile circa il nostro paese, bisogna rivolgersi a La scrittura. Ideologia e rappresentazione del 1986, magistrale contributo --di tutt’altro respiro e taglio, sia ben chiaro- di uno studioso straordinario di paleografia (ed affini discipline) quale Armando Petrucci, esito della einaudiana Storia dell’arte italiana. Il volumetto di Rattin e Ricci si articola in tre sezioni: La tipografia dopo l’Unità nazionale si occupa della trattatistica (inter alia, si noti il Manuale pratico per il disegno dei caratteri di Adalberto Libera, del 1938) e della pubblicistica di settore (nella prima parte del secolo fondamentali, su opposte sponde quando si confronteranno, «Il Risorgimento Grafico» e «Campo grafico»; nella seconda, ma non all’altezza dei precedenti, «Graphicus» e «Linea grafica»); I protagonisti del mondo tipografico tratteggia i ritratti di progettisti e produttori maggiori; Il carattere come celebrazione di una cultura conclude un po’ bruscamente il testo, analizzando il Semplicità della Nebiolo (1930) e il Garamond di Simoncini (1958). Emergono dalle nebbie di una storia ingiustamente dimenticata delle arti (tecniche?) le personalità contrastanti di intellettuali, imprenditori e progettisti, artisti e attori di un dibattito peculiarmente italiano, nel bene e nel male, quali: Raffaello Bertieri, Alessandro Butti, Gianolio Dalmazzo, Giulio Da Milano, Carlo Frassinelli, Salvatore Landi, Giovanni Mardersteig, Aldo Novarese (primus inter pares), Francesco Pastonchi, Cesare Ratta, Aldo Tallone. Il merito pionieristico indubbio del lavoro di Rattin e Ricci fa dimenticare le ingenuità di una scrittura giovanilmente incerta, spesso aneddotica più che critica, e taluni pochi svarioni (come Torino capitale del Regno all’inizio del novecento); meno accettabili la scarsezza degli apparati, sia iconografico che bibliografico, la mancanza di confronti puntuali con l’estero e di analisi dell’evoluzione dei mezzi tecnico-produttivi; disturbano particolarmente le frequenti semplificazioni, una certa imprecisione terminologica, alcune assenze e/o dimenticanze, l’assoluta esclusione infine di prospettive (storiche) che conducano al presente, ai giorni della catastrofe digitale.
Nonostante il titolo apparentemente limitativo o forse soltanto occasionalmente suggerito da circostanze editoriali, Milano e la grafica in Italia traccia un ancor più panoramico affresco, tutt’altro che puramente meneghinocentrico, nonostante la rilevanza indubbia della capitale morale per l’industria e l’arte della stampa in Italia. Non la tipo-grafica ma la grafica italiana tutta è finalmente passata in visibile, storica rassegna, dal cartellonismo di fine ottocento agli agitati giorni nostri di tribali e ruspanti progettisti on the road di flyers. Una sfida non da poco per gli autori del volume, tomo di gran formato, testualmente corposo e assai ricco d’immagini, edito per i tipi di Leonardo Arte / Elemond, che ha i suoi più diretti precedenti nell’illustratissimo Visual Design. 50 anni di produzione in Italia, edito da Idealibri nel 1984, e nel bio-cronologico Alle radici della comunicazione visiva italiana di Heinz Waibl, pubblicato nel 1988. Da quanto si desume, Milano e la grafica in Italia fa parte di una nuova serie di grafica (rara avis: non possiamo dimenticare, al proposito, l’antesignana, preziosa Pagina diretta da Pierluigi Cerri per Electa), giacché il titolo dedicato all’Italia è affiancato da La grafica in Olanda di Kees Bros e Paul Hefting, versione assolutamente identica al volume edito originariamente in Olanda nel 1993, che ha dettato evidentemente l’impostazione grafica della collana. Analogamente a Questioni di carattere, anche per Milano e la grafica in Italia si tratta di opera a più mani, frutto di un collettivo autoriale formato da Giorgio Fioravanti (noto per lavori sistematico-divulgativi pubblicati