19.1.04

[1993#04] max huber

Dimmi con chi vai, e ti dirò chi sei!”—adagio popolare

Sulle orme del giovane Max
Max Huber nasce nel 1919 a Baar (Zug), cittadina poco a sud della capitale della Confederazione Elvetica, uno dei paesi eletti della progettazione grafica nella seconda metà del Novecento. Svizzero di lingua tedesca, dunque, Max frequenta le scuole elementari e medie a Baar; e fin da giovanissimo manifesta una particolare predisposizione per le arti visive—durante le vacanze estive a Mühlehorn (Glarus), ad esempio, affascina gli avventori dell’osteria dei nonni con i disegni che traccia col gesso sul tavolone dal piano d’ardesia. Terminato il ginnasio di Baar, nel 1935 inizia a frequentare la Kunstgewerbeschule di Zurigo. La scuola annovera tra i suoi studenti anche Werner Bischof, pioniere della ricerca fotografica “oggettiva”, di cui presto Max diviene amico, seguendone gli esperimenti. Ma il vero pilastro della formazione intellettuale del giovane Max è uno degli insegnanti del corso preparatorio, Alfred Willimann, docente di grafica e foto–grafica, che gli fa conoscere la cultura contemporanea, nelle sue più diverse manifestazioni, e in particolare le ricerche dell’avanguardia, da El Lisickij a Jan Tschichold. È Willimann ad avviare così la sensibilità creativa di Max verso il terreno d’idee entro cui si sviluppa originalmente nel tempo, indirizzandolo a una forma rigorosa di cultura visiva capace di alimentarne e guidarne la ricerca. Willimann è del resto personaggio notevole nella cultura svizzera contemporanea, come artista, membro sin dal 1932 di “Abstraction–Création”, una sorta di internazionale della non–figurazione, dell’arte geometrico–costruttiva che aveva avuto le sue fondazioni soprattutto nei movimenti più radicalmente “astratti” dei Paesi Bassi e della Unione Sovietica, tra la fine degli anni Dieci e gli anni Venti.

Arte astratta, arte concreta
Sia pure en passant, bisogna rammentare al proposito, infatti, che poco prima di morire, al termine di una lunga e sofferta esperienza (non priva di contraddizioni) che ne aveva fatto la figura chiave di “De Stijl” e del neoplasticismo olandese, C.E.M. Küpper—meglio noto come Theo van Doesburg—fonda a Parigi nel 1930 la rivista “Art Concret”, di cui esce il solo numero introduttivo. Questo ennesimo, poco noto e forse malinteso ultimo sforzo del geniale agit–prop olandese è destinato a delineare una ipotesi vagliata nei due decenni successivi, con eco non solo europea: l’arte deve “tendere alla chiarezza assoluta”—spiegano i testi programmatici della rivista—cioè alla “pittura concreta e non astratta, perché non c’è nulla di più concreto, di più reale, di una linea, di un colore, di un piano […] L’evoluzione della pittura non è che la ricerca intellettuale della verità attraverso la cultura visiva […] La pittura è un mezzo per la realizzazione visiva del pensiero: ogni quadro è un pensiero–colore”poiché “non c’è niente da leggere nella pittura. C’è da vedere”. Nello stesso anno, Michel Seuphor, l’artista e critico francese, amico e biografo di Piet Mondrian, fonda—in significativa polemica con Van Doesburg—un’altra rivista a Parigi, dal nome altrettanto programmatico, “Cercle et Carré”, con programmi non poi troppo diversi. I due tentativi confluiscono, in un certo senso, nel 1931, con la nascita di “Abstraction–Création. Art non figuratif”, una rivista e un gruppo, cosmopolita e disomogeneo, in cui si riconoscono molti artisti non figurativi presenti a Parigi—da Kandinskij a Mondrian, da Pevsner a Gabo, da Arp a Schwitters, da Nicholson a Moholy–Nagy, da Kupka a Delaunay, da Albers a Magnelli, da Herbin a Hélion, per non citare che i primi—e poi una serie amplissima di associati in tutta Europa e oltre, fino a superare i 400 membri (prima di sciogliersi, nei secondi anni Trenta), con 13 svizzeri, tra cui Sophie Taeuber–Arp, Max Bill e Willimann appunto, il primo maestro di Max.

