16.1.04

[1993#01] aldo novarese

Ars longa
Pressocché sconosciuta in patria, in generale ignota se non a pochi intendenti, l’opera di Aldo Novarese costituisce uno straordinario contributo di ingegno progettuale italiano a quel mondo di severo rigore estetico che è il disegno delle lettere, il tracciamento delle forme dell’alfabeto, l’invenzione dei caratteri da stampa. Arte a pochi riservata, che oggi vede una impetuosa, entusiastica ma anche confusa e spesso dilettantesca rinascita in altre aree del mondo, in particolare di cultura anglo-sassone. L’Italia vanterebbe, dal canto suo, una tradizione storica di importanza capitale nell’arte della stampa – è forse il caso di rammentarlo? –, di cui resta solo un gigantesco bagliore ammonitore, nella notte del presente. Basti pensare all’altro grande Aldo, ovvero all’importanza per la cultura umanistica dell’officina manuziana, oppure alle imprese bodoniane, destinate a fortune universali, per non citare che due episodi a tutti noti; come ai cultori delle arti del Novecento non suoneranno certo impervi i nomi di Raffaello Bertieri o di Giovanni Mardersteig. Ma questa di far conoscere Novarese vorremmo coglierla anche come occasione per riflettere sullo stato dell’arte di uno dei doni fondamentali della civiltà occidentale: il disegno delle lettere dell’alfabeto. E in effetti, a ben considerare la dialettica tra strumenti tecnici concreti e mezzi progettuali astratti, si deve notare come paradossalmente sia bastato poco più di un decennio – l’ultimo trascorso – per fare di Novarese (uomo di raffinate conoscenze e di rara esperienza progettuale, circa la moderna estetica applicata delle lettere) al contempo tanto una specie di superstite di ere paleotecniche, quanto un prezioso custode di quei “segreti dell’arte” che rischiano di andar persi presto, nella situazione attuale di apocalittica fissione di una secolare tradizione tipografica, risultato di travolgenti e repentine anche se, in fondo, prevedibili trasformazioni produttive.

Uno schizzo biografico
Aldo Novarese nasce nel 1920 a Pontestura, un paese del Monferrato; il padre, agente daziario, lavora a Torino, ove si trasferisce anche la famiglia. Nel capoluogo piemontese, Novarese studia prima alla Scuola Artieri Stampatori, un istituto professionale specializzato, dove apprende anche le varie tecniche artistiche, in specie attraverso l’insegnamento di Francesco Menyey, un docente di origine ungherese; poi perfeziona le sue inclinazioni alla Scuola di Tipografia G.B. Paravia, ove tornerà nel dopoguerra per insegnare estetica tipografica. All’età di sedici anni, nel 1936, viene assunto nello Studio Artistico della Fonderia Nebiolo (diretto a lungo da Alessandro Butti), dove trascorre quasi quarant’anni della sua vita creativa: sin dall’Ottocento, la Nebiolo di Torino è stata la principale (e unica, a scala internazionale) fonderia italiana di caratteri, oggi non più presente nel settore. Nel 1938, Novarese vince una medaglia d’oro ai Ludi Juveniles di regime; poco dopo, chiamato alle armi, è imprigionato per aver protestato contro lo scoppio della guerra e, destinato a dura condanna, viene salvato da quella medaglia. Con l’armistizio del 1943, si unisce alle formazioni partigiane garibaldine che combattono i nazi–fascisti e vive una serie di atroci episodi di guerra, che lo segnano duramente, scampando fortunosamente anche alla fucilazione. Tornato alla Nebiolo dopo la fine della guerra, Novarese diventa direttore dello Studio Artistico negli anni Cinquanta, succedendo a Butti. Mentre conduce anche una intensa carriera professionale parallela quale grafico di notevole estro, prende parte attiva alla vita culturale contemporanea, spesso in solitario polemico scontroso confronto con i colleghi milanesi: insegna nella scuola, scrive sulle riviste specializzate per favorire la diffusione di una vera cultura progettuale tipografica (e nel poverissimo panorama editoriale italiano del settore, in questa seconda parte del Novecento, restano fondamentali due suoi volumi didattici: alfa–beta. Lo Studio e il Disegno del Carattere, del 1964 e Il Segno Alfabetico, del 1971), ma anche investiga di propria iniziativa le tracce insigni della storia della scrittura e della stampa (ad esempio, frequentando i capolavori custoditi nella Marciana), di cui il nostro paese è straordinariamente ricco e dimentico assieme; né manca di mettersi alla prova, con più che lusinghieri risultati, come fotografo e pittore. In questo clima diffusamente creativo, Aldo partecipa fin dagli inizi agli oggi celebri Rencontres de Lureche si tengono in Haute Provence, ove presenta nel 1957 il suo sistema di classificazione dei caratteri, largamente diffuso e ampiamente apprezzato. Nel 1975, dopo quattro decenni di lavoro, Novarese è costretto con grande amarezza a lasciare la Nebiolo che, in un processo di ristrutturazione industriale, chiude il reparto tipografico, la fonderia di caratteri e lo studio artistico, cancellando una secolare eredità di idee, risultati, attrezzature. Dalla seconda metà degli anni Settanta, Novarese entra in quella seconda giovinezza che sta ancora vivendo, riservato e magistrale progettista di caratteri.