da Zanichelli, come Grafica&Stampa del 1984, Il manuale del grafico del 1987 e Il dizionario del grafico del 1993) e dai più giovani Leonardo Passarelli (laureatosi con una tesi su Franco Grignani) e Silvia Sfligiotti (curatrice della seconda edizione di Grafica&Stampa di Fioravanti, nel 1997). «Tra le tante ipotesi -spiega l’Introduzione--- due sembravano essere le strade percorribili: quella di una narrazione cronologica (…); e quella di una storia delle tipologie»; gli estensori hanno preferito la prima, adottando dalla storia dell’arte un modello vasarianamente biografico, non molto aggiornato sul piano del metodo e non giustificabile semplicemente in base a intenti divulgativi, che si esaurisce sostanzialmente in una didascalica presentazione sequenziale (talora un po’ meccanica, sempre splendidamente illustrata) soprattutto di autori e di alcuni temi, organizzata in sette capitoli, con altrettante presentazioni. L’esplicita rinuncia a incrociare il piano del racconto storico con quello delle tipologie (ipotesi sentita come mutuamente esclusiva) ha comportato, in un’opera come questa di notevole pregio, non solo pionieristico, la perdita di alcune peculiari complessità della materia e di taluni (a nostro avviso) necessari approfondimenti critici. In tal senso, si è persa forse l’occasione di verificare, precisare e metter a fuoco con strumenti d’indagine puntuali la diversa valutazione e la più favorevole considerazione del ruolo della grafica italiana nel novecento, che sta lentamente emergendo nella pubblicistica straniera, in specie di lingua inglese; è il caso almeno di ricordare, al proposito, la notevole sintesi e la capacità di penetrazione della situazione italiana di un titolo destinato a divenire ormai un vero standard, quale Graphic Design. A Concise History, opera di Richard Hollis, edita da Thames and Hudson nel 1994. Tutta indirizzata agli artisti e ai loro testi (in una omogeneità di trattamento che non aiuta a comprendere le gerarchie relative di valore), Milano e la grafica in Italia rischia di far perdere il contesto o, meglio, i contesti, necessario contraltare nel campo della comunicazione: non offre spazio alla committenza (in specie, a varie committenze illuminate d’impresa); non esamina le epocali trasformazioni tecniche di produzione, distribuzione, consumo che si sono susseguite nell’arco di tempo della narrazione; ignora la grafica comune, diffusa, dei francobolli, delle banconote, dei sistemi di trasporto, di etichette e targhette et similia, beni di consumo inclusi; sfiora appena le segnaletiche pubbliche diffuse, urbane ed extraurbane; scapola la non oziosa questione del rapporto con l’illustrazione (terreno esplorato e dissodato con sapienza da Paola Pallottino); non si confronta con la grafica di periodici e quotidiani; evita la grafica della cosiddetta multimedialità, tutto il digital design e affronta perciò con palese disagio gli anni novanta (prova ne siano le molte assenze e una certa confusione sui ruoli); anche sul piano degli apparati, biografie e bibliografia le avremmo volute assai più consistenti, aggiornate e complete. Costruita sul sicuro, il necessario e spesso l’ovvio, in un equilibrio poco problematico, l’opera di Fioravanti, Passarelli e Sfligiotti si rivela indispensabile strumento per chi intenda ripercorrere le vicende della grafica italiana del nostro secolo ormai al tramonto, lungo itinerari certi e senza rischi. La copertina -si noti alfine- rende giusto e doveroso omaggio a un grande tra i maestri del visual design italiano, tuttora operante, l’architetto Franco Grignani, rigoroso costruttore ghestaltico e artista op ante litteram; curiosamente, questa copertina costituisce un quasi perfetto, speculare negativo (persino nel taglio) di quella dell’antologia grafici italiani, che l’ha preceduta in libreria di qualche mese.
