L'estrema
stabilità della tecnologia gutenberghiana fa sì
che, per secoli, il disegno dei tipi evolva, lentamente ma significativamente,
attraverso variazioni morfologiche in diretta e reciproca relazione
con quei tre fattori. Gli ultimi decenni dell'ottocento mutano
e reindirizzano la grandiosa tradizione secolare di paziente
ricerca e di lento perfezionamento. La comparsa di macchine compositrici,
quali la Linotype e la Monotype, a sostituzione della lunga preparazione
manuale del testo, accoppiata alla diffusione del pantografo,
quale strumento per accelerare il disegno dei tipi a partire
da un unico modello per ogni dimensione, segna l'inizio di un
processo di forte semplificazione che il novecento ha completato
con la messa a punto e il predominio attuale del processo di
stampa offset. La stampa offset, in sostanza, trasferisce tramite
un tampone cilindrico di gomma l'inchiostratura di una lastra,
incisa dai grafismi della pagina, sulla carta. La stampa non
è più uno scavo, la pressione è solo quella
necessaria al passaggio dal cilindro al foglio; il foglio di
carta è, quindi, dipinto o, meglio, spalmato di inchiostro
la condizione tecnica è nuovamente quella di uno
strumento "molle". Nella seconda metà del novecento,
con una accelerazione invasiva dalla seconda metà degli
anni ottanta, è mutata radicalmente anche tutta la fase
di preparazione, la "prestampa": la fusione "a
caldo" dei tipi si è fatta archeologia industriale
(e nostalgia, talora), sostituita prima da procedimenti "a
freddo" di fotocomposizione e oggi dal "virtuale"
dei computers. Il tipo digitale d'oggi, che si materializza al
positivo in una pellicola plastica, ha eliminato il piombo secolare.
I progettisti di lettere, già dagli anni sessanta, si
sono trovati di fronte a incertezze e problemi in qualche modo
analoghi ai punzonisti dell'umanesimo: prima tentando di tradurre
in "numerico" il repertorio storico di decine di migliaia
di tipi nati per il piombo, poi ponendosi la questione della
coerenza tra sistema strumentalproduttivo e disegno delle
lettere. Le prime lettere digitali erano formate da una sempre
più fine matrice di punti; la tecnologia si è rapidamente
evoluta (alla fine degli anni ottanta, con il linguaggio PostScript
di descrizione di pagina, fondamento della prestampa odierna),
offrendone una descrizione geometrica scalabile delle lettere,
che le riduce a pantografi digitali anche se, con una serie
di accorgimenti (ad esempio, i font MultiMaster o i Gx), si è
tentato senza grandi esiti di porre rimedio a questa condizione
di povertà. Il desktop publishing, l'editoria elettronica
da scrivania, ponendo nelle mani di tutti formidabili strumenti
di disegno digitale dei caratteri (ma possiamo ancora chiamarli
tipi?), ha avviato al contempo una impetuosa rinascita dell'arte
del disegno delle lettere in tutto il pianeta, che nel corso
degli anni novanta è andata esplodendo, non solo in termini
quantitativi. Una scia di consapevolezza della natura ambigua
del tipo digitale si è lentamente diffusa, con una diversa
maturità problematica, dopo l'orgia spesso indigesta di
tanta produzione contemporanea, sospesa sull'onda di entusiasmi
neofiti, intemperanze trasgressive e appetiti di mercato. Il
tipo digitale deve rispondere, del resto, a esigenze più
ampie e diversificate del tipo disegnato per la stampa. Da una
parte, l'affermazione evidente del monitor come nuovo supporto
della comunicazione, radicalmente diverso dalla carta (la sua
risoluzione attuale, cioè la sua finezza di dettaglio,
è di 1:40 rispetto al testo di un libro, la cui carta
peraltro assorbe la luce, invece di emetterla) pone una pressante
urgenza di disegno di alfabeti per lo schermo, in cui si sono
impegnati alcuni tra i più sensibili progettisti attuali
ma sullo schermo, le lettere possono anche mutare continuamente
colore, contorno, disposizione nonché muoversi o emettere
suoni. |
Dall'altra,
