neografia

Roland Barthes 

"I nostri eruditi non hanno studiato a fondo che le scritture antiche: la scienza della scrittura non ha mai ricevuto altro che un sol nome: la paleografia, descrizione fine, minuziosa dei geroglifici, delle lettere greche e latine, abile mestiere degli archeologi nel decifrare antiche scritture sconosciute. Ma sulla nostra scrittura moderna, nulla: la paleografia si ferma al XVI secolo, e pur tuttavia come si fa a non immaginare che tutta una sociologia storica, un'immagine complessa dei rapporti che l'uomo classico intratteneva con il suo corpo, le sue leggi, le sue origini, potrebbe uscire da una siffatta neografia che ora non esiste? [...] ma le scritture del XIX secolo? o persino quelle del nostro secolo?".

L'estrema stabilità della tecnologia gutenberghiana fa sì che, per secoli, il disegno dei tipi evolva, lentamente ma significativamente, attraverso variazioni morfologiche in diretta e reciproca relazione con quei tre fattori. Gli ultimi decenni dell'ottocento mutano e reindirizzano la grandiosa tradizione secolare di paziente ricerca e di lento perfezionamento. La comparsa di macchine compositrici, quali la Linotype e la Monotype, a sostituzione della lunga preparazione manuale del testo, accoppiata alla diffusione del pantografo, quale strumento per accelerare il disegno dei tipi a partire da un unico modello per ogni dimensione, segna l'inizio di un processo di forte semplificazione che il novecento ha completato con la messa a punto e il predominio attuale del processo di stampa offset. La stampa offset, in sostanza, trasferisce tramite un tampone cilindrico di gomma l'inchiostratura di una lastra, incisa dai grafismi della pagina, sulla carta. La stampa non è più uno scavo, la pressione è solo quella necessaria al passaggio dal cilindro al foglio; il foglio di carta è, quindi, dipinto o, meglio, spalmato di inchiostro ­ la condizione tecnica è nuovamente quella di uno strumento "molle". Nella seconda metà del novecento, con una accelerazione invasiva dalla seconda metà degli anni ottanta, è mutata radicalmente anche tutta la fase di preparazione, la "prestampa": la fusione "a caldo" dei tipi si è fatta archeologia industriale (e nostalgia, talora), sostituita prima da procedimenti "a freddo" di fotocomposizione e oggi dal "virtuale" dei computers. Il tipo digitale d'oggi, che si materializza al positivo in una pellicola plastica, ha eliminato il piombo secolare. I progettisti di lettere, già dagli anni sessanta, si sono trovati di fronte a incertezze e problemi in qualche modo analoghi ai punzonisti dell'umanesimo: prima tentando di tradurre in "numerico" il repertorio storico di decine di migliaia di tipi nati per il piombo, poi ponendosi la questione della coerenza tra sistema strumental­produttivo e disegno delle lettere. Le prime lettere digitali erano formate da una sempre più fine matrice di punti; la tecnologia si è rapidamente evoluta (alla fine degli anni ottanta, con il linguaggio PostScript di descrizione di pagina, fondamento della prestampa odierna), offrendone una descrizione geometrica scalabile delle lettere, che le riduce a pantografi digitali ­ anche se, con una serie di accorgimenti (ad esempio, i font MultiMaster o i Gx), si è tentato senza grandi esiti di porre rimedio a questa condizione di povertà. Il desktop publishing, l'editoria elettronica da scrivania, ponendo nelle mani di tutti formidabili strumenti di disegno digitale dei caratteri (ma possiamo ancora chiamarli tipi?), ha avviato al contempo una impetuosa rinascita dell'arte del disegno delle lettere in tutto il pianeta, che nel corso degli anni novanta è andata esplodendo, non solo in termini quantitativi. Una scia di consapevolezza della natura ambigua del tipo digitale si è lentamente diffusa, con una diversa maturità problematica, dopo l'orgia spesso indigesta di tanta produzione contemporanea, sospesa sull'onda di entusiasmi neofiti, intemperanze trasgressive e appetiti di mercato. Il tipo digitale deve rispondere, del resto, a esigenze più ampie e diversificate del tipo disegnato per la stampa. Da una parte, l'affermazione evidente del monitor come nuovo supporto della comunicazione, radicalmente diverso dalla carta (la sua risoluzione attuale, cioè la sua finezza di dettaglio, è di 1:40 rispetto