Da Zurigo a Milano, andata…Ma torniamo adesso sulle orme di Max. Piuttosto di andare a lavorare alla filanda di Baar, visto che la famiglia non può mantenerlo alla Kunstgewerbeschule, Max riesce a impiegarsi nel 1936 come grafico apprendista, presso l’agenzia zurighese P.O. Althaus, dove di lì a poco si ritrova a lavorare con Gerard Miedinger e Emil Schulthess; come apprendista, peraltro, è fortunatamente tenuto a frequentare un giorno alla settimana la scuola, ove può continuare a studiare con Willimann. Nello stesso 1936, presso la Kunsthaus di Zurigo si tiene la mostra Zeitprobleme in der Schweizer Malerei und Skulptur, che deve aver fornito più di una occasione di riflessione a Max—specie quando si sappia che proprio in tale occasione Max Bill scrive nel catalogo un testo (su cui tornerà) dal significativo titolo Konkrete Gestaltung, in diretta sintonia con le posizioni dell’ultimo Van Doesburg. Poco tempo dopo, nel 1939, Schulthess offre al giovane Max una notevole chance, chiamandolo a lavorare come suo assistente per l’impaginazione presso la Conzett+Huber, importante stabilimento editoriale di Zurigo. La Conzett+Huber pubblica in quegli anni due periodici d’avanguardia, schierati su posizioni progressiste, con cui Max si identifica; diretti da Arnold Kübler, ambedue i periodici hanno come art director Schulthess. Si tratta del settimanale “ZI. Zürcher Illustrierte” (destinato a chiudere di lì a qualche anno), primo rotocalco con pagine in quadricromia in Svizzera, e del mensile “Du”, che si avvale anche della collaborazione fotografica di Werner Bischof. Chiamato nel 1939 alla leva secondo l’uso svizzero, Max si ritrova sotto le armi per un certo periodo assieme a Bischof—e avendo modo di conoscere personalmente Bill, Neuburg e Müller Brockmann proprio durante una licenza, prosegue nella serie di incontri e di frequentazioni eccellenti che caratterizzano il suo modo di vivere con occhio curioso e attento, con spirito aperto al nuovo e ai confronti più diversi. Nel 1940, a Max giunge notizia attraverso “Du” che il più importante e qualificato studio italiano, lo studio Boggeri di Milano, cerca un grafico. Ottenuto un temporaneo congedo militare per l’estero, praticamente senza conoscere una parola d’italiano, nel febbraio 1940 Max va a bussare alla porta di Boggeri, con l’avventata fiducia in sé e nei propri mezzi che un ventenne può (e deve) avere.

… e doppio ritorno
Antonio Boggeri, uomo colto e d’orizzonti non provinciali ma internazionali nell’Italia fascista, vero professionista della comunicazione che dagli anni Trenta agli anni Settanta ha attorno a sé molti dei nomi migliori della progettazione grafica in Italia (come Erberto Carboni, Bruno Munari, Remo Mratore, Marcello Nizzoli, Imre Reiner, Xanti Schawinsky, per limitarci all’anteguerra) in un ambiente innovativo sul piano dell’integrazione produttiva e dei metodi di lavoro, sa ben valutare chi ha di fronte: basta una semplice prova, come il bozzetto di un biglietto da visita, per fargli capire la stoffa di Max. Nonostante la giovane età e un’esperienza che, per quanto qualificata, è comunque relativa, Boggeri gli affida subito compiti di grande responsabilità nello studio, che si accompagnano a una notevole libertà inventiva. Altrettanto immediata per Max è la scoperta del milieu milanese più vicino ai suoi interessi e al suo bisogno di sapere, per cui (facendo perno sulla libreria Salto, assai più un luogo di cultura che di commercio) conosce e frequenta personaggi chiave della cultura e dell’arte quali Franco Albini e i quattro dello studio BBPR, Giovanni Pintori e Albe Steiner, Saul Steinberg e Luigi Veronesi, per citare solo i primi di una lista troppo lunga per essere riportata. La frequentazione si trasforma, in molti casi, in stima e amicizia: con Albe e Lica Steiner, ad esempio, prende a collaborare alla impaginazione del house organ della Bemberg, importante industria tessile, e avvia esperimenti visivi di varia natura. Oltre al lavoro di grafico, Max prosegue insomma nella ricerca a largo spettro, assidua quanto autonoma, che è il tratto peculiare della sua attività, ad esempio perfezionando la tecnica di disegno all’accademia di Brera, oppure saggiando la sua inclinazione alla visione oggettiva con l’indagine fotografica, come prova una serie di immagini di Milano, letta come città attonita e deserta in luoghi perlopiù oggi scomparsi, o un autoritratto straordinario sempre del 1940, che ritrae un giovane dai tratti sì acerbi ma dall’espressione determinata, in una convincente seppur non originale costruzione foto–grammatica. L’Italia fascista va alla guerra, assolutamente impreparata, pochi mesi dopo l’arrivo di Max a Milano, nel giugno 1940; il lavoro, sempre più interessante e impegnativo, subisce le difficoltà del clima bellico: per farla breve, Max è costretto a far ritorno a Zurigo nel 1941. Viene richiamato subito alle armi, ma già nel 1942 può tornare a lavorare da Conzett+Huber, ove collabora con Schulthess a “Du”, mentre fa spesso da assistente a Bischof, sia per la fotografia che per allestimenti di mostre; e progetta manifesti, scenografie, pitture murali. Attraverso Bill, negli anni tragici (anche nella Svizzera neutrale) della guerra, intensifica i suoi rapporti con l’ambiente artistico zurighese che gli è più congeniale, come Hans Arp, Camille Graeser, Leo Leuppi, Richard Paul Lohse—partecipando alle attività della Allianz. Vereinigung moderner Schweizer Künstler e a varie altre iniziative, come la rivista “abstrakt/konkret” (1944–45), vicine alle sue idee. Il suo studio sopra lo Schauspielhaus è punto di ritrovo di uomini di teatro, come Theo Otto, ma anche di esuli italiani, come Ignazio Silone o Franco Fortini. Nel 1945, appena finita la guerra, traversando clandestinamente la frontiera da Vacallo per Como, Max torna a Milano e riprende subito a lavorare con Boggeri. Cerca i vecchi amici, ne incontra di nuovi, come Luigi Longo o Gabriele Mucchi e sua moglie Genni; tramite Steiner, conosce Elio Vittorini (collaborerà più tardi al suo “Il Politecnico”) e Giulio Einaudi.