I caratteri di Novarese
Anche solo in termini quantitativi, il contributo di Novarese al disegno tipografico contemporaneo è straordinario: più di 100 tipi, variati in un totale di circa 300 serie di “pesi” diversi (e non stiamo scrivendo di schizzi, studi, idee ma di famiglie complete di caratteri, presenti — molti tuttora — nei cataloghi delle migliori fonderie internazionali). L’impressionante sequenza cronologica dei circa 30 tipi (in un centinaio di serie) che Novarese ha disegnato per la Nebiolo, dagli anni ’40 ai ’70, e degli oltre 70 (in più di duecento serie) che ha concepito dalla metà degli anni ’70 parla da sé — ma sarebbe di grande importanza poterla analiticamente illustrare e esaminare, per valutarla anche comparativamente. Il lavoro di Novarese alla Nebiolo comincia, e per un lungo periodo continua, sotto la direzione di Alessandro Butti, figura di notevole importanza nel campo del disegno dei caratteri in Italia. Nella seconda metà degli anni ’30, la Nebiolo aveva presentato almeno tre caratteri interessanti, per motivi diversi: nel 1935, il Neondi Da Milano, tuttora un unicum; nel 1937, il Resolut di Brünnel; nel 1939, il Landi Echo di Butti, una squisita variazione concettuale del Welt. Un’ulteriore variazione del Welt è, di fatto, tra i primi tipi di Novarese: il Landi Linear (1943). Negli anni ’40, ai gemelli Etruria (1940–42) e all’Express (1940–43), Novarese fa seguire la famiglia del Normandia (1946–49, con Butti, e 1952) e le Iniziali Athenaeum (1947). Gli anni ’50 si aprono con il rococò ironico del Fontanesi (1951–54) e il disinibito anacronismo dei bassi del Nova Augustea; al contempo, le serie dell’Egizio (1953–57), di gran successo, sono accompagnate da tre scritti: Cigno (1954), Juliet (1954–55) e Ritmo (1955). Nella seconda metà degli anni ’50, la famiglia del Garaldus (1956–segg.) di finissimo spirito classico ha il suo simmetrico moderno nelle serie del Recta, la “risposta italiana” al dilagare impetuoso nella seconda parte del Novecento dei lineari svizzeri (in primis, lo Helveticadi Miedinger e l’Univers di Frutiger). Poi, al principio degli anni ’60, dopo l’Estro(1961) e l’Exempla (1961), la famiglia scioccamente chiaccherata dell’Eurostile (1961–62) attinge l’alto obiettivo di incarnare un tipo nello “spirito del tempo” mentre un coevo ancora (commercialmente) inedito Patrizia dimostra le capacità intuitive di Novarese. Appena passata la metà degli anni ’60, Novarese tenta di ripetere la mossa doppia (Garaldus/Recta) che aveva saggiato con successo dieci anni prima, con due altri caratteri: Magister (1966) e Forma (1966); mentre la sua sensibilità interpretativa per la storia veniva dimostrata dall’Oscar (1966). Dopo il palese clone del Compacta di Lambert rappresentato dal Metropol (1967), l’Elite conferma quanto Novarese si trovi a proprio agio con gli scritti moderni. Disegnata in apertura degli anni ’70, le serie del Fenice rappresentano veramente una rinascita; e anche se la vicenda della Nebiolo sta per concludersi, i tipi che disegna Novarese poco prima di andarsene sono, in ogni caso, interessanti. Lo Stop (1971) centra in pieno il bersaglio di un carattere logografico, con un successo popolare e planetario che non accenna a scemare; l’egizio Dattilo (1974), la sua ultima creatura per la Nebiolo, chiude una dedizione quarantennale con il sapore sarcastico del tipo da macchina da scrivere. Con la metà degli anni ’70, inizia una nuova era di creatività per Novarese, quella che sta ancora sperimentando: come “artista letterista” free-lance, da allora ha disegnato decine di nuovi tipi, molti inizialmente per l’industria dei trasferibili, oggi in via di estinzione. Qui è impossibile, per ragioni di spazio (ed è comunque inutile, senza adeguata iconografia), dar conto puntualmente di quest’ultimo ventennio; ci si limita, dunque, a rammentare solo tre caratteri, tra i maggiori, del periodo: Mixage (1977), un elegante lineare per la Haas; il Symbol (1982), un altro notevole lineare per la Itc; e, di poco antecedente, il carattere che ha reso noto il suo nome a tutti coloro che coi tipi progettano e lavorano, un vero capolavoro del disegno tipografico degli anni ’70, la serie di transizionali per la Itc intitolata Novarese (1978).