al testo di un libro, la cui carta peraltro assorbe la luce, invece di emetterla) pone una pressante urgenza di disegno di alfabeti per lo schermo, in cui si sono impegnati alcuni tra i più sensibili progettisti attuali ­ ma sullo schermo, le lettere possono anche mutare continuamente colore, contorno, disposizione nonché muoversi o emettere suoni. Dall'altra, la trasformazione dei metodi di stampa su carta impone di tener conto di uno sdoppiamento ormai universale dei sistemi: a bassa/media risoluzione (dal getto d'inchiostro alle laser), in ambiti domestici e d'ufficio; ad alta risoluzione, in ambito industriale (con l'offset e altre soluzioni di stampa ad alta tiratura). E pure in questi casi, le esigenze che s'impongono al disegno delle lettere sono sensibilmente diverse, per il variare del rapporto tra strumento e supporto. Restando nel campo degli alfabeti per la stampa d'alta qualità, la pesante eredità della più conservatrice delle arti, la tipografia, implica comunque dei pregiudizi, formali e concettuali, difficili da rimuovere, in assenza di una più diffusa frequentazione critica dei problemi e delle vicende storiche ­ tra gli operatori tutti del settore ­, che non può prescindere dalla conoscenza delle tecniche. In altri termini: nello scegliere, ad esempio, un carattere a stampa come il Bembo non è forse è utile sapere che questo è stato prodotto nel 1929 dalla Monotype per il suo sistema di composizione a caldo, sulla base di un tondo disegnato a Venezia da Francesco Griffo per Aldo Manuzio nel 1495, accoppiato a un corsivo ispirato da un alfabeto disegnato ancora a Venezia da Giovanni Tagliente negli anni venti del cinquecento, e che la serena qualità rinascimentale reinventata nel piombo novecentesco non si è persa fortunosamente del tutto nella versione digitale e nella stampa offset? È significativo sapere che l'ubiquo Helvetica (forse lo conoscete come Arial) di Max Miedinger, della metà degli anni cinquanta, non è altro che un fortunatissimo quanto banale remake del robusto, poco più che centenario Akzidenz Grotesk? Dice qualcosa il fatto che un altro carattere eccellente del novecento, il Times New Roman dell'inizio degli anni trenta è un vero pastiche: costruito su assi umanistici, con proporzioni manieriste, pesi barocchi e finitura neoclassica, come ha notato Robert Bringhurst? Fino a che punto è legittimo il riversamento digitale di tipi disegnati per la composizione a mano, la fusione in piombo e la stampa a pressione, che a tante serie di caratteri lascia il sapore dei "traduttori dei traduttor d'Omero"? Che cosa significa, dopo il trionfo degli strumenti di progetto sulle idee dei primi alfabeti digitali, aprés le déluge di una decostruzione sui generis, il ripiegamento in un apparente "ritorno all'ordine" a cui assistiamo, con il redesign di Baskerville e Bodoni vari? La forte tendenza al recupero delle legature, dei glifi, della figuralità "calligrafica" e i tentativi di correzione ottica di molte delle più interessanti serie alfabetiche digitali contemporanee è l'unica chance che il digitale offre, all'egida di un "recupero" intelligente del passato, della "conservazione" del patrimonio storico? Le radicali ricerche del moderno (con i suoi rigori geometrici, il sogno ossessivo dei monoalfabeti e analoghe sperimentazioni) non meritano anch'esse una attenta riflessione, che vada oltre la ripresa di semplici fattezze? Oggi, il problema non è forse ancora lo stesso che attraversa la storia intera delle grafie, e pur tuttavia ancor più complesso per la pluralità dei mezzi attuali, cioè quello della forma appropriata e non della "bella forma", ossia di una adeguata coerenza di relazione tra disegno (digitale) della lettera, strumento tracciante e supporto? Tra le molte domande che non hanno ancora trovato adeguata risposta nell'occhio del ciclone digitale, una emerge, in conclusione, come assolutamente preliminare: non è giunto forse il tempo di dotarsi di strumenti, teorici e progettuali, e di repertori, storico­critici e metodici, atti ad affrontare e dar corpo disciplinare a ciò che si potrebbe chiamare "neografia", rispettivamente moderna e contemporanea, a disciplinare cioè quanto sarebbe il naturale seguito della paleografia, nel conformarsi delle lettere in forme tipografiche e oggi digitali?