Gli anni della ricostruzione
Giulio Einaudi gli affida nel 1946 (anno in cui realizza un bel murale per il dancing Sirenella, di cui cura anche i manifesti) il rinnovamento della veste della casa editrice, la più importante in Italia per la cultura, ospitandolo (per abitare e lavorare) negli uffici milanesi; negli incontri settimanali nella sede madre torinese, Max frequenta Italo Calvino, Natalia Ginzburg, Massimo Mila, Cesare Pavese, Fernanda Pivano, Stefano Terra—insomma, si riconosce nel circolo degli intellettuali e degli artisti di sinistra del paese: ben presto, entra in contatto anche con figure come Birolli, Cassinari, Consagra, Dorazio, Fontana, Guttuso, Perilli, Turcato. Nel 1947, lavora a una serie memorabile di mostre: quella itinerante sulla resistenza in Italia (con Remo Muratore, conosciuto nel 1940), quella su “l’Avanti” (con Paolo Grassi), quella dedicata alla arte astratta e concreta, di cui progetta anche la grafica; dello stesso anno, l’exploit, con il suo allievo Ezio Bonini, dell’immagine della VIII Triennale di Milano (materiali a stampa e segnaletica), che ribattezza T8 con sintetica efficacia, in collaborazione con Piero Bottoni. Il 1948 lo vede sempre più impegnato: lavora con lo studio BBPR al progetto del padiglione Terni alla Fiera di Milano; con i fratelli Castiglioni inizia una lunga collaborazione, con una mostra dedicata a Il giornale radio, sempre alla Fiera di Milano, per la Rai, l’ente radio–televisivo italiano; per il festival internazionale di musica contemporanea della Biennale di Venezia, su richiesta del maestro Ferdinando Ballo (conosciuto quell’anno assieme al critico Roberto Leydi), progetta la grafica e la scenografia per L’incubo al teatro la Fenice; vince il primo premio al concorso per il manifesto del Grand Prix di Monza, con una soluzione (memore di Moholy–Nagy) che saprà modulare per anni con abili variazioni a tema; insegna alla scuola Rinascita, accanto a Albe Steiner, Gabriele Mucchi, Luigi Veronesi. Nel 1949, un importante congresso dei Ciam (i Congressi internazionali di architettura moderna fondati nel 1928) si tiene a Bergamo: Max ne cura l’immagine e ha modo di incontrarvi Le Corbusier, Aldo van Eyck e altri protagonisti dell’architettura contemporanea—nello stesso anno, W.H. Sandberg, direttore dello Stedelijk Museum di Amsterdam e grafico di eccezionale talento, chiede a Max di inviargli dei manifesti per la collezione del museo, a dimostrazione di una fama che ormai varca i confini della patria d’elezione e raggiunge le istituzioni sensibili alla cultura delle immagini.