grafici italiani è una crestomazia della più piena contemporaneità italica, edita per i tipi veneziani di Canal & Stamperia (anche in distinte versioni inglese e francese). L’umorale, episodica, discontinua antologia di autoritratti di 28 studi di progettazione visuale, imbastita e allestita da Giorgio Camuffo (con brevi contributi del sottoscritto, Steven Heller, Franco Grignani, Alan Fletcher, Gillo Dorfles, Bruno Monguzzi, Leo Lionni e AG Fronzoni) ci interroga, prima di tutto, sul senso della compresenza di artefatti comunicativi difformi, distanti, disomogenei -senza nulla togliere al valore delle pluralità espressive e delle ricerche dei singoli, felicemente e necessariamente divergenti- piuttosto che su omogeneità fortuite. Parrebbe però che (riferendosi alla questione di un spazio italiano nella grafica) sia venuta anche a mancare una netta, immediata delimitazione geo-culturale e un’area programmatica di ricerca linguistica, insomma quel riconoscibile confinamento nazionale o stilistico, quel contorno che consentiva di parlare non a sproposito, ad esempio e a piacere, di grafica svizzera o costruttivista, con tutti i limiti di questa e di qualsiasi etichetta. Dalla fine del secolo scorso, attraverso le esperienze storiche di varie generazioni di grafici (ove non sono mancati certo maestri di valore internazionale), fino alle soglie degli anni settanta, lungo l’arco di un secolo almeno, la grafica italiana ha saputo costruire e mantenere delle proprie identità, talora molto forti e sapientemente localizzate. L’impressione attuale di sradicamento non è che un effetto superficiale: al fondo, dissimulati, permangono tratti comuni, si scorge un’identità soffusa ma autoctona. È innegabile infatti riconoscere in queste pagine, al di là delle costruzioni più o meno narcisistiche di ognuno, almeno due moventi italiani. In primo luogo, il policentrismo proprio del Bel Paese, in ogni sua manifestazione culturale (con la feconda dialettica di scambi, e ritorni, tra centro e periferia che ne è sempre conseguita); in secondo luogo, l’attrazione fatale per una forma idiosincratica di progettualità, per una spesso fumosa ma sintomatica «cultura del progetto» che rivela la forte, permanente influenza (se si vuol riflessa, indiretta, mediata oppur solo implicita) delle facoltà di architettura, che va di pari passo con l’assenza pressocché totale di scuole pubbliche specifiche (se si eccettuano gli Isia), nella formazione di buona parte dei nostri grafici. Autodidatti perlopiù, dunque, tesi a reinterpretare le esigenze più disparate che vengono loro proposte dai committenti tramite strumenti, teorici e pratici, acquisiti sul campo, con la duttile capacità di adattamento, ripresa, appropriazione, e con la flessibile intuitività che qualifica le migliori imprese del nostro paese. Il disinteresse pubblico (salvo lodevoli rarissime eccezioni), la feroce distanza delle istituzioni e la conseguente, grave mancanza di diffusione di una cultura visuale definiscono oggi un assetto peculiare del lavoro del grafico italiano, che lo relega spesso a compiti marginali, a un ruolo decorativo se non esornativo. La sempre più critica funzione della progettazione grafica in ogni comparto sia della produzione sia dei servizi sia della vita associata nel mondo contemporaneo sembrano sfuggire alla percezione collettiva, annullando il riconoscimento di virtualità straordinarie per la società e i singoli, per il miglioramento dell’ambiente comunicativo, la gestione delle risorse specifiche, il controllo di una ormai devastante polluzione segnico-visiva nel sistema globale dei media. Al contempo, tale ritardo e simili difficoltà generali si mostrano, a ben considerare le cose, come uno spiraglio profondo per guardare con ottimismo al futuro, come una possibilità da giocare ben ancora aperta, come un percorso difficile da transitare ma non impossibile da indirizzare, come una eccezionale chance, in breve, per la grafica italiana.
[Itinerari della grafica italiana del novecento, in “Casabella” (Milano), 656, maggio, pp. 89-92]
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