Ars est celare artem
Di un fatto, bisogna essere consapevoli: il repertorio storico dei tipi che abbiamo oggi ereditato è cresciuto nei secoli come mezzo di “scrittura artificiale”, in un ambiente di fatto tecnologicamente stabile — la “bottega di Gutenberg” —, sia raccogliendo la sofisticata sapienza di generazioni di incisori di punzoni, sia decantando risposte selettive/adattative alle mutevoli esigenze delle mentalità sociali. Quello di esperire e padroneggiare, attraverso la copia, tale eredità è stato per secoli l’unico sistema di formazione, e probabilmente è ancora quello fondamentale. ”Lettering is a precise art and strictly subject to tradition. – scriveva Arthur Eric Rowton Gill, esprimendo un’opinione che vorremmo poter sottoscrivere anche per l’oggi – The New Art notion, that you can make letters of whatever shape you like, is as foolish as the notion, that you can make houses any shape you like. You can’t, unless you live all by yourself on a desert island”. Nelle arti applicate di cui ci occupiamo, dunque, innovazione non pare possa significare eterodosse, inedite, incessanti novità, lecite in isole deserte: il “nuovo” come pura differenza, come continua diversità, come inesauribile epifania è soltanto un luogo comune, privo di senso, frutto dell’ideologia delle merci e del mercato. Nel nostro ambito di discorso, quale innovazione va invece intesa ogni trasformazione che nel modo più appropriato sia capace di collegare la storia adattativa incorporata in ogni artefatto ai mutamenti dei mezzi/strumenti di produzione, comunque occorrano. Ciò implica un conseguente scarto, una coerente trasmutazione negli strumentari concettivi e ideativi, che sono sempre stati più lenti a modificarsi delle machinae, costretti tra i flussi delle mentalità comuni e le casualità degli eventi individuali. La sfida di (ogni?) presente sembra essere quella di saper trovar risposte alle proprie domande nel passato: facendo corrispondere mezzi mentali appropriati ai nuovi strumenti, trasformando le idee senza perdere le memorie collettive. Soltanto cercando di scoprire le mutazioni dell’artefatto implicate dal e coerenti con il cambiamento dei mezzi/strumenti, sembra possano liberarsi potenziali creativi. È proprio il tipo di problema che i progettisti di caratteri stanno tornando ad affrontare oggi. Nella seconda metà del Novecento, sono già due volte radicalmente mutati gli strumenti e i mezzi con cui le “pagine” (e i caratteri) vengono resi visibili e sono quindi preparati per la stampa. Con progressiva accelerazione, dai tempi delle macchine compositrici Lynotype e Monotype della prima grande rivoluzione tipografica dai tempi di Gutenberg, circa un secolo fa circa, l’industria editoriale del dopoguerra ha visto nel settore prestampa il prevalere dagli anni Sessanta delle unità dedicate alla fotocomposizione, che hanno ridotto a pura performance tecnica la preparazione delle lastre di stampa; poi, con gli anni Ottanta, la deflagrazione dei sistemi Dtp su personal computer, che hanno in sostanza trasformato le unità di fotocomposizione in puri dispositivi di uscita. Un processo di progressivo entropico “raffreddamento espansivo” ha portato quindi dalla composizione “a caldo“ (carattere, parola, riga) a quella “a freddo“ (colonna) sino alla composizione “virtuale” (pagina) di oggi. Riassumendo ai minimi termini (con tutte le approssimazioni che ciò comporta), il tipo, nella fase primigenia e di lunga durata, era tridimensionale e pesante; nella seconda fase, il carattere è diventato praticamente bidimensionale e quasi senza peso; oggi, le lettere sono semplicemente emissione luminosa. In questo modo, dal punto di vista teorico, le fondamenta stesse di secoli di disegno dei caratteri sono state