Pensare per immagini
Il resto è storia nota, anche a chi conosca solo a grandi linee le vicende della progettazione grafica nel secondo dopoguerra in Europa. Max ne è stato un protagonista impegnato, tra i maggiori, come viene riconosciuto internazionalmente, dallo scorcio degli anni Quaranta, anni in cui lasciamo di seguirne passo passo le orme, almeno fino a tutti gli anni Settanta, con esperienze paradigmatiche nel graphic design come nell’exhibition design (in specie con i fratelli Castiglioni), nel corporate design e nell’information design; dalla fine degli anni Sessanta, Max torna in Svizzera, in Canton Ticino, facendo il frontaliere alla rovescia con Milano ma intensificando anche i contatti di lavoro con il suo paese d’origine. Il suo lavoro si rivela brillante e accattivante nelle soluzioni, mai scontate ma sospese invece a sottili equilibri guadagnati col gusto del rischio sperimentale, sciolte ed eleganti nel rapporto tra componenti iconica e verbale, né asserviti tra loro né ridotti a mera funzione. L’opera di Huber vive all’insegna di un serrato intreccio, di un fitto dialogo tra i diversi campi in cui egli ha saggiato le sue capacità ideative: dalla progettazione grafica (in tutte le sue complesse sfaccettature) alla pittura, fino alla fotografia e alle altre esperienze visive, in un continuum creativo che non si può ridurre allo specifico dei singoli terreni di sperimentazione. La selezionata antologia della sua produzione di manifesti che qui presentiamo, con diversi bozzetti inediti, è dunque una sezione significativa ma non esaustiva dell’immaginario di Huber, al cui articolato interno va riportata. E almeno non dovremmo dimenticare—se volessimo anche solo limitarci all’attività di progettista grafico che a buon motivo ha reso Max così noto—né il suo fondamentale contributo alla grafica sistematica delle “immagini coordinate” aziendali (tra l’altro, con logotipi storici, quali quelli de la Rinascente, Coin, Esselunga, e con collaborazioni del calibro di quelle per Braendli, Legler, Nava) né le sue indiscusse doti come grafico editoriale (con le collane per Einaudi, ad esempio). In ogni caso, presentando una monografia dedicata a lui al principio degli anni Ottanta, Max ha trovato modo di ribadire la ampia ma non ecumenica latitudine sperimentale del suo atteggiamento di ricerca, col nominarne i modelli ideali: Bayer, El Lisickij, Heartfield, Matter, Moholy–Nagy, Neuburg, Schuitema, Stankowsky, Sutnar, Tschichold, Willimann, Zwart. L’opera di Max va dunque compresa in questi termini globali, nel segno empirico di una tensione verso l’astrazione (ove è assai significativo, ad esempio, il suo insistere—con trame spesso interagenti—su una “figura” generatrice come la spirale, in un cocleare espandersi della casualità della vita nelle regolarità delle forme) che si fa concreta operazione di “verifica dei poteri” delle arti visive e del concetto stesso di Gestalt, affrontando con sperimentale coerenza le “cose” della vita quotidiana, gli oggetti d’uso e quelli della comunicazione. Il suo tentativo (limitato, forse discontinuo, certo però tangibile e fruibile) di dar forma almeno a delle schegge di un sogno generoso, a rischiarsi con serenità in frammenti dell’utopia che aveva animato un filone di ricerca tra i più radicali e affascinanti delle avanguardie artistiche del Novecento—quello che voleva la morte dell’arte nell’estetizzazione diffusa della vita e dell’ambiente—, costringe a rimeditare con chiavi meno settorialmente circoscritte e con più duttili strumenti di interpretazione il contributo di protagonisti come lui alle vicende del contemporaneo “pensar per immagini”, e a immaginare una storia del Bildhafte Denken ancora quasi tutta da scrivere.

[versione originale del testo comparso (in inglese) come Max Huber. Thinking Through Images, in “affiche” (Arnhem), 9, aprile 1994, pp. 46-51, pubblicato poi partim, col titolo Max Huber. Pensare per immagini, in “Casabella” (Milano), 650, novembre 1997, pp. 78-85 (italiano e inglese)]
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