la trasformazione dei metodi di stampa su carta impone di tener
conto di uno sdoppiamento ormai universale dei sistemi: a bassa/media
risoluzione (dal getto d'inchiostro alle laser), in ambiti domestici
e d'ufficio; ad alta risoluzione, in ambito industriale (con
l'offset e altre soluzioni di stampa ad alta tiratura). E pure
in questi casi, le esigenze che s'impongono al disegno delle
lettere sono sensibilmente diverse, per il variare del rapporto
tra strumento e supporto. Restando nel campo degli alfabeti per
la stampa d'alta qualità, la pesante eredità della
più conservatrice delle arti, la tipografia, implica comunque
dei pregiudizi, formali e concettuali, difficili da rimuovere,
in assenza di una più diffusa frequentazione critica dei
problemi e delle vicende storiche tra gli operatori tutti
del settore , che non può prescindere dalla conoscenza
delle tecniche. In altri termini: nello scegliere, ad esempio,
un carattere a stampa come il Bembo non è forse è
utile sapere che questo è stato prodotto nel 1929 dalla
Monotype per il suo sistema di composizione a caldo, sulla base
di un tondo disegnato a Venezia da Francesco Griffo per Aldo
Manuzio nel 1495, accoppiato a un corsivo ispirato da un alfabeto
disegnato ancora a Venezia da Giovanni Tagliente negli anni venti
del cinquecento, e che la serena qualità rinascimentale
reinventata nel piombo novecentesco non si è persa fortunosamente
del tutto nella versione digitale e nella stampa offset? È
significativo sapere che l'ubiquo Helvetica (forse lo conoscete
come Arial) di Max Miedinger, della metà degli anni cinquanta,
non è altro che un fortunatissimo quanto banale remake
del robusto, poco più che centenario Akzidenz Grotesk?
Dice qualcosa il fatto che un altro carattere eccellente del
novecento, il Times New Roman dell'inizio degli anni trenta è
un vero pastiche: costruito su assi umanistici, con proporzioni
manieriste, pesi barocchi e finitura neoclassica, come ha notato
Robert Bringhurst? Fino a che punto è legittimo il riversamento
digitale di tipi disegnati per la composizione a mano, la fusione
in piombo e la stampa a pressione, che a tante serie di caratteri
lascia il sapore dei "traduttori dei traduttor d'Omero"?
Che cosa significa, dopo il trionfo degli strumenti di progetto
sulle idee dei primi alfabeti digitali, aprés le déluge
di una decostruzione sui generis, il ripiegamento in un apparente
"ritorno all'ordine" a cui assistiamo, con il redesign
di Baskerville e Bodoni vari? La forte tendenza al recupero delle
legature, dei glifi, della figuralità "calligrafica"
e i tentativi di correzione ottica di molte delle più
interessanti serie alfabetiche digitali contemporanee è
l'unica chance che il digitale offre, all'egida di un "recupero"
intelligente del passato, della "conservazione" del
patrimonio storico? Le radicali ricerche del moderno (con i suoi
rigori geometrici, il sogno ossessivo dei monoalfabeti e analoghe
sperimentazioni) non meritano anch'esse una attenta riflessione,
che vada oltre la ripresa di semplici fattezze? Oggi, il problema
non è forse ancora lo stesso che attraversa la storia
intera delle grafie, e pur tuttavia ancor più complesso
per la pluralità dei mezzi attuali, cioè quello
della forma appropriata e non della "bella forma",
ossia di una adeguata coerenza di relazione tra disegno (digitale)
della lettera, strumento tracciante e supporto? Tra le molte
domande che non hanno ancora trovato adeguata risposta nell'occhio
del ciclone digitale, una emerge, in conclusione, come assolutamente
preliminare: non è giunto forse il tempo di dotarsi di
strumenti, teorici e progettuali, e di repertori, storicocritici
e metodici, atti ad affrontare e dar corpo disciplinare a ciò
che si potrebbe chiamare "neografia", rispettivamente
moderna e contemporanea, a disciplinare cioè quanto sarebbe
il naturale seguito della paleografia, nel conformarsi delle
lettere in forme tipografiche e oggi digitali? |