sovvertite. Le forme delle lettere della nostra “scrittura artificiale” costituiscono storicamente un ramo ipetrofico dell’albero della “scrittura naturale” nella cultura occidentale. La scrittura naturale, in sé, reclama copie elastiche dei modelli delle lettere e implica connessioni fattuali tra le lettere a formare le parole, con la tendenza a rafforzare le mutue relazioni visive. Mentre invece la scrittura artificiale ha obbligato a copie rigide dei modelli delle lettere, implicando solo connessioni percettive tra le lettere, che stanno alla base della loro unificazione virtuale in parole, per prossimità — sul tema, restano fondamentali le considerazioni di Giovanni Anceschi in Monogrammi e figure. In altri termini, la calli–grafia (la scrittura naturale par excellence) si basa sulla continuità del tracciamento, rivelatrice di una certa qual vocazione figurativa; mentre la tipo–grafia (ovvero la scrittura artificiale, sin dai tempi di Gutenberg) si fonda sulla fattuale separazione d’impronta della stampa, che dimostra la natura sostanzialmente monogrammatica dell’artefatto che porta il nome di “tipo”. La rivoluzione copernicana della scrittura virtuale di oggi rappresenta una sfida che può rimettere in gioco tutto. Non solo lo stupefacente trend di perfezionamento attuale nei formati digitali dei caratteri (acquisita la supremazia delle descrizioni matematiche, object–oriented) può consentire il pieno recupero della “sapientia de li antichi”, ad esempio nelle correzioni ottiche al variare dei corpi; non solo si può sperare di porre fine all’incubo ormai senza ragioni (se non storiche) delle unità di misura tipografiche in uso, non metriche e incompatibili, anche col buon senso. Vi è di più: la scrittura virtuale permette o, almeno, suggerisce un ripensamento nelle forme del nostro alfabeto tipografico (saranno ancora da chiamar tipi?), delle apparenze delle lettere a stampa: non essendo più intrinsecamente indispensabile la separazione tra le lettere, il loro disegno non deve essere necessariamente governato solo da un principio monogrammatico; anzi, è consentito (almeno) pensare a una nuova ibridazione, poligrammatica o persino blandamente figurativa che sia. È dunque il momento di prendere seriamente in considerazione il fatto che oggi, dopo secoli (e con strumenti di disegno e controllo estremamente potenti), i progettisti di caratteri possono nuovamente esser “padroni” dei loro artefatti e dei loro mezzi di produzione: come per i prototipografi umanisti, bisogna chiedersi, gli sforzi innovativi dei tipografi digitali saranno parte attiva di una grande, nuova rinascenza?
Il rigoroso atteggiamento di cui, con la propria produzione progettuale, continua a dar taciturna, ostinata prova Aldo Novarese, di fronte a tanta chiassosa volgarità mondana di designers e grafici attuali, sottolinea la necessità di una scelta etica, in tempi di confuso autoedonismo e di sciocchi richiami all’ordine. E conforta nel tentare di ribadire una importante convinzione: una severa disciplina di progetto può ancora servire per saggiare e verificare, attraverso gli esiti concreti (epperciò sempre diversi), la appropriatezza delle arti applicate nel risolvere bisogni durevoli e profondamente radicati nell’animo umano, sia individuali che collettivi, sia oggettivo/comunicativi che soggettivo/estetici, senza il narcisismo e le accondiscendenze autobiografiche alle mode dello show–business e alla guerra delle merci del presente.

[pubblicato in inglese come Aldo Novarese: Letters Are Things, in “emigre” (Sacramento), 26, spring 1993, pp. 30-37, e poco dopo come Aldo Novarese. Progettare l’alfabeto, in “Arte|Documento|” (Udine), 7, 1993, pp. 339-344]
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